L’eleganza che contraddistingue il pollo più socievole dell’Africa subsahariana

Con l’avvicinarsi del periodo festivo ed il bisogno percepito, sebbene un po’ smorzato dalle circostanze, di creare una scintilla estranea al quotidiano incedere dei giorni, aree del supermercato normalmente prive di attenzioni iniziano a venire saccheggiate dai più esperti cuochi casalinghi. Come quella delle carni più “pregiate” o che giustifichino in qualsivoglia modo un costo per l’acquisto ragionevolmente superiore, sinonimo per molti di accertata Qualità, indipendentemente da quale sia l’effettivo significato di una simile aleatoria idea. Ecco dunque comparire sulle tavole, con spezie, aromi, alloro e salvia quel particolare pollo dalla pelle scura, e un gusto intenso e ragionevolmente delizioso, che il senso comune ha scelto di chiamare per antonomasia la gallina faraona, proprio perché ritenuto provenire, erroneamente, dalla terra misteriosa di piramidi e sfingi. Eppure resta assai probabile che se il consumatore medio di una tale prelibatezza gastronomica, soltanto per un attimo, avesse modo di conoscere la naturale bellezza e il dignitoso contegno della bestia in questione, assai probabilmente ci penserebbe più di un attimo prima di sostenere il suo sfruttamento intensivo con finalità commerciali. Quelle che accomunano i numididi, maculati e striati galliformi africani imparentati alla lontana con le pernici, famiglia cui appartiene, tra gli altri, la crestata N. meleagris, ormai largamente allevata nell’intero territorio europeo. Con il rigido ornamento cranico che ci ricorda la maniera in cui gli uccelli siano non soltanto discendenti dei dinosauri, ma in effetti i dinosauri stessi trasferiti all’epoca dei nostri giorni, senza eccessivi compromessi in merito all’effetto programmatico dei loro tratti evolutivi più interessanti. E se ora vi dicessi che, lungo i secchi territori della savana etiope, kenyota e tanzaniana, si aggira una creatura che pur condividendo con la faraona alcuni aspetti e qualità cromatiche, assomiglia a una versione più feroce e minacciosa di quest’ultima, lunga 70-80 cm, dal peso di 2 Kg, con lungo collo d’airone oltre a un becco aguzzo che ricorda vagamente quello di un avvoltoio… E faraona vulturina è il suo nome comune proprio in forza di una simile associazione, benché il mondo scientifico abbia preferito inserirla entro il genere Acryllium, proprio a identificare il suo retaggio genetico significativamente diverso ed unico rispetto a quello dei suoi vicini tassonomici maggiormente acclarati. Con un associazione al gentil sesso e un ruolo stereotipato di chioccia materna tipico dell’intero ordine dei galliformi, benché nel caso specifico risulti essere piuttosto immeritato, data la poca propensione ad accudire i piccoli da parte di colei che li ha messi al mondo. Un compito gestito, in genere, dal suo consorte oltre all’opera comunitaria dello stormo, che può essere composto da una quantità di fino a 20-25 individui. Proprio in forza della loro propensione, assai caratteristica, a formare strutture sociali dall’elevato grado di complessità.
Giusto un anno fa veniva a tal proposito pubblicato, sulla rivista Current Biology, uno studio dell’Istituto Max Planck sul Comportamento Animale ed altre prestigiose istituzioni accademiche europee, relativo ad un’analisi più approfondita mediante il tracciamento GPS del particolare comportamento di questa faraona, la più imponente e distintiva rappresentante della sua intera categoria…

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La sensuale maschera da demone che occulta le rughe del pipistrello

Una parte non indifferente degli attuali problemi sanitari potrebbero venire istantaneamente risolti, se il semplice gesto d’indossare un rettangolo di stoffa bianca su naso e bocca diventasse un simbolo di seduzione, utilizzato nelle occasioni sociali per fare colpo sull’altro sesso, ogni qual volta se ne presentasse l’occasione. Ed ancor meglio sarebbe, in un simile scenario meramente ipotetico, se tale apparato in grado di proteggere il respiro, proprio e degli altri, fosse una parte inscindibile del corpo umano, potendo scomparire a comando ogni qualvolta si dovesse presentare il bisogno di bere, nutrirsi o declamare versi poetici di fronte a una platea in attesa. Mutazione inquietante, orribilmente contro natura? Stranezza somatica mostruosa e indesiderabile? Niente paura, potremmo risponderci, visto come un simile processo evolutivo sembrerebbe aver coinvolto in precedenza almeno un’altra specie di mammifero, non più lunga di 55 millimetri e dotata di un gran paio d’ali membranose, del tipo comunemente associato ai sotterranei fiammeggianti del più crudele oltretomba. Un angelo caduto tuttavia non è, Centurio senex, quel “vecchio di cento anni” che costituisce poi l’appellativo, estremamente descrittivo, di una particolare specie di pipistrello. Che pur avendo un’areale piuttosto ampio, che si estende dalla parte sud del Messico, per tutto il Sud America e fino alle propaggini settentrionali della Colombia, risulta essere abbastanza raro all’interno di esso (oppur difficile da trovare, che è poi lo stesso in senso pratico) da essere stato sottoposto a studi scientifici non più di due o tre volte a memoria d’uomo. L’ultima delle quali, risalente a settembre del 2018 ma pubblicata soltanto pochi giorni a questa parte sulla rivista PLOS ONE sembrerebbe aver svelato e analizzato a fondo uno dei misteri più rinomati sull’argomento di questa squittente creatura facente parte della famiglia dei pipistrelli neotropicali dal naso a foglia (Phyllostomidae). Così chiamato nonostante la mancanza di una simile caratteristica anatomica, nel suo caso sostituita da una serie di piegature o solchi sul suo volto, tale da farlo assomigliare alla maschera glabra di un anziano rugoso, sormontata da un gran paio di orecchie tipiche del roditore volante. Un aspetto causato, come spesso capita, da necessità specifiche connesse strettamente, secondo l’ipotesi più accreditata, al metodo e l’approccio nutritivo di questo animale per lo più frugivoro, che per saziare la sua fame è solito tuffare la sua intera testa oltre la scorza di un succoso pomo, lasciando quindi che i propri bitorzoli ne guidino a destinazione il dolce contenuto, fin dentro la bocca costellata dagli aguzzi denti da chirottero vampiro. Questione già largamente nota, a differenza del comportamento osservato da Bernal Rodríguez-Herrera dell’Università del Costa Rica, strettamente interconnesso alla già citata “mascherina integrata” facente parte del suo mento, costituita essenzialmente da una piegatura di pelle sollevabile a comando, che esemplari di questa creatura erano stati osservati sollevare in specifici periodi dell’anno, con un qualche tipo d’intento interconnesso all’accoppiamento. Mai nessuno, tuttavia, aveva avuto l’occasione di assistere a una tale circostanza: l’improvviso e impermanente raduno di una certa quantità di esemplari, facilmente superiore alla decina, entro lo spazio chiaramente tranquillo di una piccola radura non distante dalla località turistica di San Ramon. Completamente pervasa, per l’occasione, dal suono del battito d’ali e una serie di trilli acuti, la cui frequenza ultrasonica impediva di essere udibili per l’orecchio umano. Il che non ebbe l’occasione di precludere, d’altronde, l’interesse da parte di una guida locale, che colpita dalla presenza di queste creature mai viste prima, avrebbe compiuto il primo passo per portarle all’attenzione di un amico esperto ed attraverso il suo consiglio, direttamente fino al professore del rinomato istituto d’istruzione di San Pedro Montes de Oca. Il quale avrebbe attribuito al surreale sabba demoniaco, senza eccessive esitazioni, un nome specifico e inerentemente carico d’implicazioni…

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L’incomprimibile armatura del diabolico signore degli scarabei

“Così era tutto assolutamente vero” Pensò l’entità corazzata Nr. 4789, mentre volgeva la sua testa verso la fonte di luce fuori dal barattolo, all’indirizzo dell’enorme predatore dalla giacca color coloniale. “Nella guerra quotidiana per la sopravvivenza, restare immobili non è più abbastanza.” Infatti il suo nemico, avendo appoggiato sopra un tavolo l’indistruttibile prigione di vetro, aveva preso in mano uno strumento acuminato, della dimensione e spessore approssimativi di un ago. Ma grande a sufficienza da riuscire a penetrare l’entità, facendone un trofeo da esporre nella sua camera mortuaria trasparente. Il crudele aguzzino, tuttavia, aveva uno svantaggio di fondo: continuava a mancare, nel novero della sua percezione sensoriale della verità, la cognizione su chi fosse vivo e chi morto, in realtà. Il coperchio del barattolo venne a quel punto sollevato, stringendo l’entità tra il pollice e l’indice, per appoggiarla quindi sopra quella che sembrava essere a tutti gli effetti una bacheca in sughero, pronta a diventare la sua tomba. Egli restò immobile in maniera pressoché totale, tuttavia, sapendo quello che stava per succedere. Il titano calò lo spillone sul suo dorso, con un suono sordo simile a quello di una lingua di camaleonte che colpisce il vetro antiproiettile. Ma l’inclemente punta di quell’arma, all’improvviso, si piegò. Troppo forte l’armatura! Di un soldato tenebroso preparato a tutto, pur di far ritorno nei confini sabbiosi della sua nazione. L’entità corazzata Nr. 4789 scrutò i precisi confini della stanza, mentre l’entomologo, sparito per qualche minuto, era andato a prendere una punta più rigida, possibilmente attaccata a un trapano elettrico a motore. “Questa gente non sa proprio quando è il momento di arrendersi.” Mormorò tra se e se, mentre prendeva una decisione totalmente priva di precedenti tra le schiere della sua genìa: riprendere a spostarsi non dopo ore, bensì appena una manciata di secondi. Per cominciare soavemente a zampettare, verso l’unica via possibile di scampo di una porta lievemente socchiusa. Oltre cui fin troppo bene sapeva, scorrere l’asfalto distruttivo delle circostanze. Tra gli alti lampioni stradali, ove cui il singolo passaggio di un veicolo avrebbe potuto distruggere in un attimo, insetti meno resistenti e forti di lui…
Lo scarabeo corazzato infernale o Nosoderma diabolicum è una creatura diffusa nel territorio sud-occidentale degli Stati Uniti, con una predilezione particolare per i vasti deserti della California, che sembrerebbe aver imboccato un sentiero assai specifico nel labirinto dell’evoluzione. In qualità di scarabeo che ha perso nei secoli l’abilità di volare, analogamente a quanto avvenuto per alcune altre importanti famiglie dell’ordine dei coleotteri, la natura l’ha dotato in cambio di una versione alternativa delle elitre, gli scudi sollevabili normalmente utili a proteggere le ali, capaci di assorbire senza conseguenze letali una pressione stimabile attorno ai 150 newton, grosso modo stimabile sulle 39.000 volte il suo peso corporeo. Essenzialmente equivalente al caso di un essere di dimensioni umane, dimostratosi in grado di resistere alla massa torreggiante di un macigno da 3,5 milioni di Kg. Il che risultava essere del resto già noto, non potendo perciò costituire l’argomento principale del nuovo studio pubblicato dallo studente Jesus Rivera assieme al suo professore di scienza & ingegneria dei materiali dell’Università della California, David Kisailus, finalizzato piuttosto al necessario approfondimento del perché, e come, una simile casistica spropositata riesca effettivamente a verificarsi. Il che una volta messo per iscritto, approcciandosi per la prima volta a un argomento lungamente tralasciato dalle scienze ingegneristica ed entomologica al tempo stesso per una probabile attribuzione reciproca di competenze, sembrerebbe aver colpito in modo piuttosto diretto la fantasia del pubblico all’inizio dell’attuale settimana. Regalando un attimo di meritata celebrità, e spalancando l’opercolo della sapienza collettiva, nei confronti di questo essere a sei zampe che più che altro, possedeva il chiaro desiderio di essere lasciato in pace…

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Escursionista dello Utah sfugge agli artigli della madre-puma inferocita

Recarsi a passeggiare nella natura è un hobby capace di regalare notevoli soddisfazioni videografiche e ciò riesce ad essere vero, nello stesso modo, anche quando ci si ritrova a proprio malgrado nel mezzo di un documentario del National Geographic. Intitolato nel caso specifico, per suprema sfortuna del nostro protagonista umano, “Come comportarsi quando il secondo felino più grande del Nuovo Mondo inizia ad inseguirti con la probabile intenzione di aggredirti” continuando quindi ad arretrare, investendo la massima attenzione, per un periodo approssimativo di 5 minuti. Non tantissimi, in termini generali eppure decisamente abbastanza, mentre ci si trova a ricercare una possibile via di fuga da quello che potremmo definire, per analogia col nome comune delle Americhe, il (Re) Leone di Montagna (Puma concolor). O per meglio dire la regina, volendo approfondire in maniera più specifica le esatte circostanze dell’ultimo, incredibile video virale proveniente dalle pagine incorporee di Instagram.
Creazione chiaramente accidentale di Kyle Burgess (alias Kunkyle e recentemente diventato celebre col nome di cougar guy) amante delle lunghe passeggiate tra i territori selvaggi e affascinanti del Wasatch Range, i monti situati al confine tra Utah e Idaho ed almeno a partire da oggi, un probabile portatore di pistola nel corso delle sue esplorazioni tra gli alberi e le siepi piene di pericoli non visti. È lui stesso a maledire, d’altra parte, la mancanza di un’arma da fuoco in uno dei momenti salienti del sopracitato incontro, in cui l’animale sempre più nervoso continua a pedinarlo a pochi metri di distanza, effettuando ripetuti accenni d’aggressione mediante balzo in avanti e con le zampe sollevate, mimando il gesto utilizzato normalmente da questi carnivori da 53-100 Kg per ghermire la preda, prima di morderla fatalmente all’altezza del collo. Un destino già toccato, nella cronistoria registrata a partire dal secolo scorso, ad un totale di 27 persone nei 125 attacchi registrati dalle cronache statunitensi e canadesi. Per un totale di casistiche relativamente basso, rispetto per esempio a quello degli orsi o delle vespe, proprio per la bassa probabilità d’incontrare questi schivi e almeno normalmente, cauti felini. Benché l’importanza della statistica, per sua inerente natura, decada nel momento in cui è tuo stesso destino trovarsi in quella condizione, quel preciso momento, l’effettivo rischio potenzialmente letale delle circostanze.
La scena già diventata celebre su scala internazionale si svolge, dunque, verso l’inizio della scorsa settimana e lungo il sentiero dalla forma ad anello del Rock Canyon, in prossimità dell’area metropolitana di Provo-Orem, non troppo lontano dalle propaggini meridionali di Salt Lake City. In quella cosiddetta “interfaccia uomo-natura” diventata progressivamente celebre, nelle ultime decadi, come ambiente abitativo dalla conclamata bellezza ma anche il teatro ideale di una serie d’incontri alquanto problematici. Di cui questa non è che l’ultima, potenzialmente drammatica dimostrazione digitale. Un episodio particolarmente arduo da dimenticare, perché come dice una famosa osservazione dei dintorni nord-americani: “Se hai visto di recente un cervo, il puma non può essere troppo lontano.” Ed sarebbe assai difficile, a questo punto, volgere gli occhi altrove nei confronti del rischio ringhiante in arrivo…

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