Antica tecnica giapponese per far sgommare le city car

Iizasa Yamashiro-no-Kami spinse in avanti il piede destro, mentre posizionava la spada impugnata con entrambe le mani in maniera precisa sopra la testa, prendendo nota con la visione periferica della posizione di almeno 14 steli di bambù. Ma senza distogliere le sue pupille, dilatate per l’attenzione, dalla sagoma disciplinata del suo avversario, il giovane Wakasa no-Morichika, colui che sarebbe diventato, molto presto, l’erede della sua scuola. I due si scrutarono ancora per un tempo che parve infinito, in realtà consistente in appena 46 secondi e mezzo, quando lo studente, ruotando di 15 gradi a sinistra, balzò in avanti per manifestare la sua personale visione della Via del guerriero. Con un possente colpo vibrato di taglio all’altezza del petto, mirò a disabilitare il maestro Yamashiro prima ancora che potesse sfruttare la sua rinomata tecnica del cinghiale di montagna (yama kujira – 山鯨) consistente di una serie di finte e contromosse che nessun avversario, per quanto versato nell’arte del bujutsu armato, era mai riuscito a contrastare. E questo sia fuori che dentro i campi di battaglia che continuavano a palesarsi sul sentiero del clan Chiba, nonostante l’egemonia shogunale del clan dei Minamoto. Ma il veterano di cento battaglie sotto l’antico stendardo era già pronto, mentre recitava nella sua mente i versi del celebre Fujiwara: “Un altro anno è passato / nessuna primavera riscalda il mio cuore / non è niente per me / ormai sono abituato / a fissare l’alba” così esattamente mentre pronunciava la parola “alba” passò alla sesta posizione del suo repertorio, impugnando l’arma in diagonale verso il basso. Quindi, in un solo fluido movimento in cui veniva parzialmente coperto dalla vegetazione, slittando letteralmente di lato e portando a compimento una mezza rotazione, andò a segno sul fianco sinistro del suo avversario. Dal punto di vista sia teorico che materiale, la vittoria fu confermata istantaneamente, mentre l’avversario cadeva in ginocchio, momentaneamente paralizzato.
Ora, credete forse che un samurai, nel corso di un incontro di addestramento, affrontasse il suo avversario con una vera e propria katana, bastante a tagliarlo istantaneamente a metà? Ciò avrebbe comportato allo stretto giro dei termini, non pochi problemi. Così che nella pratica delle arti marziali, fin dall’epoca della loro prima pratica effettiva, era stato inventato uno strumento fondamentale, quello del bokken (木剣 – lama di legno) ovvero un bastone lievemente ricurvo, di noce o quercia, che tendeva a ferire, ma non uccidere l’avversario. Il quale successivamente si sarebbe trovato sostituito dall’ancor più efficiente e ragionevole shinai (竹刀 – bambù flessibile) costituito da un fascio di stecche del suddetto materiale, letteralmente incapace di arrecare lesioni gravi. Con il declino formale di un ideale, quindi, e l’insorgere di nuove tecniche belliche, il vero significato della mentalità samurai andò incontro a significativi slittamenti. Nell’epoca dei Tokugawa, oltre 100 anni dopo il momento immaginato in apertura, le antiche famiglie diventarono poco più che dei segni di riconoscimento, mentre il combattimento dei guerrieri itineranti, condotto per esprimere la superiorità di un dojo rispetto ad un altro, diventava l’unico sfogo di una classe oramai in declino. Finché ai giorni nostri, finiti il tempo delle spade, iniziò a diffondersi un concetto diverso per far prevalere la propria visione in combattimento. Sotto il segno degli pneumatici, mentre il rombo dei motori definisce il nuovo significato del termine Bushido ovvero il sentiero, o la strada (asfaltata) del samurai.
K-Soul è il nome del clan automobilistico preso in esame al termine del mese scorso da Noriyaro, grande appassionato di motori gaijin (di etnia e provenienza occidentale) che ormai da anni rappresenta la principale autorità di Internet nel campo più eclettico della cultura motoristica giapponese. Largamente fondata, come ormai tutti sanno grazie alla serie di film Fast & Furious, su un approccio per così dire onorevole alle curve, che prevede il posizionamento trasversale dell’automobile, mentre le ruote posteriori slittano liberamente grazie all’applicazione di una quantità generosa di potenza. Come fatto da questo gruppo di giovani, e non tanto giovani piloti, che grazie all’elaborazione momentanea di un’idea, seguita da un lungo periodo di perfezionamento, si propongono di offrire al loro mondo la versione su quattro ruote dell’originale bokken: praticare il drifting (o ドリフト – do-ri-fu-to) senza rischiare costantemente l’osso del collo, semplicemente perché le velocità raggiunte sono molto minori. Chiunque dovesse in effetti fare il suo ingresso nel circuito di Fuji mentre la squadra è in sessione, noterà in primo luogo qualcosa d’inaspettato: un insolito, impossibile e relativo silenzio. Finché raggiunti gli spalti, non finirà per trovarsi di fronte alla più surreale delle scene: un’ordinata sfilata di Daihatsu, Toyota e Mazda a trazione anteriore, con meno di 64 cavalli di potenza, che piroettano attorno al tracciato con un’orientamento trasversale simile a quello della tecnica del cinghiale del maestro Yamashira-no-Kami…

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Gli aerei di Düsseldorf che atterrano durante la tempesta Friederike

Tutte le notizie dei telegiornali, i reportage cartacei, le testimonianze radiofoniche e il sentito dire sul Web, non possono sostituire l’esperienza diretta di una situazione critica, per il modo in cui essa può riuscire a condizionarti, o rovinarti totalmente la giornata. E può sembrare fin troppo spesso che le alterne vicende di nazioni relativamente distanti, in quanto situate all’altro lato di un continente, possano riguardarti ben poco. Finché, alla velocità di un viaggio che ti porta oltre le nubi (per ragioni di famiglia, di lavoro etc…) non ti trovi nel velivolo che dovrà posare le sue stesse ruote in mezzo a quello che potremmo anche definire, non del tutto metaforicamente, l’occhio stesso del ciclone. Nove morti all’attivo, case scoperchiate, autotreni rovesciati, interi boschi sradicati, coi tronchi gettati sulle strade come fossero stuzzicadenti. Scene di persone intente a camminare per la strada, quando una raffica improvvisa non soltanto le getta a terra, ma inizia a trascinarle via sul ruvido asfalto. Ciò che questo inizio del 2018 ci ha portato, o per meglio dire ha portato ai nostri vicini francesi, tedeschi ed olandesi, è una manifestazione del terrore stesso che si è fatto vento, semplicemente il caso più grave, in tal senso, verificatosi nel periodo degli ultimi 11 anni. E saranno in molti, al termine dell’episodio, a poter dire di aver vissuto tutto questo in maniera fin troppo diretta e coinvolgente. Ma forse nessuno quanto quel gruppo di malcapitati viaggiatori che, per uno scherzo del destino, avevano in programma di arrivare con l’aereo in una delle zone colpite proprio nella giornata del 18 gennaio, ovvero prima che entrassero in vigore i blocchi per precauzione di tutto il traffico volante in arrivo.
Ora per chi non avesse mai avuto occasione di conoscerlo, l’Aeroporto Internazionale della città di Düsseldorf, base operativa della compagnia aerea Eurowings, è una struttura spaziosa, moderna e conforme ai più severi standard di sicurezza contemporanei. Le sue due piste, lunghe rispettivamente 3 e 2,7 Km, sono sufficientemente ampie da ospitare l’atterraggio dei più grandi aerei passeggeri attualmente in servizio, caratteristica che gli permette, inoltre, di restare operativo al 100% con venti di traverso di fino a 30-35 nodi, ovvero il limite operativo massimo di aerei come il Boeing 737, il bimotore più diffuso al mondo. Ma che succede quando le condizioni meteo s’inaspriscono improvvisamente, e le alte e basse pressioni causano degli spostamenti d’aria che iniziano a spostare l’aria a una velocità anche due volte superiore? Per prima cosa, si comunica la situazione ai piloti, affinché questi ultimi possano prendere una decisione informata in merito al fatto che sia il caso di proseguire, nonostante tutto, verso l’obiettivo designato, oppure cambiare l’ultima sezione della rotta, per portare i propri passeggeri al sicuro presso piste di atterraggio più tranquille. Ma poiché questa non è sempre la scelta effettuata dai diretti interessati, a volte per direttive  della linea aerea, altre per semplici considerazioni relative al carburante rimasto (è sempre presente, ovviamente, un margine) potrà capitare che pochi, o molti coraggiosi, si ritrovino a tentare nonostante tutto di arrivare a destinazione nel prefissato luogo ed orario. Ed è allora, volenti o nolenti, che s’iniziano le danze.
In questo video caricato sul canale Cargospotter, in realtà parte di un’ampia collezione di scene simili che stanno comparendo da una parte all’altra di YouTube, alcuni appassionati di aviazione hanno compilato una compilation delle riprese dirette, effettuate con cellulari o videocamere, da coloro che hanno deciso di offrire una testimonianza di questo momento critico e, a dir poco, assolutamente estremo. È semplicemente illuminante la maniera inversamente proporzionale alle dimensioni in cui i diversi aeromobili reagiscono alle forze in gioco, con un Bombardier Dash 8 (circa 70 passeggeri) che si avvicina al suolo alla maniera di un pianeta che sta per essere inghiottito da un buco nero. Mentre l’unico Airbus A380 della sequenza, il singolo più grande aereo passeggeri al mondo (fino a 853 persone a bordo) non sembrerebbe neppure risentire del vento, se non fosse per i rapidi movimenti osservabili del suo timone di coda. Fermo restando che siamo in una di quelle situazioni per cui, una volta che si fermano i motori, nessuno potrebbe fare a meno di trattenere un sincero respiro di sollievo…

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Gara di auto elettriche, svanisce la zavorra del pilota

Se funziona nei videogiochi, perché non dovrebbe farlo anche nel mondo reale? Beh, “funziona” è una parola grossa. Nel vasto catalogo di esperienze digitali interattive in cui siamo chiamati a dirigere un missile su ruote lungo i percorsi soliti noti, l’intelligenza artificiale è sempre un gran punto interrogativo. Poiché può basarsi, essenzialmente, su due direttive molto differenti, seguire semplicemente la linea di gara, oppure interpretarla. La differenza non potrebbe essere maggiore: nel primo caso, al giocatore sembrerà di essere come una scheggia impazzita, inserita artificialmente nel bel mezzo di un ingorgo a più di 300 Km/h. I diversi concorrenti, in realtà avatar dello stesso pilota privo di un corpo, marceranno ordinatamente lungo il tracciato, inscenando qualche volta la figura di un sorpasso. Neppure urtarli, accidentalmente o di proposito (magari per la frustrazione) potrà fare molto per alterarne il rigido copione. Fu questo il caso del primo, storico Gran Turismo per PSX, e di un buon 80% dei driving game venuti dopo quel momento. Ma c’è stata un’epoca, costellata di nomi come il game designer Geoff Crammond, la compagnia Papyrus e Simbin dei tempi d’oro, in cui le automobili venivano effettivamente programmate. Con una serie di comportamenti, non soltanto direttive, talvolta inclusivi di “episodi” umani, come errori di calcolo, pressione psichica o paura. Ecco, quest’ultima parte, sconsiglierei di eliminarla dal futuro della quattroruote Robocar. Dopo tutto, stiamo parlando di un bolide che dovrà girare nel mondo fisico, con tutti i rischi connessi ad una tale finalizzazione. Tranne quello, fino ad ora, considerato inevitabile: le gravi conseguenze per chi guida. Per il semplice fatto che non ci sarà più un “Chi”. Avete capito di cosa sto parlando? A partire dal 2014, nello scenario automobilistico mondiale esiste questa realtà in grado di rompere con il passato, identificata con una singola lettera dell’alfabeto. Formula E, ha deciso di chiamarla la FIA organizzatrice, dove la E vorrebbe simboleggiare, ovviamente, la parola ed il concetto di Elettricità. Il che sottintende assai evidentemente, questa serie di gare in cui il rombo del motore viene sostituito da un sibilo intenso, che sottintende una velocità massima inferiore ma il più delle volte, un’accelerazione niente meno che bruciante. C’è poi l’altro piccolo dettaglio di sfondo: la stessa macchina per tutti i team. Benché nell’ultima edizione, ci si stia muovendo in direzione diametralmente opposta, con la nuova regola che consente qualche grado di personalizzazione al gruppo motopropulsore, cuore stesso del veicolo in questione. Ma questo non è l’unico punto di rottura netta della serie, caratterizzata da un certo numero di altre caratteristiche distintive: intanto, i tracciati. Nove proposte disseminati tra altrettante città di larga fama, come Parigi, Hong Kong e Marrakesh (l’ottava, la decima e la dodicesima gara riutilizzano per la seconda volta, rispettivamente, Berlino, New York e Montreal) . Senza mancare ovviamente, di fare una visita al celebre circuito di Monaco, con prospettive ancora più intriganti all’orizzonte. Chi non sa ormai quasi tutto, ad esempio, del progetto confermato di portare presto questo grande show a Roma?
Tutto il caravanserraglio inclusi gli elementi di contorno, tra cui dovrebbe figurare, entro la fine di quest’anno, anche il campionato collaterale di Roborace. O almeno questo è ciò che sperano gli organizzatori. Di certo. a guardare il video appena rilasciato, proveniente dal circuito tedesco dell’ex-aeroporto Templehof situato nella capitale berlinese, sembra oggi di essere notevolmente più vicini all’obiettivo. L’automobile impiegata per la prova, in realtà non quella definitiva prevista dagli organizzatori, sfreccia ad ottime velocità lungo le 17 curve di questo vero e proprio labirinto d’asfalto, tutt’altro che un circuito veloce, ma proprio per questo, anche molto tecnico dal punto di vista di coloro che dovrebbero guidare. La Devbot, in realtà nient’altro che una Ginetta LMP3, ovviamente con motore al 100% elettrico, guida con una cautela pari a quella di un pilota di abilità medio-bassa. È stato dichiarato a tal proposito che la velocità complessiva sia inferiore dell’8% a quella media dimostrata dai partecipanti umani; ma questo non è necessariamente disastroso. Poiché, per tornare alla questione dell’IA (Intelligenza Artificiale) che si occupa di pilotarla, questo non è un veicolo che segua un copione particolarmente stringente. Altrimenti, cosa avrebbe di speciale? Forse ricorderete l’incredibile realizzazione dell’Università di Stanford a partire da un’Audi TTS nel 2010, che venne fatta girare sul circuito di Pikes Peak con punte di 209 Km/h ed un tempo finale, comparabilmente, decisamente più notevole di quello della Devbot. Per poi replicare il successo sul circuito di Top Gear, in una precedente puntata del famoso programma Tv inglese. Ma il punto è proprio questo: l’Audi andava tanto forte, poiché la sua navigazione si basava su una speciale tipologia di GPS reattivo, in grado di determinare la sua posizione sulla pista con pochi centimetri di errore. Questione ben diversa dal proposito di questa erede, che piuttosto alla maniera delle driverless cars di Google ed Uber, si propone di fare affidamento su telecamere a infrarossi, radar e lidar, finalizzati ad uno studio in divenire degli eventuali pericoli su strada, nonché un presa di coscienza, a livello di algoritmo, dell’effettiva linea da seguire. In gergo, si parla di un’automobile senza guidatore di livello 5. Neppure all’epoca degli anni d’oro dei simulatori ludici su PC, fu mai raggiunto davvero l’equivalente del livello 5. Ma in futuro, come dicevamo…

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Le prime tre motociclette al mondo

Definita dagli uomini di scienza “La più incredibile invenzione dei tempi moderni.” Può essere guidata per 7 miglia, ad un ritmo maggiore di qualsiasi cavallo lanciato al trotto. O ciclista umano. Anche in salita. Può raggiungere velocità più elevate di quelle a cui chiunque possa osare guidarla. È affidabile, semplice, risolutiva. È la moto, anzi il velocipede a vapore, dell’inventore Sylvester H. Roper di Boston, Massachusetts. Quel maledetto primo giugno del 1896, giorno più rilevante della sua storia, si trattava ormai di un vista assai nota, presso il quartiere di Roxbury con la sua residenza e fino a Harvard Bridge, dove egli era solito recarsi ogni giorno per testarla in collaborazione con un gruppo di ciclisti locali. Si trattava del miglioramento ingegneristico di un progetto costruito per la prima volta tra il 1867 e il 1869 (l’anno esatto resta incerto) a partire da una scuotiossa dei fratelli Hanlon, ovvero uno di quei mezzi a pedali, antecedenti all’invenzione degli pneumatici ad aria, le cui ruote metalliche facevano letteralmente battere i denti sopra qualsiasi strada che non fosse perfettamente uniforme. Ma avveniristica, sotto molti altri punti di vista, quali la particolare configurazione definita della “bicicletta di sicurezza” che per la prima volta permetteva di avere ruote della stessa dimensione, un’altezza tale da poter mettere i piedi a terra e una maggiore stabilità in curva, grazie alla geometria fuori asse della forcella. Esattamente come qualsiasi due-ruote moderna. Fu per lui, molto probabilmente, amore a prima vista. E l’elaborazione fantastica di un idea.
Per Roper, che era un inventore rinomato, con numerosi brevetti nel campo delle armi da fuoco, delle macchine da cucire, dei sistemi antincendio… La recente rivoluzione dell’automobile a vapore (di cui pure, produsse alcuni pregevoli esemplari) non sembrava essere abbastanza. Così elaborò il più piccolo motore della storia, lo piazzò sulla bici e creò la moto. C’è un’annosa diatriba in merito alla questione, che vorrebbe attribuire lo stesso identico merito al fabbro francese Pierre Michaux, operativo nello stesso triennio della seconda metà del XIX secolo, come piuttosto ai tedeschi Gottlieb Daimler e Wilhelm Maybach, che esattamente un anno prima del sopracitato secondo modello del collega americano (1896) misero in pista una motocicletta con motore a combustione interna, ovvero a benzina. Secondo alcuni, in effetti, tutto quello venuto prima avrebbe rappresentato un “binario morto” non più rilevante per l’evoluzione umana dell’intera genìa neanderthaliana. Tutto ciò è opinabile ed ogni modo, non del tutto rilevante. Ipotizziamo, in questa fase, che la Roper sia stata l’antesignana. Nella versione guidata quel fatidico giorno, che il suo costruttore aveva intenzione di vendere in serie nell’ambiente dei ciclisti sportivi, come strumento per mantenere il ritmo durante gli allenamenti, erano stati apportati diversi miglioramenti rispetto al prototipo (di cui qui sopra, potete osservare una riproduzione) quali una riduzione del peso a “soli” 68 Kg, l’inserimento del bollitore all’interno di un cassone per proteggerlo e migliorare l’aerodinamica ed un incremento significativo di prestazioni. Tanto da poter raggiungere, in condizioni ideali, una velocità di 64 Km/h. Come innumerevoli volte prima di allora, dunque, Roper in persona fece diversi giri del tracciato, dimostrando la straordinaria efficienza del suo prodotto. Con una significativa differenza: quella volta, aveva compiuto i 72 anni di età.
La moto sbuffò vistosamente, rilasciando copiose quantità di fumo bianco. Il pilota veterano, grazie all’esperienza acquisita, tagliava le curve ed effettuava pieghe pressoché perfette, limando ulteriori secondi dal suo record sul tempo del tutto inimmaginabile senza l’impiego di un motore. Il controllo dell’accelerazione era determinato dalla rotazione di entrambe le manopole unite in un’unica sbarra, la cui rotazione in senso contrario, invece, avrebbe attivato il singolo freno. Il cui limitato meccanismo a cucchiaio, appoggiato semplicemente sulla ruota posteriore, iniziava a scaldarsi ma teneva ancora. Se non che verso la fine della sessione di prove, gli venne chiesto di dimostrare, ancora una volta, quale fosse il massimo che poteva dare il suo velocipede. Così accelerò e accelerò, fino al completamento di un giro del tracciato di Harvard Bridge in soli due minuti ed 1,4 secondi. Ma a un certo punto, subito dopo una curva, cadde all’improvviso dalla sella e morì. Secondo gli accertamenti effettuati successivamente, la causa era stato il sopraggiungere di un attacco di cuore. L’inventore della moto, così come il Dr. Frankestein in alcuni seguiti del romanzo, era stato ucciso dalla sua più amata creatura. Così, ebbe inizio la storia…

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