L’origine della vita dipinta nel tempio del consumismo corporativo a Las Vegas

Con una percezione solamente relativa degli schemi cognitivi normalmente definiti come “il senno di poi”, lasciammo che le porte scorrevoli si aprissero, per fare il nostro ingresso all’interno dello spazio familiare del supermercato. File di scaffali variopinti erano disposti di fronte a noi, perfettamente riconoscibili nella loro fondamentale essenza: qui c’erano frutta e verdura, seguiti dai latticini, la prima colazione, carne, pane e cereali. Eppure QUALCOSA di sottilmente inesatto sembrava carpire il flusso delle nostre aspettative, instradandolo e spingendolo in un luogo remoto. Semplicemente nessuna delle marche era di un tipo venduto altrove, con la ricorrenza e il marchio d’inquietanti compagnie sconosciute; espositori torreggiavano come piramidi surrealiste, con forme geometriche dalla funzione poco chiara. Strani richiami al mondo dell’arte si rincorrevano come strali luccicanti tra le sculture, cabine telefoniche, macchine sonore interattive. Ma fu soltanto dopo che avevamo finito il nostro primo giro esplorativo, che iniziammo a scorgere i portali. Aperture larghe appena il necessario per permettere a qualcuno di varcarle, alcune oscure, altre luminose, ricavate direttamente in quelle che sembravano essere le pareti stesse dell’edificio, ma in realtà costituivano un velo cosmico tra possibili universi paralleli. E non ci fu possibile, in alcun modo, resistere a quel sottile richiamo, quando il primo della fila transitò oltre, e gli altri dovettero seguirlo nella sua destinazione. Finché oltre il confine costituito dalla pura tenebra, non sorsero letterali migliaia di stelle. Figure complesse in configurazione frattale, biologiche e pulsanti, simili al contenuto di una coltura batterica sotto lo sguardo di un microscopio. Creature luminescenti senza nessun tipo di pianeta contro cui stagliarsi, costellazioni insostanziali capaci di chiarire l’assoluta e inalienabile realtà. Poiché di null’altro si trattava, ci mettemmo poco a capirlo, di uno specchio della nostra stessa verità. Posto alla distanza necessaria per mostrarci come dovevamo essere migliaia, se non addirittura svariati milioni di anni fa.
Chi dovesse oggi scorgere da fuori l’edificio della sedicente Area 15, un miglio ad ovest della Strip coi suoi titaneggianti casinò nel cuore urbano del Nevada, sarebbe scusato nel considerarlo un luogo privo di particolare fascino immanente. Capannone spoglio e di un colore grigio scuro, fatta eccezione per la grande scritta con il numero e un murales variopinto dalla forma triangolare, ciò costituisce un effetto assolutamente voluto, nella mera consapevolezza di non poter in alcun modo competere con le impressionanti risorse dei magnati del gioco d’azzardo nordamericano. Rendendo assai difficile, ai non iniziati, intuire la natura trasformativa del suo contenuto carico di misteri. Il cui nome “commerciale” s’iniziò a conoscere verso l’inizio di questo 2021, grazie a una campagna di marketing virale con la versione virtuale in deepfake del cantante country Willie Nelson, diffusa a mezzo Web: “Venite tutti” diceva, “Per la grande apertura di Omega Mart” il supermarket collocato in bilico alla fine dell’universo.
Ed è un qualcosa che esiste realmente, per chi non l’avesse ancora capito, sebbene vada inteso in senso non-letterale come l’ultima creazione interattiva del rinomato collettivo Meow Wolf, compagnia fondata nel 2013 a Santa Fe, Nuovo Messico. Con l’obiettivo di rendere più democratica e coinvolgente l’arte moderna, grazie a uno stile dialettico perfettamente riconoscibile dal linguaggio del cinema, la comunicazione mediatica e i videogiochi. Luogo e contesto niente meno che perfetti, per permettere a un’artista come la venezuelana Claudia Bueno di esporre la sua ultima e più ambiziosa creazione, concepita durante una recente visita ai parchi naturali statunitensi di Yellowstone e del Grand Teton…

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Felicità: che cos’è un lungo serpente di monopattini brasiliani?

Silenziosi e non troppo desiderabili monumenti, spuntati in mezzo al centro storico delle nostre città turistiche e rinomate, questi arcani attrezzi rappresentano il bisogno più evidente di dare una scossa significativa alla mobilità urbana: niente chiasso, né parcheggio, zero emissioni grazie alla metodo della propulsione elettrica, grande bandiera degli obiettivi tecnologici nell’immediato futuro. Per chiare e significative linee di ragionamento, tuttavia, appare ormai poco probabile che il monopattino possa giungere a sostituire l’automobile nell’intera gamma delle sue funzioni, persino all’interno delle mura che delimitano i nostri più vicini e semplici bisogni nel quotidiano. Rischio d’incidenti, flessibilità atletica, prontezza di riflessi, coraggio di affrontare i pericoli che corrono a lato degli affollati marciapiedi… Queste ed altre simili ragioni, qui convergono a ridefinire il senso di una soluzione maggiormente utile al ragazzo in cerca di svago, il turista incuriosito ed altri simili recessi del variegato consorzio umano. Eppure dove mai sarebbe, nella scelta di un tale noleggio, la spontaneità? Dove il senso creativo dell’individuo, incline a dare un senso a un pomeriggio privo di computer, cellulare, Playstation e Nintendo Switch? Per un servizio creato e dedicato esclusivamente ad un pubblico adulto. E persino nei riguardi di quest’ultimo, severamente regolamentato dalle stringenti norme della responsabilità e sicurezza civile. Pensiamo d’altra parte di poter chiamare a noi un’intera dozzina di questi dispositivi. Ed in qualche maniera combinarne il potenziale nascosto all’interno, verso la creazione di un qualcosa di radicalmente nuovo e programmatico nel suo significato apparente. Creato sul modello (perché no!) di questa impressionante attività dei giovani di Rio, San Paolo e Salvador, consistente nell’evocazione tecnologica di una creatura che in un certo senso, diede i natali e alimentò il primordiale amore degli umani nei confronti della Conoscenza. Serpe tentatrice, boa dai sentimenti nebulosi, cobra delle circostanze uniche e segrete: senza zampe eppur dotata, nella sua accezione qui presa in esame, da una lunga pletora di cuscinetti a sfera…
Nessuno è in questi lidi abituato, s’intende, a chiamarli propriamente “monopattini” bensì carrinhos de rolimã ovvero semplicemente “carretti a rotelle” benché le implicazioni di una simile definizione riescano a sottintendere ulteriori aspetti, che trovano corrispondenza in una specifica attività giovanile diffusa e praticata in buona parte dell’America Meridionale, consistente nella messa in opera di un veicolo nettamente definito. Poco più che un asse con un sedile attaccato sopra, in buona sostanza, dotata di quattro cuscinetti per uso meccanico due dei quali montati su una traversa dotata di un perno, da manovrare mediante l’impiego diretto dei piedi secondo i bisogni dell’utilizzatore. Siamo di fronte, in altri termini, al prototipo essenziale di quello che Red Bull avrebbe reso celebre negli Stati Uniti con le sue gare anti-convenzionali della rinomata soap box race, riconoscibili per le sfolgoranti personalizzazioni mediaticamente concepite per stupire un pubblico su scala internettiana…

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La foresta non più amica del crestato pollo punk del Venezuela

Diritta, sottile, ininterrotta è quella linea che collega tutti gli esseri viventi, attraverso il lento trascorrere delle generazioni. Così succede che cambiando ambiente, circostanze, storia ereditaria di una specie, essa finisca non di meno per allinearsi, a suo modo, nello schema delle circostanze date per scontate altrove. Non che debba essere, nei fatti, soltanto un singolo caso di “altrove”: così i cracidi del Sudamerica, in realtà diffusi anche nell’istmo centrale del continente e ancor più sopra, in specifiche regioni del Messico meridionale, possiedano non soltanto caratteristiche dei comuni galliformi selvatici del Vecchio Mondo, come il fagiano, bensì altre mutuate per vie traverse dalla famiglia dei megapodidi, loro distanti cugini dell’Australia, Pacifico e Nuova Guinea. Verso l’ottenimento di un insieme di elementi che risultano fortemente distintivi, caratteristici e difficili da confondere con qualsiasi altra creatura. Osservate, come riferimento, questo maschio di Crax Rubra o hocco maggiore dal richiamo simile alla sirena di una polizia, il più grande, comune e forse più notevole di questi uccelli, 78-84 cm e fino a 4,8 Kg finendo quindi per ricordare nelle dimensioni il tacchino piuttosto che l’uccello simbolo delle nostre comuni fattorie. Eppur capace, nonché propenso, a svolazzar fin sopra gli alberi per ripararsi dai predatori, tra una battuta e l’altra per cercare frutti, bacche e semi. Mentre l’occasionale insetto, topo o piccolo mammifero d’altra natura non viene certo disdegnato, ogni qualvolta si presenti l’occasione di catturarne uno senza eccessive difficoltà. Ciò che lo distingue maggiormente da lontano, d’altro canto, è soprattutto l’aspetto e la disposizione delle sue penne, che al di là del dimorfismo cromatico tra i due sessi, li vede simili nella presenza di un ciuffo ondulato sopra la testa, che l’uccello impiega per segnalare l’intenzione di accoppiarsi, difendersi o imporre più semplicemente la propria notevole presenza. Caratteristica particolarmente nota di questo hocco (o currassow in lingua inglese) come molti altri appartenenti al gruppo dei cracidi, è l’istinto di aggressione notevolmente sviluppato verso chiunque invada il suo territorio, a partire da impreparati, imprudenti umani. Conduttivo verso una serie di feroci attacchi portati mediante l’uso degli artigli e il caratteristico becco gobbuto, di colore giallo nel maschio e nero della femmina con il resto del corpo marrone, rispetto a lui che è invece in genere del tutto nero.
Ogni comportamento ostile, per quanto concerne questo bistrattato uccello, appare particolarmente giustificato data la secolare tradizione di cucinarlo in una serie di piatti tipici, mentre le piume venivano comunemente usate per la costruzione delle frecce di antiche tribù di cacciatori, favorendo uno sfruttamento che avrebbe condotto, attraverso i secoli, a una progressiva riduzione dei loro gruppi sociali un tempo assai uniti. Ma tutto questo non è nulla, in effetti, rispetto alla riduzione progressiva dell’habitat boschivo necessario alla loro sopravvivenza, gradualmente trasformato dall’uomo in campi per la coltivazione della canna da zucchero e altre merci valide all’esportazione, con imprescindibile sofferenza della popolazione aviaria. Un fato condiviso, ed in maniera ancor più sfortunata, da taluni altri rappresentanti di questo particolare ramo dell’albero della vita, oggi inseriti dall’indice dello IUCN tra l’elenco degli animali a maggiore rischio d’estinzione del nostro delicato pianeta.

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I veri colori del passero che ha contribuito a liberare il Venezuela

Non è sempre facile decidere se credere, oppure adottare la posizione del ragionevole dubbio, in merito alle storie folkloristiche poste alla base d’importanti vicende nazionali. Racconti simbolici, qualche volta improbabili, associati a una bandiera, una festa, un inno nazionale… Eppure, difficile negarlo: permane una forte componente realistica nella vicenda connessa al nome del Dr. Ramón Aveledo Hostos, presidente della Società Nazionale delle Scienze Naturali del Venezuela, che nell’inverno del 1957 fu il mittente di un fatale telegramma ai suoi colleghi di Zulia, contenente le seguenti parole: “Inviatemi al più presto il nome dell’uccello che avete intenzione di candidare.” Senza purtroppo meditare, o in alcun modo prevedere, il modo in cui funziona la mente di (talune) persone; perché era grosso modo quello il momento storico, nei cinque lunghi anni fin lì trascorsi, in cui la dittatura del politico e generale Marcos Pérez Jiménez si trovava ormai agli sgoccioli, con le prime dure proteste di piazza e i disordini che avrebbero portato, nel giro di qualche mese, alla sua fuga precipitosa dal paese. Ma poiché in quel delicato momento, la sfida alle urne dovette sembrargli più vicina che mai, fu presumibilmente proprio lui a dar l’ordine alla polizia segreta di catturare lo scienziato inconsapevole e farlo rinchiudere presso El Helicoide a Caracas, l’ex centro commerciale trasformato in prigione per i nemici politici, dove interrogarlo lungamente al fine di fargli rivelare il nome del presunto traditore. E di nomi, egli, avrebbe avuto a dirne molti: il corocora, l’oriolo, il cristofuè, il paraulata e cento altri, mentre i carcerieri continuavano a torturarlo senza mostrare nessun tipo di pietà. Poco tempo dopo, con il supporto dei letterati, uomini di cultura e studiosi indegnati per l’ingiusta prigionia, la rivoluzione avrebbe raggiunto l’apice; ma il nome del presunto nemico di quel dittatore restò un mistero. Proprio mentre il Venezuela, incidentalmente, celebrava la nomina del suo nuovo Ave nacional (l’uccello nazionale): il turpial.
Può sembrare in fondo strano che l’intero mondo accademico di un paese indica una competizione, strutturata e prestigiosa, per la nomina di un rappresentante volatile del proprio territorio, eppure questo riconoscibile passeriforme del Sudamerica, vivace, qualche volta dispettoso e intelligente, sembrò incarnare fin da subito lo spirito del territorio che lo circonda, trasformandosi a pieno titolo nell’emblema e il simbolo d’aggregazione di cui il popolo aveva bisogno. Il turpial o corrupião, scientificamente uno dei tre rappresentanti del genere Icterus, così chiamato per il colore tendente al giallo di parte delle sue piume per il resto nere, rientra del resto nell’ampia categoria di quegli animali apprezzati in primo luogo per la loro bellezza e capacità d’interfacciarsi con gli umani, pur costituendo occasionalmente un problema dal punto di vista degli agricoltori, data la sua innata voracità in materia di frutta nel corso dei mesi invernali. Laddove il comportamento nei confronti degli altri abitanti della giungla, al tempo stesso, non può che risultare oggetto di un qualche grado di diffidenza. Pur non praticando in effetti la specifica strategia del cuculo, che lascia i propri piccoli nella custodia inconsapevole di un’altra madre-uccello, condannando a una crudele dipartita i legittimi pulcini di costei, questo passeriforme del Nuovo Mondo, delle dimensioni più vicine a quelle di un piccolo corvo, viene definito altresì “pirata dei nidi” data la propensione a scacciare i loro possessori legittimi, senza quasi mai spendere le energie necessarie a costruirsi la propria casa a fronte di un risparmio energetico decisamente significativo, fatta l’eccezione per il caso in cui non gli riesca di trovare alcunché. E non è difficile immaginare, dunque, il destino crudele a cui vengano destinate le uova dei precedenti abitanti, qualche volta addirittura divorate data la natura in realtà onnivora di questo astuto volatile dal canto melodioso…

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