L’immortale monumento all’aviazione affondato tra i ghiacci del Polo Nord

L’epoca è un momento di qualche anno successivo al 1983. Il luogo: Atlantico settentrionale, ad una latitudine al di sotto della linea oltre cui ha inizio il Circolo Polare Artico. Impossibile essere più precisi di così data l’assenza di alcun contributo umano da oltre un paio decenni, benché il soggetto della foto, per quanto ci è dato di capire, dovesse aver mantenuto il suo aspetto pressoché invariato. Uno sfolgorante bimotore militare Douglas C-47 “Skytrain” danneggiato durante l’atterraggio sopra l’iceberg, che sin dal 1952 era rimasto in solenne attesa di una squadra di riparazione destinata, per ragioni collegate al mero pragmatismo e la necessità, ad abbandonarlo solennemente a questo incrocio fatale della Rosa dei Venti. Un ipotetico gabbiano interessato alle tribolazioni umane, che fosse passato di lì in quel momento, avrebbe tuttavia notato qualcosa di strano e in qualche modo memorabile. Ovvero la maniera in cui il blocco di ghiaccio, ormai quasi totalmente liquefatto dal calore dell’astro solare, fosse ormai coperto dalla cima delle onde, mentre la lucida carlinga ancora cavalcava su di esse sostenuta da un alto e nevoso piedistallo. Lo stesso pilastro, comparabile ad un plinto classico in candido marmo, sopra cui esso riposava da un periodo di oltre tre decenni.
Tentando di spiegare dunque l’origine dell’arcano, prelevandone il significato direttamente dal racconto di prima mano dei testimoni coévi, occorre risalire alla storia precisa di questo aereo, codice di volo 15665 (MSN 20131) che prima di essere un rottame destinato all’affondamento fu un eroe dell’esplorazione terrestre, quindi un valido cavallo trasportatore comparabile all’Ippogrifo. Per poi fare la stessa, inevitabile fine di ogni altro sogno elaborato dagli umani. Tutto ebbe inizio, secondo le cronache militari statunitensi, nella primavera del 1952, quando l’ufficiale in capo delle operazioni aeronautiche USAF in Alaska, il maggiore William D. Old, creò una squadra speciale per portare finalmente a termine il suo progetto preferito: la prima visita da parte di umani dell’esatto Polo Nord magnetico terrestre, mediante l’impiego di un aereo. Dovete considerare come in quegli anni avesse appena avuto inizio la guerra fredda e sebbene fossero in pochi, allora, ad averne preso in considerazione le più terribili implicazioni potenziali, appariva chiaro come il tragitto più breve verso il territorio sovietico per un ipotetico bombardiere fossero le rotte del “grande cerchio” fatte transitare attraverso le regioni gelide del più assoluto Settentrione. Essenziale era conoscerne le caratteristiche, dunque, ed ancor più importante, se possibile, dimostrarne al mondo l’assoluto predominio da parte dell’aviazione americana. Pur ricevendo ogni possibile garanzia di riuscita da parte del suo incaricato principale, l’ufficiale per i progetti speciali tenente colonnello William Pershing Benedict, il maggiore scelse un nome in codice segreto per la sua idea, denominata Operation Oil Drum (barile di petrolio) affinché nessuno potesse, in caso d’insuccesso, attribuirne l’effettiva responsabilità. Il che trovava riscontro, d’altra parte, nell’obiettivo informale di trasportare a bordo del velivolo designato il suddetto contenitore di liquidi, per lasciarlo a estemporanea testimonianza della visita assieme all’imprescindibile bandiera nazionale. Venne data a William, quindi, assoluta libertà nella scelta del mezzo e i suoi compagni d’avventura, per i quali egli selezionò rispettivamente una versione modificata dell’affidabile bimotore dalla pregressa storia sia civile che militare Douglas C-47 (versione migliorata del DC-3) e un’eterogenea squadra di 9 tra cui scienziati, un fotografo, operatore radio, navigatore, ingegnere, addetto alle registrazioni e relativi assistenti. Personalità tra cui spiccava, per importanza, il suo co-pilota e amico il tenente colonnello dell’USAF Joseph O. Fletcher, già scopritore e responsabile di quella che sarebbe stata, nel momento della verità, la loro base di partenza: l’iceberg titanico denominato “Isola di ghiaccio” o in maniera più formale, base meteorologica T-3. Naturalmente, a quei tempi, la sua posizione risultava essere ben diversa…

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DC-X, l’archetipo del razzo capace di fare marcia indietro

Oramai è cosa nota: le astronavi partono sempre con la punta rivolta verso il cielo. Una disposizione operativa semplicemente troppo pratica, vista la direzione della loro marcia considerata desiderabile, perché il decollo con modalità comparabili a quelle di un aereo possa in effetti sostituirla. Specie quando si considera come il carburante a bordo sia una variabile tanto problematica in termini di durata e peso. Ciò che appare meno standardizzata, d’altra parte, è la modalità del loro metodo di ritorno a portata fisica del controllo di missione: abbiamo avuto, in origine, velivoli come i grandi razzi a più stadi, che una volta liberatisi di serbatoi e motori, e lasciato il carico in orbita, rispedivano soltanto lo stretto indispensabile verso Terra, a bordo di una semplice capsula dotata di paracadute. Metodologia sostituita, quindi, dall’approccio maggiormente “economico” dello Space Shuttle, versione più sofisticata dello stesso metodo in cui la parte riutilizzabile era l’intero Orbiter, apparecchio alato e ricoperto da uno strato di mattoni super-refrattari, dotato di un carrello per l’atterraggio sulla convenzionale serie di ruote a noi maggiormente familiari. Mentre in epoca ancora più recente, soprattutto grazie al programma portato avanti dall’azienda americana di Elon Musk, SpaceX abbiamo fatto la conoscenza attraverso innumerevoli video su Internet con il terzo approccio, ragionevolmente considerato quello dotato di maggiori presupposti di efficienza. Il dato che potrebbe esservi sfuggito tuttavia, a tal proposito, è che l’atterraggio di un’astronave in posizione diritta, come una versione fatta andare al contrario di un video del suo stesso decollo, ha in realtà un’origine relativamente remota, rintracciabile fino al 1991. Ispirata alla penna di un autore di fantascienza e messa in opera, dai massimi vertici del governo statunitense, per uno dei bisogni più essenziali immaginabili: garantire, attraverso acque particolarmente turbolente, la propria stessa sopravvivenza.
É ricorrente nella storiografia moderna il concetto secondo cui la creazione della bomba all’idrogeno nel 1952 abbia contribuito sensibilmente alla creazione dello stato d’equilibrio identificato on l’acronimo MAD (Distruzione Mutua Assicurata) garantendo de facto l’impossibilità di muoversi militarmente contro i propri rivali nazionali più forti, pena l’innesco di una situazione di conflitto a seguito della quale, con la massima probabilità, sarebbe stata obliterata la maggior percentuale della popolazione umana. Il che deriva in effetti dalla cognizione ottimistica, sostanzialmente corretta, secondo cui i potenti del mondo siano maggiormente inclini a preservare piuttosto che distruggere, difendere piuttosto che dimostrare a tutti la propria superiorità, indipendentemente dalle conseguenze a cui ciò potrebbe portare. In tale ottica interpretativa, ergo, non soltanto il conseguimento di una difesa perfetta potrebbe costituire il primo passo verso il sovvertimento di uno stato di equilibrio, bensì l’effettivo gesto ostile verso tutti coloro che dall’altra parte del “muro” (per non parlare del vero e proprio Muro) erano intenti a contare le proprie testate come fossero pillole contro una malattia impossibile da guarire. E fu proprio quella l’idea di partenza che avrebbe portato Ronald Reagan, il 23 marzo del 1983, a dare inizio al programma SDIO (Strategic Defense Initiative) passato alla storia maggiormente con il termine derogatorio del senatore democratico Ted Kenney, progetto “Guerre Stellari”. Nient’altro che un sogno comparabile a quello attuale di Donald Trump, che avrebbe creato su carta “il quarto comando delle Forze Armate” per difendere lo spazio da eventuali attacchi portati dalle altre superpotenze globali; finalizzato principalmente al tempo, così come adesso, all’eventuale intercettazione di missili lanciati dall’arbitraria parte orientale del mondo. Un qualcosa che avrebbe richiesto, imprescindibilmente, la versione maggiormente pratica di una porta d’accesso alle alterne strade delle orbite soprastanti…

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Fuga dall’inferno cannibale delle formiche nel sottosuolo polacco

Nessuno nella società di oltre un milione d’individui ricordava, esattamente, quando e come un tale oggetto della misteriosa Provvidenza avesse avuto modo di palesarsi. Un pezzo verticale, come un palo conficcato in terra (se terra potevano chiamarsi, i cumuli di cadaveri e detriti ai margini della comunità perduta) destinato ad invitare le operose moltitudini verso… Qualcosa. Così un giorno dopo l’altro, poco a poco, un maggior numero d’individui iniziò a salire sopra la colonna della Fame. E poi da lì, all’interno del pertugio, di cui soltanto alcuni, tra gli anziani membri, sembravano riuscire a ricordare la funzione. E fu così che una alla volta, lasciammo il buio e facemmo la promessa lungamente attesa: mai più, le mandibole dei nostri fratelli avrebbero assaggiato il sapore della propria stessa carne & sangue. Da oggi, eravamo nuovamente libere. La foresta stessa, avrebbe temuto nuovamente la nostra venuta.
Luci ed ombre, tenebre o radici, il peso dei trascorsi che impietosamente grava sulle prossime generazioni, ancora e ancora. Finché nulla più, di umano, possa sopravvivere immutato al flusso degli eventi. Oppure uno, solamente: la Caduta. Nella tenebra di un buco, orribile pertugio, orrore a seguito del quale vite sufficientemente piccole non avranno fine, ma verranno totalmente trasformate. Verso un fato… ignobile, ma duraturo. O addirittura eterno, se “soltanto” le giuste condizioni avessero trovato il modo di durare in extremis, senza l’intervento risolutivo dell’uomo. Sto parlando di… Golconda, Centralia, Pripyat. E adesso, Templewo, Międzyrzecz, Polonia occidentale. Con lo sguardo rivolto in direzione del vetusto bunker Obiekt Specjalny 3003, quasi completamente sepolto dalla vegetazione, che qui sorgeva nella metà degli anni ’60 con il fine originario di custodire, lontano da occhi indiscreti, parte dei preziosi armamenti nucleari dell’Unione Sovietica. Finché qualche decade dopo, rimossi tali orpelli, non avrebbe avuto luogo l’inarrestabile processo di trasformazione, che noi tutti ben sappiamo appartenere al mondo delle cose naturali e qualche volta, artificiali. Tale luogo ricompare dunque nelle cronache attorno all’inizio degli anni 2010, nel corso di un progetto scientifico per conteggiare i pipistrelli che svernavano all’interno di una simile caverna costruita dall’uomo. Se non che i naturalisti incaricati, procedendo in tale opera, non scoprirono qualcosa di assolutamente inaspettato: la colonia, in apparenza totalmente normale di Formica polyctena (specie appartenente al gruppo informale delle F. Rufa o come siamo soliti chiamarle informalmente, formiche rosse) situata in prossimità dell’ingresso principale, che si dimostrava invece possedere, in posizione speculare, una versione assai più cupa e desolate della “stessa” cosa. Già perché i bunker tendono a possedere dei pertugi verticali, noti generalmente come condotti di ventilazione. Che oltre a far passare l’aria, possiedono l’imprescindibile caratteristica di lasciar cadere verso il basso le formiche, senza che quest’ultime possano in seguito, sperare di far ritorno alla superficie. Così nel giro di una quantità misteriosa di stagioni, le operaie appartenenti alla comunità superiore erano cadute una dopo l’altra in quel pertugio. Ma una volta nella stanza sottostante, piuttosto che arrendersi, avevano deciso di fare il possibile per sopravvivere. Arrivando a mangiarsi a vicenda, quando necessario…

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Questo impressionante macchinario è il più potente allarme acustico della storia

Il clima nell’isola di Wake risulta essere per lo più tropicale, benché soggetto ad occasionali tempeste nel corso dell’inverno. Prima e dopo le quali, occasionalmente, era solita sollevarsi la nebbia. Un problema niente affatto trascurabile, soprattutto negli anni successivi al 1941, quando la Marina Militare statunitense ebbe ragione di costruire, sopra queste antiche sabbie, la lunga pista di atterraggio di un moderno campo di volo, da cui inviare i bombardieri e i caccia con lo scopo di fiaccare lo sforzo bellico dell’Impero giapponese. Velivoli con propulsione ad elica e motori estremamente potenti ma rigorosamente privi, a causa dello stato del progresso tecnologico, di strumentazione radar o altri ausili elettronici a trovar la strada in condizioni di visibilità prossime allo zero. Il personale di terra in conseguenza di ciò, durante gli anni all’apice e verso la fine della guerra, iniziò ad adottare un’ampia serie di vantaggiose soluzioni: potenti riflettori, segnali lampeggianti, l’accensione di fuochi. Ma c’era un solo approccio che risultasse in grado, a differenza di ogni altro, di disperdere del tutto una simile problematica, trasformando letteralmente una mattinata uggiosa nell’alba quasi-primaverile di un nuovo giorno. Ed il suo nome era era Chrysler Bell Victory Siren, come fieramente assegnatogli durante l’anno successivo ed una volta completato il lungo ciclo di test, presso i laboratori della Bell Telephone di Boston, sotto la supervisione del Dr.Harvey Fletcher. Ora naturalmente, l’originale concezione di un tale meccanismo aveva un diverso scopo originale, sostanzialmente conforme alla necessità di inviare un’allarme acustico a vantaggio, nel momento in cui gli aerei dell’altra sponda del Pacifico dovessero far figurare le loro preoccupanti ombre sulle teste pericolosamente impreparate della popolazione civile. Finché non fu scoperto, in modo assai probabilmente accidentale, come i circa 138 decibel emessi dall’attrezzo (quando misurati a una distanza di 30 metri) avevano un secondo effetto potenziale: quello di far vibrare l’aria per almeno un paio di miglia, portando le particelle umide che formano la nebbia ad urtarsi una con l’altra. Con l’effetto di trasformarle in gocce d’acqua e a seguito di questo, farle precipitare fino all’impatto con il suolo. Ora, purtroppo, ben presto furono scoperti alcuni preoccupanti effetti indesiderati: prima di tutto l’inefficacia sostanziali delle protezioni per le orecchie utilizzate dagli avieri, poco più che piccoli tappi cerati, con la conseguenza dopo un certo numero di “esecuzioni”, di arrivare allo sviluppo di condizioni croniche e continuative come nausee o capogiri. E cosa non da meno, fu notata la formazione di piccole crepe e altri indebolimenti strutturali sulla superficie delle carlinghe o ali degli aeromobili in fase di ritorno, esposti in modo diretto alla squillante e udibile cacofonia di una simile arma del sistema aurale. Gli uccelli, inoltre, continuavano a morire. Il che portò ben presto a far ricorso al suo utilizzo solamente nei casi d’emergenza o in via del tutto eccezionale. Il che, del resto, figurava come un fondamento stesso della sua ragione d’esistenza.
La Sirena della Vittoria, rinominata nella decade successiva alla guerra con la dicitura decisamente più sobria e descrittiva di Chrysler Air Raid Siren, non avrebbe quindi mai trovato un uso particolarmente ampio nel corso della seconda guerra mondiale, in un paese come gli Stati Uniti per sua fortuna mai soggetto ai crudeli bombardamenti destinati a piovere sopra svariati capitali asiatiche ed europee. Finché negli anni ’50, con l’inizio di un altro tipo di più gelido conflitto, non avrebbe assunto il ruolo di prezioso baluardo contro il caso particolarmente temuto, e non del tutto senza una ragione, dell’improvviso giungere di un missile intercontinentale dall’altro lato del pianeta, per sovietica intenzione di dar fuoco alle polveri dell’Apocalisse finale…

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