Cento cuccioli di rospo nella schiena della loro madre

Vive come una rana, ma non produce i girini? Meraviglia e orrore, ammirazione e disgusto, bellezza o senso massimo di ripugnanza. Non esiste a questo mondo una moneta, intesa come pegno metaforico dei meriti dell’esistenza, che non abbia due facce nettamente contrapposte, ciascuna preminente in base a dove ha scelto di posizionarsi l’osservatore. Eppure che ci crediate o meno, può capitare talvolta, se le condizioni naturali si dimostrano assolutamente perfette, che la suddetta espressione di conio finisca per atterrare sul proprio taglio zigrinato, roteando vorticosamente in senso longitudinale. Ed è allora, dinnanzi a una combinazione tanto eclettica degli ingranaggi dell’evoluzione, che i confini tra testa e croce smettono di avere un senso, trasformando ogni casistica remota in evenienza. Con uno spessore di due o tre centimetri appena. La forma di una foglia abbandonata sul fondale, di fiumi, laghi o specchi d’acqua sudamericani. Niente denti… E neppure una lingua, sostituita nel suo ruolo di modulare i richiami da una strana vibrazione dell’osso ioide. Ma un sistema per proteggere la prole così straordinariamente ingegnoso, tanto efficace nella sua totale unicità, da riuscire a sovvertire i limiti del suo stesso habitat, proiettando l’animale tra le figurazioni evanescenti della più totale leggenda.
Il rospo comune del Suriname, anche detto Pipa Pipa ( ripetizione del termine portoghese che significa “aquilone”) è una creatura primitiva non del tutto priva di una certa grazia latente. Adattatosi a partire dalla sua presunta genesi nell’era del Cretaceo (144-66 Ma) a trascorrere la sua intera vita sott’acqua, dimostra alcuni adattamenti fisiologici davvero singolari, tra cui le zampe posteriori palmate che lo fanno assomigliare a una rana ed occhi piccolissimi, ma coadiuvati dal sistema sensoriale della linea laterale, comune a molte specie di pesci tra cui gli squali. Pur trascorrendo quindi la maggiore parte delle sue giornate adagiato completamente sul fondale, in attesa di eventuali minuscoli pesci o cobepodi di passaggio da risucchiare per trarne sostentamento dopo averli rilevati con le speciali diramazioni sensoriali sul muso e le zampe anteriori, questo strano essere si dimostra a suo agio anche nel nuotare agilmente, compiendo evoluzioni che lo portano in superficie principalmente per due ragioni: assumere ossigeno, oppure l’accoppiamento. E chiunque abbia visto coi propri occhi la seconda di queste scene, non può fare a meno di riconoscere all’anuro in questione una certa visione romantica del mondo, viste le acrobazie disegnate nell’acqua da lui & lei nel corso dell’amplesso, culminanti con quello che può essere descritto come un vero e proprio giro della morte, ripetuto fino a un centinaio di volte nel corso di una lunga giornata d’amore. Ma chiunque conosca, anche superficialmente, le leggi basilari della natura, può ben comprendere come un simile dispendio d’energia non possa normalmente sussistere, senza una finalità ben precisa. Ed almeno sotto questo punto di vista, l’incredibile rospo del Suriname non fa certamente eccezione.
Più e più volte la femmina col maschio attaccato sopra, grazie all’impiego delle sue forti zampe anteriori, disegna l’arco elegante che la conduce fino ai confini dell’acqua, e al compiersi del gesto reiterato, depone un singolo uovo biancastro, il quale immediatamente ricade sul ventre del suo compagno. Al compiersi del volteggio, quindi, egli lo spinge con forza sulla schiena dell’innamorata, inseminandolo e assicurandosi nel contempo che una speciale secrezione gli permetta di aderire saldamente alla schiena della rospa, creando una matrice progressivamente più estesa di embrioni, ciascuno contenente un futuro rappresentante della sua stirpe. Se quindi lei si limitasse, nel corso dei mesi successivi, a trasportare la prole sulla schiena, come fatto nel caso attinente dello scorpione d’acqua (fam. Nepidae) o tra i mammiferi dall’opossum (fam. Didelphidae) non potremmo davvero affermare di essere di fronte ad un caso così estremo e particolare. Ecco dunque, quanto realmente è profonda la tana del nero coniglio: poche ore dopo aver completato l’accoppiamento, le uova hanno già iniziato a sparire. Non perché si sono staccate. Sono penetrate all’INTERNO…

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La cattedrale di marmo scolpita dalle acque della Patagonia

Come in un sogno, ripercorro i passaggi che mi hanno portato a vivere questo scenario senza pari: le 15 ore del volo diretto su un jet di linea da Roma a Santiago del Cile. E il charter che mi ha portato, con ulteriori due di attesa, dalla capitale dello stato formato da una lunga striscia verticale sul Pacifico, fino al comune meridionale di Coyhaique, cittadina relativamente giovane abitata da 50.000 persone. Dove l’industria principale è il turismo, grazie a un patrimonio impossibile da riprodurre altrove: lo splendore fantastico della natura… E poi da lì, la corriera di una trasferta pomeridiana, lungo la spaventosa strada di montagna e fino al piccolo paese di Puerto Tranquilo, che sorge sulle acque del più famoso lago condiviso tra due nazioni: il General Carrera/Buenos Aires, a seconda che si voglia scegliere il punto di vista cileno oppure quello dell’Argentina. E la notte trascorsa sotto le coperte, in questo luogo dove raramente si superano i 15 gradi di temperatura. Odissea finita? Non proprio, visto l’ultimo sforzo da compiere, svegliandosi alle 4:30/5:00 di mattina, per fare in tempo ad unirsi al gruppo d’escursione che, alle prime luci dell’alba, parte quasi ogni giorno a bordo di una piccola barca, diretta oltre il promontorio della baia e dinnanzi a ciò che sto vedendo, adesso, coi miei stessi occhi lievemente offuscati dalla commozione: una costruzione apparentemente artificiale, che si erge dalle gelide acque provenienti dai ghiacciai andini, anzi tre di cui due relativamente compatte, chiamate rispettivamente Cattedrale, Cappella e Caverna. Che tuttavia rispetto a ciò che sembrano evocare simili parole, presentano un fondamentale tratto di distinzione; che adesso appare, per la gioia degli spettatori in larga parte provenienti da diverse regioni del Sudamerica, in tutta la sua incrollabile magnificenza; il fatto di essere letteralmente sollevati dalla superficie dell’acqua straordinariamente azzurra da cui si ergono, su quelle che parrebbero a tutti gli effetti essere delle foreste di colonne individualmente rastremate al fine di accrescere il loro senso innato d’armonia, da sotto le quali filtra il bagliore di una luce ultramondana.
A questo punto sarebbe lecito chiedersi se un tale viaggio, fino ai confini più remoti della Terra, possa essere giustificato anche soltanto in parte dal vedere in prima persona una singola meraviglia della natura, per quanto unica nel vasto territorio delle lande raggiungibili per cielo o per mare. Potrebbe, intendo, se il passo successivo dell’escursione non consistesse nello spegnere il motore, e lasciare che l’inerzia guadagnata, assieme a qualche colpo di pagaia da parte del traghettatore, ci conduca tutti quanti al di sotto della massa di quell’edificio, tanto spesso paragonato al più vasto e appariscente tra gli edifici di culto tipici della cristianità. E non a caso, anche il nome ufficiale di un tale luogo è indicato sulle mappe come Santuario de la Naturaleza, quasi a porlo in contrapposizione a quello della Immacolata Concezione del Cerro San Cristobal, sopra la moderna città di Santiago de Chile. Personalmente non conservo alcun dubbio, in un così fatidico momento, che se soltanto questo luogo fosse altrettanto facile da visitare, sopratutto per i coraggiosi viaggiatori che provengono dall’estero, il suo numero di visite annuali potrebbe rivaleggiare con quelli che compiono l’irrinunciabile pellegrinaggio nei dintorni della capitale. Lo capisco quando, oltre la prua rialzata della barca, si profilano i disegni naturali creati sulla volta dell’arcano colonnato, strati e strati di azzurro, celeste, rosa e blu profondo, che in un gioco di luce senza pari si riflettono sull’acqua increspata dal nostro passaggio. Tra i passeggeri ogni conversazione tace momentaneamente, mentre ciascuno di loro reagisce a un simile spettacolo a suo modo. Chi si sporge dalla murata, nel tentativo di toccare le ruvide pareti con le sue mani. Chi scatta una rapida sequenza di selfie, da pubblicare su Internet non appena riuscirà ad agganciare il segnale di un ripetitore. Altri sembrano restare totalmente immobili, meditando sulle meraviglie del nostro inconoscibile universo. E per colui che fosse tanto scaltro ed abile, da riuscire a scrutare nel fondo delle loro pupille in quel fugace attimo, riuscirebbe a scorgere l’ultimo anello di una simile catena evanescente, che costituisce l’unico collegamento tra la nostra esistenza transitoria e la monumentale essenza della natura…

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La rischiosa ricerca del più grande serpente domestico al mondo

È una qualità tipica delle leggende metropolitane, quella di riuscire a prescindere dall’attribuzione precisa di un momento ed un luogo. In alcune versioni di questa storia, i protagonisti sono una coppia di erpetofili americani, che avevano adottato un’anaconda nel caldo e accogliente stato della Florida. In altre, si tratta della disavventura vissuta da un ricco imprenditore indiano, che per accrescere il suo prestigio aveva scelto di accogliere in casa sua un pitone… Piuttosto grande. Diciamo, tra i 5 e i 6 metri di lunghezza. Ebbene indipendentemente dalla specie o paese di appartenenza, il racconto prosegue descrivendo il fenomenale appetito della creatura, cresciuta sin dalla sua giovane età nutrendola con degli esseri che corrispondessero al suo diametro maggiore: dapprima topi, quindi, polli e conigli man mano che cresceva, per giungere quindi ai maiali ed alla fine, almeno una volta ogni tanto, delle luculliane carcasse di cervo surgelate. Così che, ogni qualvolta uno dei proprietari apriva il terrario illuminato per accarezzare il proprio scaglioso amico, era il caso di frapporre un oggetto di qualche tipo tra esso e la mano umana, affinché nel suo vorace entusiasmo non finisse per mordere proprio l’unica persona che riusciva a riconoscere ed a suo modo, ad amare. Tutto ciò finché un giorno, all’improvviso, la bestia smise all’improvviso di mangiare. Completamente, per giorni che ben presto diventano settimane. Preoccupato per il benessere del suo serpente, il padrone decide quindi di trascorrere più tempo con lui, ed aperta la gabbia trasparente inizia a trascinarlo con se a fare il bagno, in giardino, persino sul letto matrimoniale di casa sua. Quest’ultima prassi, in particolare, sembra rassicurare il grosso rettile che sul morbido materasso, diventa completamente calmo, immobile e sembra distendersi a lato del suo padrone, mostrandosi totalmente timido e più che mai mansueto. Ed è a questo punto che nello svolgersi del mito, entra a pieno titolo il personaggio del salvatore: si tratta di un veterinario abituato alle visite a domicilio, contattato tempo prima dai padroni dell’anaconda o pitone, il quale telefona a tarda sera direttamente a casa del suo cliente: “Dove si trova adesso [REDACTED] e cosa sta facendo? Allontanatevi immediatamente, ripeto, lascia subito la stessa stanza in cui si trova il serpente. Stamane ho finalmente avuto modo di conversare con un esperto, ed ho scoperto l’origine del vostro problema: il rettile non ha perso l’appetito. Lui ha soltanto rinunciato temporaneamente al cibo, per prepararsi ad un pasto PARTICOLARMENTE grande. Hai misurato di recente il diametro raggiunto da [REDACTED]? Perché posso garantirti una cosa: ogni qual volta saliva sul letto, lui stava misurando il TUO. Questa creatura, questa selvatica, preistorica, gigantesca creatura, è probabilmente ormai pronta ad avvolgere le sue spire attorno ad un essere umano. Credo che a questo punto, avrai compreso di chi si tratta…”
Un’altra caratteristica di simili storie, almeno quelle migliori, è che esse contengono una certa percentuale di fantasia, ed un’altra di verità. È ad esempio del tutto privo di base logica che un grosso serpente costrittore, per quanto possa trattarsi di creature dotate di una certa subdola intelligenza, sia in grado di “misurare” l’ampiezza o lunghezza del suo pasto, né di fare scelte in merito all’alimentazione sulla base di grossi banchetti futuri. Come tutti i predatori del mondo animale, è assai più probabile che l’anaconda o il pitone colga l’occasione nel momento stesso in cui percepisce che gli si trova innanzi. E se successivamente non dovesse riuscire a digerire un boccone troppo grande, potrà semplicemente provvedere a rigurgitarlo. Risulta invece ampiamente possibile, per non dire acclarato, che un serpente di questo tipo uccida e riesca fagocitare un essere umano. Diversamente da quanto si afferma generalmente sugli squali, per i quali un mammifero molto più piccolo di una foca e pieno di ossa costituisce un pasto assai poco soddisfacente, nel caso del mega-rettile possiamo tranquillamente affermare che un uomo o donna adulti corrispondano perfettamente ad una tavola imbandita in un pregevole ristorante. Nel caso dell’anaconda verde (Eunectes murinus) ad esempio, chiamata nel Sudamerica serpiente mata-toro (uccisore di tori) esistono plurime testimonianze di esseri umani attaccati e secondo alcune fonti, persino uccisi dall’animale. Spesso si trattava di situazioni in cui il serpente, per qualche motivo, si era sentito minacciato, inducendo in lui il riflesso automatico di balzare addosso all’umano, avvolgendovi attorno le sue spire e impedendo la circolazione del sangue, fino alla morte (contrariamente all’opinione comune, questi serpenti non uccidono per asfissia). Gesto a seguito del quale, inevitabilmente, hanno provato a fagocitare la propria vittima più o meno accidentale. Non si hanno notizie invece di anaconda domestiche che abbiano attaccato il proprietario, benché ciò possa essere attribuito alla comprensibile rarità con cui un serpente dal peso medio di 50-70 Kg venga accolto all’interno di un’abitazione. Anche se, come potete osservare nel video di apertura girato dall’Università di Guadalajara per le scienze biologiche ed agricole, a casa di una donna amante dei rettili che resta purtroppo priva di un nome da ricercare, si tratti di una casistica tutt’altro che inaudita. Ed è palese, osservando la signora bionda col suo adorabile beniamino, che abbraccia ed accarezza sopra i cuscini del divano, lo stato pacifico e quasi sonnolento di un simile animale per lo più acquatico, il quale tirato fuori dal suo ambiente naturale, accetta di buon grado l’offerta di cibo periodica e le pacate moine. Diverso può essere invece il caso, a quanto è stato precedentemente chiarito da alcuni spiacevoli fatti di cronaca, delle creature appartenenti alla famiglia dei Pythonidae, suddivisi in 8 generi e 31 specie diverse. Tra cui le più grandi, notoriamente, vengono considerate “addomesticabili”. Almeno, da alcuni dei coraggiosi sostenitori di questo particolare segmento di mercato…

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La casa in bilico tra i mondi sopra il fiume Bogotà

Lo scroscio della cascata all’orizzonte sembrava disegnare un arco elegante puntato verso la sommità della montagna, perfettamente accentuato dalla geometria ornata delle colonne del portico costruito dall’uomo. Poche forze naturali costituiscono un pericolo maggiore della folla inferocita, spinta da un obiettivo comune configurato sulla distruzione di un luogo, tutto ciò che rappresenta e quello che potrebbe diventare in futuro. Soprattutto quando ci si trova, come sperimentato da Marìa Blanco e Carlos Cuervo della Fondazione Granja El Porvenir in un drammatico momento risalente all’inizio degli anni 2000, presso una dimora isolata a strapiombo su un baratro, il cui unico, tenue contatto con la civiltà veniva  mantenuto attraverso al serpeggiante strada asfaltata che si estende tra la capitale della Colombia e l’antico sito archeologico di Tequendama, tra le più importanti testimonianze della civiltà precolombiana dei Muisca, che qui costruirono villaggi e santuari scavati nella pietra viva della montagna. Della vecchia Casa del Salto (nota: salto significa cascata) che era stata residenza lussuosa, hotel e infine ristorante, ormai nessuno faceva un uso attivo dalla fine degli anni ’90, quando l’inquinamento del grande fiume sottostante aveva raggiunto un punto tale da emanare un odore putrido e pressoché costante, mentre la gente dimenticava, in assenza d’alternative, uno dei luoghi più affascinanti dell’intera regione. Almeno finché un programma radiofonico in cerca d’ascolti, fin troppo popolare tra i giovani, non iniziò a elencare gli “strani fenomeni” che avevano avuto luogo tra queste insostituibili mura: voci di bambina udibili a tarda sera. L’immagine di una suora che compariva occasionalmente sul balcone. Testimonianze di persone che, dopo essersi avventurate all’interno dell’edificio abbandonato in una sessione di urbex, avevano dimenticato chi erano e dove si trovavano, vagando per molte ore tra le tenebre del piano seminterrato. E con tale vivido coinvolgimento, una tale narrazione era stata proposta al pubblico mediatico dai conduttori dello show, che un gruppo di “coraggiosi” in cerca di svago e avventura si era organizzato per presentarsi alla porta dell’infernale edificio, ignorando che quest’ultimo era stato acquistato, nel frattempo, da un ente non a scopo di lucro che stava cercando finanziamenti per il restauro e trasformarlo in un museo. Ora, nella maniera in cui i due responsabili hanno raccontato l’episodio, non è chiaro il modo in cui sia stata effettivamente disinnescata la situazione. Poiché pare che assieme a coloro che intendevano compiere una seduta spiritica, una parte degli assaltatori avesse il volto parzialmente coperto con un cappuccio nero e minacciasse a chiare lettere di bruciare l’abitazione, se soltanto qualcuno non si fosse affrettato ad aprire immediatamente l’uscio e lasciargli esorcizzare gli spiriti dell’oscura magione. La polizia, se pure chiamata immediatamente, sarebbe giunta soltanto dopo parecchio tempo, in funzione della località isolata della casona mentre sembrava che soltanto un Deus Ex Machina di natura sovrannaturale avrebbe potuto, in qualche modo, salvare la situazione dal degenerare ulteriormente. E forse, chi può negarlo? Che in quel particolare momento, da una fessura comparsa tra le nubi soprastanti il grande Salto, sia comparso lo spirito barbuto dello stesso eroe sovrannaturale il quale, secondo le leggende dei nativi, aveva deviato il corso delle acque per evitare il compiersi di una seconda Atlantide degli altopiani. Soltanto per ordinare con voce imperiosa “Ora basta!” e cambiare, ancora una volta, l’immediato destino di una delle più importanti testimonianze nella storia dei suoi discendenti.
La Casa ebbe origine al principio degli anni ’20, quando la celebre figura del generale, ingegnere e politico Pedro Nel Ospina Vázquez, destinato a diventare nel giro di poco tempo capo di stato della Colombia, decise di aver bisogno di una residenza per le vacanze, dove ritirarsi tra un decreto e l’altro allo scopo di pianificare in santa pace la crescita economica della sua nazione. L’edificio, costruito in un prestigioso stile Repubblicano Francese, reca la firma ufficiale dell’architetto Carlos Arturo Tapias, anche se furono in molti a pensare che molte delle soluzioni impiegate, non ultima tra le quali l’assurda collocazione sul ciglio del vasto canyon di fronte allo spettacolo della cascata, fossero il chiaro frutto della stessa capacità visionaria di El Presidente. Furono gli anni formativi, per la lussuosa villa, durante i quali il ricco possessore vi trasferì la più fantastica collezione di arredi e decorazioni, tenendovi importanti ricevimenti con alcuni dei personaggi più importanti della politica e la cultura di Bogotà. Ma l’incertezza economica tra le due guerre, unita alla sempre difficile situazione amministrativa dei paesi sudamericani, avrebbe posto anticipatamente fine al mandato di quest’uomo nel 1926, portando a riconsiderare l’impiego di molti dei suoi palazzi e proprietà. Tra cui la celebre casona, che visto il posizionamento strategico al termine estremo delle Ferrocarriles Nacionales de Colombia, avrebbe finito per costituire un perfetto luogo di soggiorno dedicato a tutti quei viaggiatori avventurosi che, spinti dalle testimonianze dei primi letterati che avevano sperimentato le meraviglie di questi luoghi, si sentivano pronti a vertiginose escursioni nella valle incantata e l’infinita foresta sottostante. Dovete considerare come, prima che la popolazione di Bogotà aumentasse in maniera esponenziale e con essa il flusso degli scarichi fognari, il fiume ancora non emanava alcun odore sgradevole, lasciando questo luogo incontaminato come una sorta di punto di contatto privilegiato con la natura. L’atmosfera dell’hotel continuava a presentarsi, nonostante questo, come altamente ricca e formale, con camere dal costo elevato, mentre ci si aspettava un certo livello di abbigliamento e status sociale da parte dei visitatori. Con il progredire verso la metà del XX secolo, tuttavia, le cose iniziarono gradualmente a cambiare e l’hotel ad assumere un alone tenebroso di cui suo malgrado, non sarebbe mai più riuscito a liberarsi.

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