La spiaggia che assorbe la luce assieme al mare d’Islanda

È soltanto una volta scesi dall’aereo e lasciata Reykjavík, percorrendo la grande Hringvegur, o strada ad anello che circonda un’intera nazione nel mezzo dell’Oceano Atlantico verso la costa meridionale della terra vulcanica per eccellenza, che si acquisisce realmente la sensazione di trovarsi su un’altro pianeta. Tra zone verdeggianti e montagne pietrose, parallelamente a ruscelli che trasformano in sottili e scintillanti cascate. Dove lo sguardo rapito non può che lasciare la strada asfaltata, verso i rilievi che formano l’anfiteatro distante da cui provengono quelle misteriose nebbie cineree, esalazioni dalle viscere stesse del Profondo. In luoghi come il vulcano di Katla, ospitante il ghiacciaio di Mýrdalsjökull, al cospetto del quale si estende il singolo insediamento più vasto dell’isola, per lo meno dal punto di vista dell’estensione. Quel “villaggio” di Vík í Mýrdal, misurante circa 70 Km da un’estremità all’altra, secondo quanto definito dalle disseminate case dei suoi appena 291 abitanti. Ed è soltanto fermandosi in questo luogo, presso una delle stazioni di ristoro o rinomati piccoli alberghi a disposizione del fiorente turismo locale, che il visitatore potrà iniziare la propria escursione più memorabile, di un viaggio e probabilmente, fase intera della sua stessa vita. Verso una striscia nera di sabbia vulcanica che pare attraversare l’Atlantico, incorniciata tra il promontorio (fjall) di Reynir, nome del primo vichingo che chiamò questo luogo “casa”, e la maestosa formazione rocciosa denominata Dyrhòlaey, un’arco abbastanza alto da permettere il passaggio di un’intera nave.
È Reynisfjara, unica spiaggia non tropicale a figurare regolarmente nelle classifiche di tali luoghi, un territorio battuto dal vento gelido e le onde incessanti provenienti dal Settentrione, dove il visitatore tende a dimenticare la propria identità e luogo di provenienza, mentre si sperimenta la furia possente della natura. Finché una vista assurda e apparentemente illogica, d’un tratto, non lo riporta ad interrogarsi sulla meccanica di quello che sta vedendo; la risacca che sale con insistenza, spingendolo a ritirarsi verso le scoscese pareti basaltiche del promontorio antistante. E poi… Piuttosto che ritornare indietro, sparisce senza lasciare traccia. Sembra di assistere all’effetto grafico di un imperfetto videogame. Poiché ciò che sale, dovrebbe prima o poi percorrere la strada inversa. Non trasformarsi in materia invisibile, ovvero sostanzialmente, lasciare la piena esistenza di questa Terra! Possibile che al di là della nebbia, quel giorno, fossero in atto forze mistiche o sovrannaturali… Come la notte lungamente narrata, in una leggenda folkloristica locale, durante la quale tre giganteschi troll attaccarono una nave da trasporto a largo del Reynisfjall, cercando di trascinarle a riva per trafugarne il carico. Se non che la coraggiosa resistenza dei marinai, spinti dalla forza della disperazione, finì per impegnare i mostri fino al fatidico sorgere dell’astro solare, il cui potere sui vagabondi capaci di rigenerarsi è fin troppo noto; pietrificazione, senza nessuna pietosa via di scampo. Tanto che essi campeggiano, tutt’ora, a largo della spiaggia e in forma di faraglioni erosi dalle onde, tra cui il vento sibila con un velato senso di scherno. Reynisdrangar, è il loro nome, e in alcune versioni del racconto si tratterebbe invece di due giganti e un’incolpevole fanciulla lasciata a trasformarsi in pietra con loro da suo marito, in cambio della promessa da parte dei bruti di non nuocere più all’esistenza e la vita degli umani. Di certo un fato tutt’altro che invidiabile, benché non privo di una certa solennità immanente.
Eppure, strano a dirsi, la spiegazione del gioco di prestigio con l’acqua tra i grani cupi è una commistione di fattori estremamente logici, nient’altro che l’espressione di quel rapporto tra causa-ed-effetto che fin dall’alba dei tempi, ricevette il compito di governare il mondo. Se soltanto una simile astrusa scenografia, così diversa da ogni esperienza pregressa, non facesse tutto il possibile per trasportare la mente a pensieri distanti…

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Un pezzo di Galapagos a un’ora e mezza dal Golden Gate

Quando il 3 gennaio del 1603 padre Antonio de la Ascension, cappellano della spedizione di Don Sebastian Vizcaino, si trovava a largo della costa della California a bordo della nave spagnola San Diego, avvistò per caso una terra collegata al continente da uno stretto istmo di terra, che al suo sguardo apparve come completamente disabitata da esseri umani o animali che non fossero uccelli. All’epoca, era l’usanza che la prima persona che avvistava una caratteristica del territorio scegliesse per loro un nome sulle mappe ufficiali. E così l’ecclesiastico decise di attribuire a quel luogo l’appellativo di Año Nuevo, in onore delle recenti celebrazioni di capodanno che si erano tenute tra i marinai. Ciò che lui non sapeva, tuttavia, è che nell’entroterra della penisola si trovava un villaggio stagionale dei Quroste, tribù dei nativi Ohlone  che era solita sopravvivere pescando e raccogliendo molluschi lungo le vaste spiagge nordamericane, la cui presenza, attraverso i secoli, aveva fatto molto per modificare l’ecosistema locale. Soltanto di passaggio verso la zona di Pescadero per fare rifornimenti, la spedizione non approdò allora in queste terre, rimandando l’incontro con le genti locali fino a un lontano 1769, quando il governatore spagnolo della California Gaspar de Portola condusse un gruppo di conquistatori via terra, stabilendo un primo contatto e dando urgentemente inizio allo sforzo di evangelizzazione missionaria dei senza Dio. A quell’epoca ormai, i processi di erosione avevano fatto sparire completamente il vecchio ponte di terra che la collegava al continente. In breve tempo, le genti di Año Nuevo vennero contagiate da una vasta selezione di malattie europee, morendo e lasciando l’isola completamente disabitata. Fu un caso tragico da cui, tuttavia, nacque qualcosa d’importante: uno dei più preziosi, e largamente incontaminati santuari naturali di questa intera zona del globo, paragonabile per biodiversità e proliferazione al più famoso arcipelago situato a largo dell’Ecuador.
Fatta eccezione per l’assenza di tartarughe giganti quindi (che comunque, non vivono a queste latitudini) praticamente ogni tipo di bestia rara californiana viene rappresentata tra la cornice di queste sabbie mescolate a rocce sedimentarie, inclusa la rana dalle zampe rosse (Rana draytonii) e l’iridescente serpente giarrettiera di San Francisco (Thamnophis sirtalis tetrataenia) oltre a innumerevoli specie di uccelli migratori. Trote arcobaleno (gen. Oncorhynchus) si aggirano nelle aree paludose della foresta ripariale locale. Ma soprattutto, l’isola è stata spontaneamente ripopolata da due varietà di otarie, il leone marino della California (Zalophus californianus) e quello a rischio d’estinzione di Steller (Eumetopias jubatus) al punto che, osservandola da un ipotetica foto satellitare, le moltitudini di grosse creature potrebbero sembrare macigni coperti di muschio o grovigli di alghe trasportate a riva dalla corrente del mare. Eppure, una volta ottenuti i permessi speciali necessari e approdati sull’isola, appare chiaro che i grossi mammiferi sono pressoché ovunque, avendo preso possesso dell’entroterra e persino del gruppo di edifici in stile vittoriano abbandonati, che si trovano nella parte settentrionale del territorio. I quali comprendono gli alloggi, appartenuti a partire dal 1872 al guardiano del punto di avvistamento per le navi di passaggio, inclusivo in un primo momento di sirena da nebbia e a partire dal 1890 di una vera e propria torre del faro, oggigiorno ormai demolita da tempo. E la ragione, potete facilmente immaginarla: i due gruppi di otarie, creature curiose e sempre in cerca di luoghi da esplorare, avevano eletto la zona ad un proprio riparo dagli elementi, arrivando ad arrampicarsi lungo le scale fino al primo piano dell’abitazione. Ragione per cui, venne deciso di eliminare la struttura più alta e pericolante, un potenziale rischio per la loro sopravvivenza.
Per molti degli “studiosi”, i “ricercatori” e gli altri fortunati o volenterosi a cui viene concesso l’accesso di questo santuario, tuttavia, le otarie sono una presenza costante quanto ininfluente ai fini dei loro progetti operativi. Che si concentrano, in massima parte, nei confronti di quelle creature che pur essendo soltanto di passaggio, necessitano di quest’isola come irrinunciabile punto di sosta di un lungo viaggio;

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La cattedrale di marmo scolpita dalle acque della Patagonia

Come in un sogno, ripercorro i passaggi che mi hanno portato a vivere questo scenario senza pari: le 15 ore del volo diretto su un jet di linea da Roma a Santiago del Cile. E il charter che mi ha portato, con ulteriori due di attesa, dalla capitale dello stato formato da una lunga striscia verticale sul Pacifico, fino al comune meridionale di Coyhaique, cittadina relativamente giovane abitata da 50.000 persone. Dove l’industria principale è il turismo, grazie a un patrimonio impossibile da riprodurre altrove: lo splendore fantastico della natura… E poi da lì, la corriera di una trasferta pomeridiana, lungo la spaventosa strada di montagna e fino al piccolo paese di Puerto Tranquilo, che sorge sulle acque del più famoso lago condiviso tra due nazioni: il General Carrera/Buenos Aires, a seconda che si voglia scegliere il punto di vista cileno oppure quello dell’Argentina. E la notte trascorsa sotto le coperte, in questo luogo dove raramente si superano i 15 gradi di temperatura. Odissea finita? Non proprio, visto l’ultimo sforzo da compiere, svegliandosi alle 4:30/5:00 di mattina, per fare in tempo ad unirsi al gruppo d’escursione che, alle prime luci dell’alba, parte quasi ogni giorno a bordo di una piccola barca, diretta oltre il promontorio della baia e dinnanzi a ciò che sto vedendo, adesso, coi miei stessi occhi lievemente offuscati dalla commozione: una costruzione apparentemente artificiale, che si erge dalle gelide acque provenienti dai ghiacciai andini, anzi tre di cui due relativamente compatte, chiamate rispettivamente Cattedrale, Cappella e Caverna. Che tuttavia rispetto a ciò che sembrano evocare simili parole, presentano un fondamentale tratto di distinzione; che adesso appare, per la gioia degli spettatori in larga parte provenienti da diverse regioni del Sudamerica, in tutta la sua incrollabile magnificenza; il fatto di essere letteralmente sollevati dalla superficie dell’acqua straordinariamente azzurra da cui si ergono, su quelle che parrebbero a tutti gli effetti essere delle foreste di colonne individualmente rastremate al fine di accrescere il loro senso innato d’armonia, da sotto le quali filtra il bagliore di una luce ultramondana.
A questo punto sarebbe lecito chiedersi se un tale viaggio, fino ai confini più remoti della Terra, possa essere giustificato anche soltanto in parte dal vedere in prima persona una singola meraviglia della natura, per quanto unica nel vasto territorio delle lande raggiungibili per cielo o per mare. Potrebbe, intendo, se il passo successivo dell’escursione non consistesse nello spegnere il motore, e lasciare che l’inerzia guadagnata, assieme a qualche colpo di pagaia da parte del traghettatore, ci conduca tutti quanti al di sotto della massa di quell’edificio, tanto spesso paragonato al più vasto e appariscente tra gli edifici di culto tipici della cristianità. E non a caso, anche il nome ufficiale di un tale luogo è indicato sulle mappe come Santuario de la Naturaleza, quasi a porlo in contrapposizione a quello della Immacolata Concezione del Cerro San Cristobal, sopra la moderna città di Santiago de Chile. Personalmente non conservo alcun dubbio, in un così fatidico momento, che se soltanto questo luogo fosse altrettanto facile da visitare, sopratutto per i coraggiosi viaggiatori che provengono dall’estero, il suo numero di visite annuali potrebbe rivaleggiare con quelli che compiono l’irrinunciabile pellegrinaggio nei dintorni della capitale. Lo capisco quando, oltre la prua rialzata della barca, si profilano i disegni naturali creati sulla volta dell’arcano colonnato, strati e strati di azzurro, celeste, rosa e blu profondo, che in un gioco di luce senza pari si riflettono sull’acqua increspata dal nostro passaggio. Tra i passeggeri ogni conversazione tace momentaneamente, mentre ciascuno di loro reagisce a un simile spettacolo a suo modo. Chi si sporge dalla murata, nel tentativo di toccare le ruvide pareti con le sue mani. Chi scatta una rapida sequenza di selfie, da pubblicare su Internet non appena riuscirà ad agganciare il segnale di un ripetitore. Altri sembrano restare totalmente immobili, meditando sulle meraviglie del nostro inconoscibile universo. E per colui che fosse tanto scaltro ed abile, da riuscire a scrutare nel fondo delle loro pupille in quel fugace attimo, riuscirebbe a scorgere l’ultimo anello di una simile catena evanescente, che costituisce l’unico collegamento tra la nostra esistenza transitoria e la monumentale essenza della natura…

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Le oscure moltitudini del vortice un tempo bagnato dal mare

Mentre le contingenze climatiche di un pianeta in subbuglio s’incontrano, e addizionano il proprio devastante potenziale sugli appesantiti territori della penisola che si estende verso l’oceano Atlantico, l’acqua facente parte dello stesso sistema scorre in un circolo che discende verso le profondità della Terra, seguendo l’andamento di una forza motrice di natura completamene diversa. Al di sotto dell’acqua splendida e trasparente della Silver Glen Spring, sorgente geotermica ai margini della foresta di Ocala, un esercito di creature s’insinua nel buco profondo al di sotto di sguardi indiscreti, cercando rifugio. Sono centinaia, migliaia di persici spigola (Morone saxatilis) sfuggiti a un destino sicuro e verso una vita completamente diversa da quella che la natura aveva concepito per loro, che ruotano lentamente attorno ad un’asse invisibile, circondati dalle alghe fatte muovere dalla corrente. L’occasionale addetto dell’FWRI (Fish and Wildlife Research Institute) s’insinua tra questo piccolo uragano guizzante, facendo il possibile per contare, e in qualche modo spiegare l’insolita situazione. Ma appare ben presto chiaro, ogni volta, che si tratta di un’impresa titanica e tutto quello che ottiene, sono nuove immagini capaci di sovvertire le aspettative, e le cognizioni dell’inconsapevole pubblico dei bagnanti.
La Florida: una terra promessa famosa non soltanto per i suoi furibondi uragani, ma anche il sistema di faglie acquifere che percorre il pietroso sottosuolo, dando l’origine ad oltre 700 fonti ebullienti, dalle rinomate qualità termali, mineralogiche e di supporto a veri e propri ecosistemi totalmente unici al mondo. Luoghi come questo, in cui l’indice internazionale dello IUCN riconosce l’unica popolazione esistente del Procambarus attiguus, un minuscolo gambero delle caverne la cui esistenza è minacciata, ormai da molto tempo, a causa della notevole frequentazione turistica di questi luoghi. Ed ora, da un’altra, ancor più insistente anomalia: la migrazione ittica di questi pesci provenienti dalla vicine distese acquatiche di un ampia riserva d’acqua. Che non viene rappresentata, sia chiaro, dal mare stesso, bensì un lago di nome George; questo perché, molti secoli dopo la separazione continentale dall’epoca Mesozoica, la placca continentale su cui si trova lo stato col minor numero di terremoti si è gradualmente sollevata dal piano abissale, permettendo un avanzamento delle coste di circa 50 Km verso est. Eppure questi i persici, che dovrebbero trascorrere la propria vita adulta nel mare stesso, migrando lungo i fiumi al momento di riprodursi, non hanno mai conosciuto altro che gli allevamenti dell’U.S. Fish and Wildlife Service e la Divisione di Gestione e Sviluppo Ittico degli Stati Uniti. Fino al momento della loro fortunata  o intenzionale fuga al termine della quale, assistiti dalla buona sorte, hanno trovato una nuova casa quaggiù. Gli addetti del parco naturale soprastante, quindi, hanno recintato questa particolare caverna discendente della fonte, con l’intenzione nominale di proteggere la vita naturale da problematiche intromissioni ad opera dei turisti e abitanti del luogo. Ma c’era un secondo fine in questa misura, forse non altrettanto evidente: sottrarre gli uomini e donne di superficie al surreale richiamo di questa scena del profondo, possibile via d’accesso verso una morte certa….

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