L’unica “mucca” che genera isotopi radioattivi a comando

L’aspetto tangibile di un bovino non comporta in genere l’utilizzo di un barattolo trasparente al fine di contenere l’intero animale, a meno che il defunto mammifero non sia recentemente passato per un forno crematorio fuoriuscendo dal quale, per quanto ci è permesso di capire, sarebbe alquanto infruttuoso sottoporlo a un comune processo di mungitura. Ma neanche questo specifico isotopo del torio, a voler essere sinceri, uno dei più comuni elementi radioattivi nonché il principale carburante utilizzato nei moderni generatori nucleari, si presenta il più delle volte come un fluido indistinguibile dall’acqua, tanto risulta liquido e trasparente. Certo: qui siamo nel regno dell’avveniristico e del possibile, ovvero tra le alte mura dell’Oak Ridge Laboratory dell’Università del Tennessee. Un luogo che sta agli scienziati che s’interessano di energia atomica, come le riconoscibili rocce del parco di Vasquez in California per i cinefili, comparse in innumerevoli pellicole di fantascienza a partire dal celebre episodio di Star Trek. E c’è una sorta di paradossale equilibrio, nel trovarci proprio qui, dove venne condotto fino alle sue più terribili conseguenze il progetto Manhattan per la costruzione della prima bomba atomica, ad osservare un processo il cui scopo è diametralmente opposto: prolungare, per quanto possibile, la vita delle persone.
In un potenziale Purgatorio di radiazioni che tuttavia conduce al Paradiso, all’interno del quale il nostro traghettatore, ancora una volta, è niente meno che il Prof. Poliakoff, lo spettinato chimico dell’Università di Nottingham che gestisce l’incredibile serie divulgativa The Periodic Table of Videos, uno degli angoli più scientificamente interessanti di tutta YouTube. E si capisce ben presto che il suo fanciullesco entusiasmo, stavolta, appare quanto mai giustificato: la “mucca” del torio è dopo tutto, un processo che potremmo arrivare a definire quasi miracoloso nella cura che potrebbe un giorno offrirci nei confronti della più grave e incurabile afflizione del mondo moderno: il cancro che attacca i tessuti umani. Il sistema ruota attorno, per entrare nel vivo della questione, a una terapia sperimentale sottoposta a trial clinici con risultati notevoli negli ultimi tre anni, che consiste nell’effettuare la radioterapia con un materiale particolarmente raro e in conseguenza di questo, prezioso: l’actinium-225, presente in natura nella quantità di circa 0,2 milligrammi per ogni tonnellata del già costoso uranio. Questo specifico isotopo, che prende il nome dal termine greco che vuol dire “splendore” (ακτίς) proprio perché per tutto il corso della sua mezza-vita di appena 10 giorni emette un tenue lucore azzurro, possiede infatti la capacità di emettere il tipo di particelle radioattive classificate con la lettera alfa, nei fatti composte da due protoni e altrettanti neutroni. Per un peso complessivo in grado di renderle assai meno volatili e nel contempo, molto più efficaci nell’attaccare ogni tipo di cellula, incluse quelle colpite dalla mutazione potenzialmente letale del cancro. Ecco dunque per sommi capi, come funziona la cura: si prende un particolare anticorpo o una proteina, creati in laboratorio per attaccare lo specifico tipo di malattia del paziente, quindi lo si abbina al potente actinium, che per i processi organici del corpo viene portato proprio nel punto dove se ne ha maggiormente bisogno. Quindi nel corso dei pochi giorni attraverso cui quest’ultimo si dissolve, il cancro viene letteralmente bombardato dalle particelle alfa e si spera, in conseguenza di questo, costretto ad arretrare…Se non addirittura debellato.
Ma la domanda effettivamente da porsi è: in quale maniera è stato possibile sottoporre circa 100 pazienti l’anno a questo complessa terapia almeno a partire dal 2016, se l’actinium-225 continua ad essere una delle sostanze più rare della Terra? La risposta, come potrete facilmente immaginare giunti a questo punto, è nella mungitura condotta diligentemente ogni giorno (o quasi) da alcuni dei più precisi tecnici del laboratorio di Oak Ridge…

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Eroe per caso salva quattro tartarughe ingarbugliate

La tartaruga bastarda del Pacifico (Lepidochelys olivacea) costituisce, tra le sei specie superstiti della famiglia dei Chelonidi, una delle più comuni soprattutto nei mari tropicali, dove spazia liberamente nel corso delle sue migrazioni attraverso le acque di 80 nazioni differenti. Detto ciò, è stato stimato come oltre un milione di esemplari vengano pescati per la loro carne annualmente soltanto all’interno dei confini messicani, senza neanche menzionare il valore commerciale purtroppo attribuito alle loro uova, molto apprezzate sopratutto nei paesi dell’Estremo Oriente. C’è un’importante distinzione da individuare, in effetti, tra le possibili ragioni per cui uno specifico animale viene inserito negli indici considerati a rischio d’estinzione. Uno status che può essere determinato a seconda dei casi, da un habitat relativamente ridotto, una popolazione in stato critico oppure come nel caso di quest’animale, soltanto perché ogni logica ci permette d’intuire come, attraverso gli anni, la bilancia del suo destino stia pendendo in modo progressivamente più sfavorevole e deleterio. Per ragioni di cui potremmo trovare l’esempio in un video come questo: la rete costruita artigianalmente, con indistruttibile quanto economica fibra di nylon, annodata a una collezione di semplici bottiglie di plastica e abbandonata da un pescatore locale, nella speranza di ritrovarla gremita a seguire, poco prima che il mare mosso, i venti e la semplice insistenza degli elementi la trasportassero altrove. Flash-forward di qualche settimana e quest’oggetto latore di condanna lo ritroviamo il giorno di Santo Stefano a largo della famosa località turistica di Puerto Vallerta, proprio di fronte alla prua di una piccola imbarcazione da diporto. Quella acquistata in Messico, come parte fondamentale di un viaggio avventuroso pianificato da molti anni, dai due fratelli norvegesi Magnus e Sverre Wiig, intenti nella loro prima escursione esplorativa documentata con tanto di ausilio alla navigazione fornito da un familiare iPad.
Cosa fare, dunque? Nel momento in cui si avvista tra i flutti un cumulo di… Qualcosa. Che potrebbe essere, al primo sguardo, inguardabile spazzatura, ovvero quello che in molti le triste implicazioni del mondo contemporaneo ci hanno insegnato ad ignorare. Molti ma non tutti e certamente non loro, che nell’avvicinarsi decidono di spegnere il motore e calare in acqua quello che potrebbe essere il gommone più sgonfio a nord dell’Equatore, con la ferma intenzione di raccogliere il tutto e trasportarlo in un cassonetto alla loro prossima destinazione. Se non che, verso il principio dell’operazione, il capelluto Magnus si accorge di una massa verde scuro intrappolata tra le spire di plastica fluorescente, quindi di altre due apparentemente immobili, immediatamente identificabili come tartarughe di mare. “Sono… Morte?” Chiede al fratello esitando soltanto un attimo. Perché ciascuno dei malcapitati animali, alquanto incredibilmente, respirava ancora.

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L’archetipo dell’uomo in scatola contro la fame dell’orsa polare

Recentemente ricomparso sul canale ufficiale della BBC Earth, per la prima volta in forma ragionevolmente autoconclusiva, questo spezzone in HD proveniente dal documentario del 2013 “The Polar Bear Family & Me” rappresenta il singolo momento, nella vita di Gordon Buchanan, in cui un naturalista tanto esperto ha avuto l’occasione di trovarsi DAVVERO vicino ad una di loro. Abbastanza da poter contare i peli fuori posto attorno al muso dell’animale. Abbastanza da sentire il suono di un respiro preso dall’affanno, per lo sforzo di trovare il modo di arrivare al nocciolo della questione. L’interno, il nucleo, ovvero a voler essere più schietti, la persona. Che per una qualche ragione (o pluralità di esse) totalmente incomprensibile da parte di un tanto temuto super-predatore, ha scelto di sottoporsi alla portata momentanea dei suoi artigli e denti, resi ancor più acuminati dal bisogno. Continuando a emettere quel suono stridulo e continuo che è rappresentato dalla voce umana… Cos’hai da parlare, snack dentro il cestino? Cosa vai argomentando, Simmenthal di chi non ha, purtroppo, un’apriscatole a portata di zampa? (Zampa stessa, esclusa.)
Il che d’altra parte non può certo definirsi una trovata totalmente originale. Dopo tutto, in diverse regioni del turismo acquatico nel mondo, è reiterato spesso quel concetto della gabbia semi-galleggiante, sommersa in mezzo ai flutti popolati dagli squali, che portati ad avvicinarsi tramite l’impiego di qualche esca sanguinosa, finiscono per sorvegliare attentamente le strane foche dietro una barriera sempre invalicabile, di sbarre fastidiosamente ravvicinate tra loro. È il dominio, tutto questo, nonché l’assoluta riconferma della supremazia dell’uomo nei confronti della natura. Ovvero la dimostrazione che tra le doti concesse dall’evoluzione, una domina sulle creature dell’intera Terra: la costruzione d’involucri capaci di restare chiusi, quando necessario.
Occorre tuttavia tenere ben presente come, in simili contesti, l’esempio dato dai predecessori sia nient’altro che fondamentale: non è detto che quanto puoi fare con i pesci… Fu dunque una notizia spesso ripetuta al tempo, nonché ancora reperibile, il problematico seguito di quanto qui mostrato, con la minaccia di serie sanzioni e riqualifica come “persona non benvenuta” sulla terra gelida delle isole norvegesi di Svalbard, da parte dell’allora governatore regionale nei confronti di Jason Roberts, consulente tecnico e geniere, in senso quasi militare, dello show. Colui che, lavorando alacremente presso un qualche luogo adatto, aveva costruito la struttura stessa del contenitore “Ice Cube” in acciaio e perspex, con la ragionevole certezza di riuscire a proteggere dall’insistenza orsina colui che, per sua spontanea iniziativa, si era dimostrato pronto a mettersi a repentaglio. Non che tale iniziativa, d’altra parte, possa definirsi tanto più pericolosa di qualsiasi altro tipo d’interazione con l’Ursus maritimus, tutt’altro che benevola mascotte dell’iper-celebre bevanda analcolica in lattina…

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Riemerge un materiale capace di resistere a qualsiasi temperatura

Luce incandescente al calor rosso che si abbatte sulla mano senza guanti, sopra quella che potrebbe a pieno titolo sembrare una frittella bruciacchiata. Sulla quale, per qualche istante ancora, trova posto un piccolo tesoro di monete. Che si squagliano e appiattiscono, l’una di seguito all’altra, come fossero di cioccolata. In una scena da annoverare a pieno titolo nell’albo d’oro del “Non Provateci Assolutamente a Casa” (e mi sento di reiterare: quasi NIENTE di quanto che fa quest’uomo è sicuro da riprodurre senza un adeguato background chimico o esperienza reale in laboratorio) il famoso YouTuber a tema scientifico NightHawkInLight prende ispirazione stavolta da un celebre segmento della Tv britannica, durante il quale andò in onda la dimostrazione pratica di un invenzione che avrebbe dovuto cambiare il mondo e che invece, per ragioni certamente difficili da determinare, sarebbe stata completamente dimenticata al trascorrere di quel fatidico 1990. Benché intendiamoci, sia difficile immaginare uno scenario in cui manca di fare colpo la scena in cui il presentatore dell’eterno Tomorrow’s World, programma andato in onda per un periodo di oltre 38 anni, punta una torcia ossidrica accesa per svariati minuti all’indirizzo di un’uovo, per poi aprirlo di fronte alle telecamere mostrandone l’interno ancora del tutto crudo. E in effetti l’inventore dietro allo straordinario materiale di cui era stato ricoperto, il parrucchiere per professione Maurice Ward di Hartlepool, contea di Durham, sarebbe riuscito così a catturare l’attenzione di enti di portata internazionale quali la National Aeronautics and Space Administration (NASA), l’Atomic Weapons Establishment (AWE) e le Imperial Chemical Industries (ICE). Senza tuttavia ottenere il lucrativo contratto di fornitura del suo brevetto a cui riteneva di avere un assoluto e imprescindibile diritto. Finché nel 2011, all’età di 78 anni, improvvisamente morì. Forse portandosi, per quanto ci è stato fatto capire da sua moglie e le quattro figlie, la misteriosa ricetta al di là del mondo tangibile dei viventi.
Starlite, era (e resta) il suo nome a scopo commerciale attribuitogli dalla nipote dell’inventore, che poi significa “Luce Stellare” e a dire il vero sono stati in molti a provare a riprodurlo e infine ritenere, in qualche modo, di aver catturato il suo segreto. Il fatto stesso che Ward si fosse dimostrato molto spesso ben disposto a dare in prova dei campioni ai suoi possibili clienti, senza però mai permettergli di analizzarli in modo approfondito, costituisce infatti la prova che dovesse trattarsi di una miscela sorprendentemente semplice, forse persino realizzabile all’interno di una comune cucina. Inoltre materiali simili, benché non esattamente uguali, sono stati nel frattempo perseguiti ed alla fine brevettati in vari campi, dandoci almeno una vaga idea di quello che potesse essere scaturito dalla mente di quel geniale autodidatta all’inizio dell’ultimo decennio del 1900. Così ancora una volta il nostro autore di brevi esperimenti divulgativi, inventa, sperimenta e mette alla prova. Ponendoci di fronte al fatto compiuto di un qualcosa che “potrebbe” forse essere Starlite. Ma la di la di questo, rientra certamente nella stessa categoria di super-materiali termici, capaci di proteggere a partire da un sottilissimo strato persino la delicata pelle umana, dinnanzi a temperature capaci di annientare completamente il metallo. Giunti a questo punto, vediamo di analizzare la scena in cui NightHawkInLight introduceva, col suo solito stile pacato e tranquillo, l’imprevedibile argomento…

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