Helsinki 2, la città tenuta nascosta dalla luce del sole

Il frastuono dei macchinari mantiene sveglia la gente nel corso del pomeriggio, estendendosi verso le prime ore del crepuscolo autunnale; dozzine di operai, armati di macchine complesse, intenti nel costruire un robusto telaio. Colonne, traversine, piattaforme assieme a ciò che dovrà diventare, entro un paio di settimane, un grattacielo da circa 70 metri nel nuovo centro finanziario di Keski-Pasila: lo strappo alla regola, lungamente imposta, di mantenersi al di sotto di una certa elevazione architettonica, onde preservare il profilo di un’antica città. Ma proprio mentre il gigante continua a crescere, nel contempo, oltre la membrana speculare dell’asfalto cittadino, radici s’insinuano verso il profondo del piedistallo pietroso ove poggiano le sue stesse fondamenta. Una rete di tunnel, antichi saloni, costrutti dal soffitto a volta capaci di rivaleggiare le antiche sale mitologiche dei nani. Alcuni dicono che ad Helsinki, capitale della Finlandia, si ami costruire sotto terra per una mera questione climatica, viste le minime annuali che possono anche aggirarsi tra i -25 e i -35 gradi Celsius; per altri, invece, la ragione è da ricercarsi nel grande bombardamento subito verso la fine della seconda guerra mondiale, quando la Russia, stanca di subire i raid notturni degli aerei tedeschi che avevano qui la loro base, ordinò che nulla restasse in piedi per i vecchi rivali della costosa guerra d’inverno del 1939-40. Ed è certamente un fatto che in questo paese, forse l’unico al mondo, esiste una norma per cui gli appartamenti al di sopra di un certo numero di abitanti prevedano un rifugio interrato capace di ospitarli tutti, affinché le stragi di un tempo non abbiano modo di verificarsi ancora. È ad ogni modo chiaro che a partire dal concilio cittadino del 2010, con l’approvazione dell’UMP (Underground Master Plan) le cose siano cambiate in maniera significativa, fornendo un obiettivo comune all’intera città da perseguire attraverso i lunghi anni a venire. Con i primi risultati che iniziano ad essere apprezzati oggi, tramite alcuni reportage validi a dimostrare il calibro dei risultati fin qui raggiunti. “Una piscina, un campo da hockey, una chiesa. Un data center…” Elenca l’inviata di ABC News Australia, mentre procede verso il punto di fuga prospettico di lunghi e squadrati tunnel, tanto ben illuminati tanto propensi a dissolversi verso le prime propaggini dell’oscurità. “Ma se ci pensate, la vera ragione di tutto questo apparirà estremamente chiara: Guardate queste scaffalature: sono dei letti a castello. L’intero complesso può essere trasformato in un rifugio nel giro di poche ore. Capace di ospitare facilmente le circa 6.000 persone che compongono l’intera popolazione urbana.”
Il cittadino medio di Helsinki conosce fin troppo bene questo “segreto” avendo visto i plotoni militari intenti, nelle ore del proprio addestramento, a scendere presso i punti d’accesso del dedalo, per poi percorrerlo in maniera ordinata. Più di un turista, indotto dalla curiosità a visitare il resort sotterraneo, è rimasto colpito udendo il rumore ritmico dei loro stivali, accompagnato dagli ordini secchi dei sergenti durante la simulazione di varie tipologie d’emergenze. Prima fra tutte, quella particolarmente temuta di un eventuale attacco nucleare, possibilità sempre presente quando si confina con un paese che devolve un’alta percentuale del proprio budget bellico al mantenimento di un arsenale di missili, con testate al plutonio, risalenti a parecchie decadi fa. Lungi dal costituire una mera risorsa del tipo che “speriamo non serva mai” il complesso sotterraneo di Helsinki è anche la sede di numerose importanti infrastrutture cittadine, tra cui le condotte del gas per l’impianto di riscaldamento centralizzato, accessi alternativi alle stazioni della metropolitana (di cui sono presenti, paradossalmente, appena due linee) e i piani sepolti degli uffici pubblici, sedi d’archivio e magazzini deputati a contenere le risorse energetiche della rete cittadina. Primo fra tutti, il colossale silo interrato della centrale di Hanasaari, l’unico impianto a carbone automatizzato del mondo. Presso cui delle potenti macchine costruite ad-hoc estraggono verso la superficie, portandolo direttamente nelle fornaci, il carburante nerastro in quantità sufficiente per produrre i circa 220 MW di energia e 420 di calore necessari a mantenere funzionale la città eternamente presa nella morsa del grande freddo. Ma dotata, questo si, di alcune specifiche qualità nascoste…

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Elicotteri senza coda: un capitolo poco noto della storia dell’aviazione

Verso la fine della seconda guerra mondiale negli Stati Uniti, una particolare questione iniziò a diventare evidente per tutti coloro fossero coinvolti, anche soltanto in maniera passeggera, con lo sviluppo dei nuovi prototipi per l’aviazione: che i dispositivi ad ala rotante, dopo tutto, erano lì per restare che Igor Sikorsky, l’immigrato russo a capo dell’omonima compagnia, avrebbe condotto la marcia verso questo nuovo modo di vedere il volo. Decollare ed atterrare su un’imbarcazione? Trasportare rifornimenti verso il fronte di guerra? Volare a bassa quota alla ricerca di sommergibili? Tutto questo, e molto altro, diventava adesso possibile, al punto che ogni altro tentativo di applicare il concetto di STOL (decollo e atterraggio in uno spazio limitato) d’improvviso, appariva drammaticamente obsoleta. E con essi, le aziende che si erano dedicate primariamente a un tale obiettivo ingegneristico: tra tutte, la Kellett Autogiro Corporation, che a partire dagli anni ’30 aveva lavorato a diverse iterazioni del concetto di un piccolo aeromobile (800, 1.000 Kg al massimo) che come meccanismo per generare portanza faceva affidamento su un rotore, mentre un secondo lo spingeva innanzi verso la destinazione selezionata. Stiamo parlando, in gergo tecnico, del cosiddetto girocottero. Perché in quale modo, altrimenti, si potrebbe prevenire la rotazione fuori controllo del mezzo non appena finisce di staccarsi da terra? Devono sempre esserci DUE rotori perfettamente sincronizzati, grazie a un complesso sistema di alberi di trasmissione, il secondo dei quali ha la mansione di contrastare la coppia di quello principale.
Perciò il colpo di genio dell’uomo venuto dal freddo, tanto per usare uno stereotipo cinematografico, fu di concepire il secondo come una sorta di ventilatore sottodimensionato, posizionato a una distanza sufficiente perché il principio della leva gli permettesse di mantenere in assetto l’intero apparato. Stiamo parlando, tanto per essere chiari, del rotore di coda. Ma se vi fermate un attimo a pensarci, tra tutte le configurazioni possibili per un giro/elicottero, quella che oggi consideriamo “normale” è senz’altro la meno efficiente. Quanta energia potenziale, nei fatti, viene letteralmente impiegata per il solo compito di contrastare la coppia del volo, quanta potenza impiegata per spingere di lato un qualcosa, piuttosto che in alto oppure in avanti! Questo avrebbe potuto dire un altra figura di spicco della storia quel brillante ingegnere di nome Anton Flettner, che purtroppo per il Comando Centrale, era nato dall’altra parte dell’Atlantico, nel paese nemico per eccellenza: la Germania nazista. E fu li che costui, sotto la supervisione e protezione speciale di Himmler (dopo tutto, apparteneva a una famiglia di discendenza ebraica) ricevette i fondi necessari a mettere in pratica la sua innovativa idea, che nessun altro avrebbe mai potuto concepire: mettere i due rotori l’uno a fianco dell’altro, entrambi puntati, più o meno, in direzione perpendicolare al suolo. Già, un approccio piuttosto sconveniente. Perché gli elicotteri non sono larghi, normalmente, svariate decine di metri e le pale rotanti, prima o poi, tendono a urtarsi l’una con l’altra, causando conseguenze non troppo difficili da immaginare. Se non che il suo Fl 282 “Kolibri”, destinato a diventare il primo elicottero prodotto in serie della storia, presentava una serie di espedienti concepiti espressamente al fine di evitare una simile problematica: in primo luogo, l’asse di rotazione delle pale era lievemente inclinato verso l’esterno. E poi, i rispettivi sistemi di trasmissione erano stati sincronizzati, affinché l’espressione della rispettiva potenza potesse trovare sfogo senza mettere a rischio l’integrità dell’apparecchio volante.
A questo punto, oggi penseremmo che un’idea tanto valida e innovativa sarebbe stata copiata puntualmente dai tecnici cinesi, pronti ad immetterla sul mercato ad un prezzo sensibilmente inferiore. Ma quelli erano gli anni del conflitto senza esclusione di colpi, quando ogni paese mirava ad accaparrarsi il benché minimo vantaggio in ambiente conflittuale e logistico, ivi compreso il potente e orgoglioso paese dello zio Sam. Nel 1944 quindi, la Kellett Autogiro Corporation produsse il suo primo sincrottero (vedi immagine e video d’apertura) un’interpretazione di nome XR-8 che pur assomigliando superficialmente all’originale, non era esattamente la stessa cosa…

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Costruita sfera Pokemon per i biologi marini

Le più svariate motivazioni possono spingere qualcuno ad intraprendere il sentiero della scienza, tra le carriere più complesse, talvolta difficili e non sempre ricche d’immediate soddisfazioni. Può comunque causare un certo grado di stupore, la cognizione che al giorno d’oggi una di esse possa essere “Gotta catch’em all!” Ovvero lo slogan pubblicitario di un gioco elettronico che cambiò la storia di quel particolare media, dimostrando quanto fosse divertente catturare, far crescere e poi sfruttare in combattimento un grande numero di bestie immaginarie, tra il buffo, il fantastico e il mostruoso. Già, così tanto tempo è passato da quando Satoshi Tajiri, figlio di un venditore d’auto e una casalinga, dopo gli anni della sua rivista auto-prodotta sul media digitale interattivo ebbe modo di proporre a Nintendo un utilizzo mai pensato per prima per il cavo di collegamento del suo Gameboy: farci passare dentro insetti ed altre creature, affinché i bambini potessero “scambiarli” tra di loro. Era il 1996 ovvero abbastanza perché alcuni di coloro che crebbero facendo esattamente questo, oggi, siano dei ricercatori affermati nei rispettivi campi di competenza. Dove la realtà, talvolta, tende a superare di molto la fantasia. Che Zhi Ern Teoh, allora studente per il dottorato presso la prestigiosa divisione ingegneristica di Harvard, sia stato in precedenza un fan dei Pokémon dovrà per forza restare una mera speculazione. Nulla di simile è stato effettivamente dichiarato in alcuna intervista, conferenza stampa o biografia accademica. Tuttavia, è soprattutto osservando il frutto del suo lavoro, e in modo particolare l’utilizzo che quest’ultimo potrà riuscire ad avere sul campo, che la maggior parte dei siti Internet sembrano essere giunti alla stessa identica conclusione. Questo perché il RAD Sampler, l’apparato diventato oggetto dell’interesse collettivo proprio in questi giorni, a seguito della sua trattazione sulla rivista Science Robotics, sembra ricordare tanto da vicino l’orpello cardine dell’intera serie di videogiochi, giochi di carte e cartoni animati creata oltre due decadi fa. Molti dimenticano a tal proposito, seguendo in pieno il patto finzionale dell’autore, che il mondo dei mostri collezionabili non sia soltanto una fantasia di tipo biologico, ma anche e sopratutto purissima fantascienza. Nelle meccaniche di funzionamento della Pokéball (in italiano, sfera Poké) un attrezzo capace di “catturare” i mostriciattoli trasferendoli letteralmente in un universo quantistico parallelo. Come spiegare, altrimenti, il modo in cui un oggetto dal diametro approssimativo di una palla da tennis possa contenere draghi, pterodattili o giganteschi leviatani volanti? Ebbene io posso dirvi, con una certezza che proviene solamente dalla logica, che chiunque abbia cognizione di tutto questo, lavorando nel contempo in un qualsiasi campo di studio degli animali di questa Terra, un tale miracolo l’ha sognato più volte, come approccio super-semplice alla cattura di esemplari per la sua ricerca, soprattutto se appartenenti a specie difficili da maneggiare senza rischiare involontarie quanto problematiche conseguenze.
Sto parlando, per venire finalmente al nesso della questione, dell’opera di chi deve approcciarsi alle creature marine, per loro implicita natura alcune delle forme di vita più varie ed eclettiche del nostro pianeta. Il che sottintende che, per ogni pesce reso compatto dallo scheletro, molle cefalopode o mollusco corazzato, c’è una minuscola medusa predisposta a disgregarsi non appena viene toccata da mano umana, lasciandosi dietro il regno della materia osservabile e con esso, ogni proposito di essere attentamente studiata. Successe così che il giovane frequentatore della più famosa università statunitense, un giorno del 2014 scegliesse di partecipare a un corso del professore associato Chuck Hoberman dell’Istituto Wyss, divisione di Harvard deputata all’ingegneria ispirata ai processi naturali organici, nella quale si parlava di creare meccanismi capaci di piegarsi grazie a precisi calcoli matematici. Dal che lui scelse di elaborare, seguendo l’ispirazione del momento, un nuovo tipo di poliedri automatici, in cui l’applicazione di un singolo punto di pressione avrebbe indotto l’apertura, o chiusura del poligono di contenimento. L’idea di applicare una simile creazione nel campo della biologia marina, quindi, non sarebbe arrivata che qualche tempo topo, grazie al contributo di Brennan Phillips, un altro studente oggi assistente del dipartimento d’Ingegneria, il quale fece notare al suo collega quanto sarebbe stato utile poter disporre di un simile apparato per raccogliere campioni a notevoli profondità, in forza della sua semplicità di funzionamento, la quantità ridotta di parti mobili e la natura modulare del meccanismo. A quel punto il demone era metaforicamente fuori dalla bottiglia, il che poteva anche significare che c’era una bottiglia vuota, pronta ad accogliere le sopracitate, delicatissime meduse dei mari…

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La pericolosa sfera gigante dell’Università del Maryland

Daniel P. Lathrop è l’uomo che, da un periodo di quasi 10 anni, compare di tanto in tanto sulle riviste e pubblicazioni scientifiche per parlare dello stesso identico esperimento. Non per confermare che l’operazione sia riuscita, oppure l’esatto contrario: in effetti, la sfera di sodio fuso del laboratorio delle dinamiche non-lineari resta sospesa in una sorta di limbo, per cui POTREBBE ipoteticamente generare le forze che tutti si aspettano da lei. Oppure in effetti, non giungere mai e poi mai a farlo. Eppure la stampa non perde interesse, ritornando periodicamente a descrivere l’oggetto, l’uomo e ciò che ha intenzione di fare. Le ragioni sono molteplici, ma girano tutte attorno alla stesso argomento: il fatto che l’oggetto in questione sia una sfera del diametro di tre metri, ricolma del metallo liquido più instabile noto all’uomo, lanciata periodicamente grazie a un motore elettrico da 350 cavalli ad un ritmo di 4 rotazioni al secondo. Dentro di essa, giacciono 13 tonnellate di sodio metallico fuso, l’elemento fisico con il numero atomico 11 a contatto del quale potrebbe bastare una singola goccia d’acqua, per generare un’esplosione catastrofica sufficiente a spazzare via l’intero hangar in cui viene custodito l’esperimento, assieme al suo inventore, i macchinari preposti e chiunque dovesse passare per caso di lì. Non a caso, l’impianto antincendio dell’edificio è stato spento, venendo sostituito con uno speciale sistema ad-hoc capace di sganciare a comando un’intera bombola di nitrogeno liquido, sostanza sufficientemente fredda da bloccare la reazione chimica prima che possa degenerare. A patto, ovviamente, che qualcuno sia abbastanza svelto nel farvi ricorso, in caso d’improvvisa necessità.
È il tipico paradigma della scienza applicata, che talvolta si occupa di meccanismi di precisione, questioni microscopiche prive d’implicazioni problematiche. Ed altre, invece, diventa la disciplina col piede di porco e il potenziale esplosivo, gli sferraglianti ingranaggi di un ambito bramoso che non si ferma dinnanzi a nulla, semplicemente perché non può farlo. Almeno, se vuole scoprire la verità. La serie di quesiti a cui si propone di rispondere un simile esperimento d’altra parte, giunto alla fase critica attorno al 2011 dopo anni di prove e prototipi su scala decisamente più ridotta, è uno di quegli aspetti dell’esistenza che pur essendo collettivamente ignorati, finiranno prima o poi per influenzare ciascuno di noi: che cosa genera il campo magnetico terrestre? Cos’è che causa le sue continue variazioni? E quando accadrà di nuovo, ancora una volta, che i poli del pianeta vadano incontro a una completa inversione, modificando il funzionamento di tutte le bussole del globo? Potrebbe sembrare una questione faceta, finché non si considera come sia proprio la nostra magnetosfera, da tempo immemore, a proteggerci dalle possenti emissioni elettromagnetiche dell’astro solare, capaci potenzialmente di rendere inutilizzabile un buon 95% di tutta l’elettronica a disposizione della razza umana. Ora noi sappiamo, grazie all’inferenza e la legge del rasoio di Occam, che c’è un solo luogo in cui tale campo di forza protettivo può trovare le sue origini: quello strato sepolto che prende il nome di nucleo esterno, dalla temperatura comparativamente bassissima di “appena” 3.000 gradi in alcune regioni, contro i 5.700 del letterale centro della Terra e i 4.000 degli strati inferiori del mantello, ove la fusione è impossibile, a causa dell’eccezionale pressione dovuta alla gravità del pianeta stesso. Mentre c’è questa letterale zona grigia, composta in massima parte di metalli, per cui la forza centrifuga è latrice di movimento, ragione per cui ferro e nickel, più densi, vanno a disporsi ai confini della linea terminale, mentre altre sostanze più morbide, come il sodio, procedono sicuri verso la superficie, andando a perdersi dentro le intercapedini delle infinite rocce soprastanti. Capite di cosa stiamo parlando? La fisica ci insegna che quando un rotore composto almeno in parte di metallo magnetico viene immerso in un campo pre-esistente, il suo movimento non può fare a meno di amplificare una tale forza in maniera proporzionale. Il che su scala cosmica prende il nome di teoria della dinamo terrestre, secondo quanto delineato per la prima volta dall’astronomo inglese William Gilbert, nel suo famoso libro De Magnete (1600) il testo, incidentalmente, in cui viene usato per la prima volta il termine electricus, da cui il moderno concetto d’elettricità. Ma c’è una netta differenza tra il conoscere qualcosa in maniera teorica, e riuscire invece a dimostrarlo al di là di ogni ragionevole dubbio, grazie all’analisi di un preciso modello di quell’universo a noi letteralmente sconosciuto, che giace sotto i piedi a profondità molte volte superiori a quelle raggiungibili da qualsiasi trivella, anche nell’immediato futuro…

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