L’aereo che non può smettere di andare a fuoco

Molte sono le leggende che circolano sul personaggio di Howard Hughes, aviatore, produttore cinematografico, investitore nei fatti al comando della Trans World Airlines, grande linea aerea nazionale. Che rappresentò con il suo stile di vita e le psicosi galoppanti, in un certo senso, la decostruzione del suo stesso mito, e con esso della saggezza presumibilmente insita nei grandi uomini con il controllo dell’economia globale. Laddove lui, nelle sue avventure umane e finanziarie, piuttosto che compiere scelte delle ragionate, sembrava guidato da un intuito innato, una sorta di stoltezza illuminata dall’invisibile dea della Fortuna. Come quando in un momento imprecisato tra il 1939 e il 1942, all’apice della seconda guerra mondiale, piazzò un ordine segreto con la Lockheed per 40 “Constellation” L-049 quadrimotore da trasporto che non erano mai andati oltre la fase del prototipo, causa l’ordine governativo di concentrarsi sulla produzione del potente caccia bimotore P-38 Lightning. Ed è così che lo ritroviamo, nel 1944, dopo aver preso in prestito dalle Forze Armate uno dei pochi allestimenti militari dell’aereo, frettolosamente ridipinto nei colori della sua compagnia, per un volo di prova con il direttore della Lockheed Jack Frye nel ruolo di co-pilota, la sua fidanzata Ava Gardner e Kelly Johnson, capo progettista della divisione prototipi del produttore d’aeromobili in questione. Era un bel giorno d’aprile, quando l’aereo decollò da Burbank, California, per un volo di 7 ore fino all’aeroporto di Washington National dall’altra parte del paese. “Vede Sig. Johnson” Declamò il capitano Hughes, voltandosi a metà dal sedile per essere udito nelle prime file della cabina passeggeri dell’aeromobile lungo 29 metri, uno dei primi mezzi pressurizzati nella storia: “Questo aereo mi piace. È bella la sua fusoliera curva, che ricorda la forma di un’ala curvando verso il retro per far entrare in un hangar l’enorme tripla coda. È moderno ed elegante, il modo in cui si muove sulla pista usando le tre ruote al termine dell’alto carrello, pronto a balzare in avanti verso la sua destinazione prefissata.” Qui Frye, che condivideva i comandi dal sedile a fianco, fece una smorfia simile ad un ghigno. Conoscendo bene il suo amico e collega, sapeva cosa stava per succedere. C’erano persone che si accontentavano di metafore e figure retoriche nei loro discorsi. Il pilota di oggi non era tra loro. “Però… C’è un grande distinguo da fare. Io amo… Gli aerei che cabrano in maniera aggraziata!” A questo punto del discorso, tirò a se la cloche, facendo sparire l’orizzonte al di sotto del finestrino frontale. La velocità iniziò a diminuire mentre Ava, con una risata chiamava il nome del fidanzato “Questo perché, hanno potenza da vendere. Lei pensa che questo suo aereo possa affermare lo stesso?” Gradualmente, inesorabilmente, l’L-049 si avvicinò al momento fatale dello stallo. Pur non riuscendo a vederle, Johnson era dolorosamente cosciente dei picchi delle Rocky Mountains che stavano sorvolando ormai da 25 minuti. Fu allora che Frye fece sentire la sua voce: “Howard, basta così. Riporta in assetto l’aereo. Ti faremo avere un piano per i nuovi motori.” Ovviamente, a quel punto era già troppo tardi per fare marcia indietro. Kelly Johnson avrebbe in seguito dichiarato ai giornali che Hughes, forse a seguito dei numerosi incidenti subiti con i suoi amati prototipi del volo (l’ultimo dei quali c’era stato soltanto l’anno prima, a bordo dell’idrovolante S-43) doveva aver riportato dei danni neurologici di qualche tipo, e che sarebbe stato meglio togliergli il brevetto di volo. Naturalmente, nessuno trovò il coraggio di farlo.
Ciò detto, i milioni di dollari sono pur sempre milioni. E così nell’immediato dopoguerra, per tentare di accontentare uno dei loro maggiori clienti, la Lockheed riacquistò dall’esercito alcuni dei pochi L-049 prodotti fin’ora, che erano stati riconfigurati per ospitare gli stessi motori della fortezza volante B-29, i potenti impianti radiali Wright R-3350 “Duplex-Cyclone”. Con ben poco entusiasmo da parte dei committenti militari, che si erano visti recapitare questi aeromobili certamente in grado di tracciare uno svettante arco nel cielo, ma meno affidabili, costosi da mantenere. E un piccolo dettaglio, robetta da nulla: costantemente propensi a lanciare lingue di fiamma sulla scia della loro rotta di volo. Questo perché i motori in questione, nella versione non ancora ottimizzata usata prima del bombardiere celebre come la “Fortezza volante”, presentavano una particolare soluzione tecnica per il recupero dell’energia, definita del sistema turbo-compound. Benché tale appellativo, in effetti, possa servire a condurvi fuori strada: essi non avevano in effetti alcuna relazione con l’immettere maggiori quantità d’aria nella camera di combustione. Anzi, tutt’altro…

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Il geyser alieno nel deserto del Nevada

Rosso, giallo, verde, arancione. Se lo guardi dal giusto lato, sembra un tacchino. Da un altro, tre teste di pesce che affiorano dalle profondità sabbiose. O piramidi di roccia fusa, plasmate da un’antica civiltà con l’uso di tecnologie proibite. Ogni anno per 8 giorni sul finire dell’estate, 90 miglia a nord-est della città di Reno, molte migliaia di persone si riuniscono sulle pianure saline di questo stato, con automobili, caravan, pick-up fuoristrada carichi di materiale. Lo scopo, in effetti, è quello di fondare una città. La chiamano Black Rock, ma l’intero evento è più famoso con il nome formale di The Burning Man, ispirato all’evento finale dell’intera tradizionale kermesse: bruciare in modo plateale, come durante una ricorrenza pagana, un fantoccio antropomorfo rappresentante “the Man” ovvero l’uomo, ovvero, se vogliamo, l’oppositore di una simile controcultura, fondata sul bisogno di esprimersi con opere d’arte che svettino sotto il duro sole del maggiore deserto statunitense. Oggetti come templi, statue, obelischi, scenografie rappresentanti mondi e sentimenti totalmente fuori dal senso comune. Tra i quali, sareste perdonati nel pensarlo, figura in posizione periferica questo oggetto letteralmente mai visto prima: una forma variopinta alta 3,7 metri, simile ad un cuore o altro organo segreto del corpo dei viventi, caratterizzato da variopinte sfumature di colore. E non finisce qui: poiché dalla sommità di esso, sgorga copioso un flusso d’acqua riscaldato a circa 200 gradi, abbastanza per ustionare chi sia tanto folle da andare lì a toccarlo con le proprie mani. Com’è possibile? Verrebbe da pensare allora, quando si considera come la “cosa” sia in effetti costituita di pietra calcarea, ovvero per essere specifici marmo di travertino, risultando certamente più pesante di quello che i suoi saltuari ammiratori possano aver trasportato sulla scena con i loro veicoli stradali generalmente non adibiti a trasporti fuori misura. Quindi l’unica risposta possibile è che un simile oggetto, elemento periferico della città stagionale degli artisti, dovesse effettivamente trovarsi già lì. Da un tempo molto più lungo…
Ma forse non poi così remoto come potreste essere portati a pensare: stiamo effettivamente parlando di una formazione rocciosa naturale generata da una fonte geotermica, come forse avrete già capito, ma non di quelle derivanti dalla remota epoca della preistoria. Il Fly Geyser, diversamente dai suoi simili del parco di Yellowstone e altri scenari assai famosi per gli amanti di simili meraviglie del territorio, ha infatti un’origine dovuta a niente meno che la mano dell’uomo. O meglio, la punta diamantata dei sui meccanismi di trivellazione. Poiché tutto ebbe inizio, a dire il vero, per l’effetto di un semplice errore, anzi due. Il primo commesso più di 100 anni prima, quando i proprietari di questo terreno facente parte di un ranch tentarono di trovare una fonte d’acqua per irrigare nuovi tipi di coltivazione. Se non che, al completamento dell’operazione, il fluido che sgorgò fuori si rivelò essere così caldo  e impregnato di zolfo da non poter essere impiegato assolutamente a un tale scopo. Così il buco venne ricoperto e dimenticato. Se non che nel 1964, con i progressi effettuati nello sfruttamento dell’energia geotermica, una seconda compagnia non giunse presso questo stesso sito, con l’equipaggiamento necessario a raggiungere nuovamente le falde nascoste nel sottosuolo della regione. Soltanto per creare un secondo foro da cui far sorgere la misteriosa acqua delle profondità. Che si dimostrò di nuovo inadeguata per lo scopo di stagione, visto che pur essendo molto calda, non lo era in alcun modo abbastanza per i loro scopi. Il geyser venne dunque nuovamente ricoperto, se non che stavolta, la pressione si dimostrò superiore alle aspettative. Così il pozzo verticale cedette, ritrovandosi a comunicare con quello vicino di tanti anni prima., finendo per trascinare in superficie una grande quantità di materiali e… Stranissime forme di vita. Così che, un giorno dopo l’altro, con una rapidità tutt’altro che usuale nell’ambito geologico, la roccia variopinta continuò a crescere e solleverarsi dalle sabbie del Mojave.

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Essere umano entra nel nido di vespe giganti

La sottile membrana tra l’esistenza e la non-esistenza si aprì, con un cigolìo determinato da anni d’incuria e non utilizzo. La maniglia bronzea del tipo rotante in senso antiorario sembrava più adatta alla porta di una stanza da letto che alla struttura di una piccola dependance, esposta quotidianamente alla furia degli elementi. Dall’interno del suo scafandro, l’esploratore ricordò quante volta aveva assistito a una simile scena. I soldati in equipaggiamento completo del film, e poi telefilm Stargate, pronti a combattere contro forze aliene mai neppure immaginate prima di quel momento. Gli operatori della simil-installazione Montauk tra le foreste del ben più recente Stranger Things, alle prese con il mostruoso regno del Sotto-Sopra. Nathan Drake nella serie ludica Uncharted, che fa rotolare da parte la porta di pietra prima di penetrare nell’ennesima versione di El Dorado o magnifica terra di Shangri-La. Ma così come non può esserci guadagno senza un certo grado di rischio, la realizzazione individuale è impossibile, senza la sofferenza. Allora con braccia aperte ad accoglierla, e un’espressione dura sul volto, egli ha varcato la soglia, determinato a osservare la Sofferenza che si alzava da terra, avvolgendolo col chiaro intento di soffocarlo.
Tutto è iniziato con un fantastico e inusuale rigoglio degli orti vegetali antistanti. I primi a sparire sono stati i dermatteri, anche detti le forbicine, subito seguiti dai vermi del legno, gli afidi e le altre creature fitofaghe nascoste sotto la corteccia degli alberi. Quindi se ne sono andati i bruchi, letteralmente sublimati nell’aria, con un senso di gratitudine diffuso tra gli agricoltori. Nessuno voleva porsi il problema, finché non hanno iniziato a scappare i bambini. Era l’usanza, qui a Patterson in Louisiana, come nel resto degli Stati Uniti, dire che quel particolare insetto non serve a nulla: la yellowjacket, o vespa dal dorso giallo. Un’entità (Vespula maculifrons) o gruppo di entità (aggiungere V. Squamosa e V. pensylvanica) nettamente distinte per il senso comune di questa nazione, rispetto ai calabroni o la Polistes dominula, vespa della carta europea. Intendiamoci, non che uno di noi, per strada, riuscirebbe a riconoscere l’una dalle altre. L’unica differenza esteriore del singolo insetto è infatti relativa alla disposizione delle macchie gialle e nere della loro livrea aposematica, quel giallo e nero concepito per spaventare i predatori. Ma chiunque noterebbe, dopo un certo tempo, la loro fantastica voracità. La differenza chiave tra l’una e l’altra genìa si rintraccia soprattutto nel loro senso di aggregazione comportamentale, che porta le vespe in questione, piuttosto che a costruire una pluralità di piccoli nidi all’interno del territorio da qualche dozzina d’esemplari ciascuno, verso l’urbanizzazione pesante di una vera e propria giganteggiante comunità. Migliaia, o persino decine di migliaia di individui, abituati a scavare per circa un metro in profondità del suolo, prima di iniziare a costruire i loro condomini segreti da difendere strenuamente col pungiglione. O ancora meglio, intenti a trovare un attico, un controsoffitto, una cantina abbandonata dove iniziare la propria nuova storia residenziale. Dodicimila cuori e una… Capanna. Immaginate dunque la prima reazione del proprietario  responsabile di questo ambiente, quando alle reiterate segnalazioni dei vicini, ha finalmente deciso di recarsi in prossimità del vecchio ripostiglio, costruito sul proprio terreno secoli fa, per aprire lentamente la porta e vedere, come in un sogno, la spaventosa nube ronzante della Fine.
Nessuno vorrebbe affrontare un cane rabbioso, un lupo, un’orsa coi cuccioli determinata ad annientare la sagoma che si pone su suo cammino. Ma la realtà è che qualsiasi animale più o meno selvatico, per quanto arrabbiato, può in qualche modo essere tenuto a distanza se non addirittura sconfitto con l’uso di armi adeguate. Mentre non puoi difenderti attivamente da uno sciame. L’unica speranza è rendere più spessa la tua pelle, e candida e impenetrabile, grazie all’uso di una tuta protettiva dotata di casco integrale, guanti e calzature assicurate con generose dosi di nastro adesivo. E sarà meglio assicurarti che la tenuta sia sicura come quella di una tuta antiradiazioni, la cui funzione è assicurare all’operatore un’esistenza continuativa fino al giorno di domani. Perché in effetti, anche in questo caso, è davvero così. Lo dimostra, col suo coraggio e spirito del dovere, il “bug man” locale Jude Verret subito chiamato sulla scena, anche noto professionalmente col nome di STINGER Creations, che non è la boutique di un artista moderno, ma un allevamento di api e piccola casa produttrice di miele. Prodotto di API, non VESPE, s’intende. È da sempre difficile, tuttavia, capire per l’uomo comune la straordinariamente sottile differenza. Così quando si chiama l’esperto, ci si aspetta che risolva il problema, comunque. Negli anni, Jude ci si è abituato.  Ha persino deciso di farne uno spettacolo, grazie all’impiego della sua telecamera portatile GoPro. Vespe permettendo…

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Elicottero infuriato brucia il bosco californiano

43 residenze, 53 edifici, 8 strutture annientate dalle fiamme. 69.438 acri andati in fumo, nonostante il coinvolgimento di 227 vigili del fuoco. Nelle regioni più secche degli Stati Uniti, gli incendi sono talmente grandi, e devastanti, da riuscire a guadagnarsi addirittura un soprannome. Come il “Rocky Fire” che nell’estate del 2015 porto disastro e distruzione per un territorio notevolmente più esteso della media. “E ti credo!” Avrebbero esclamato i più ingenui tra gli spettatori. Tutta colpa di quel temibile pilota col suo diabolico arnese volante. Iniziò a girare voce tra i locali. Ne parlò persino il TG, con scene che parevano prelevate da un film di fantascienza speculativa sulla falsariga di Farheneit 451. L’elicottero, apparentemente non dissimile da tutti gli altri, si sollevava in volo ai margini del centro abitato. Trascinandosi dietro quello che guardando da lontano, non poteva assomigliare ad altro che un secchio per il trasporto dell’acqua. Se non che appariva, stranamente, sigillato. Quasi come se gli addetti a terra l’avessero precedentemente riempito con un liquido speciale. Così una volta raggiunta la scena delle fiamme, avreste visto questo arnese che deviava verso i margini del caos. E invece di puntare dritto al centro come da prassi, scaricava il contenuto del barile ai lungo quel tragitto che si riteneva più probabile per il propagarsi dello show. Soltanto che, apriti cielo: letteralmente. Mentre l’aria si faceva tremolante, per l’effetto del calore e la rarefazione, quello che scendeva era soltanto fuoco, altro fuoco, tanto per contribuire alla devastazione sistematica dell’universo vegetale. Stop. Cosa stiamo vedendo? C’è una tecnica, che in molti conosciamo, per limitare il verificarsi di una simile evenienza. Sto parlando della bruciatura controllata, durante cui gli addetti alla foresteria, senza alcuna esitazione, appiccano le fiamme ad aree attentamente definite del territorio oggetto delle loro responsabilità. Avendo cura che le piante più alte sopravvivano e ottenendo, in questo modo, che erba secca, foglie morte ed altro combustibile si trasformino in cenere e concime. Quello che abbiamo modo di scrutare in modo assai meno frequente, tuttavia, soprattutto qui da noi in Europa, è la versione più disperata di una tale prassi, che prevede l’intervento con l’incendio in corso ormai da svariate ore. Quando i metodi convenzionali non bastano più a risolvere la situazione, e l’unica risorsa che rimane all’uomo, è disegnare le cosiddette “linee nere”; aree lunghe e sottili dove non resti assolutamente nulla che il fuoco possa lambire. Lasciandogli la sola scelta di fermarsi, e poi dissolversi nell’aria.
Un tipo d’intervento tradizionalmente riservato solamente ai più convinti e coraggiosi tra i volontari, per il semplice fatto che potrebbe corrispondere, in linea di principio, ad un chiaro intento di passare a miglior vita. Gli improvvisi mutamenti della direzione del vento, dopo tutto, sono un caso proverbiale, così come il rischio che pervade questo gesto di aggiungere altro fuoco dove già il terreno brucia, ritrovandosi potenzialmente chiusi tra pareti che si stringono, un poco alla volta. Finché per fortuna, attorno all’epoca degli anni ’60, i pompieri forestali della Divisione Incendi Californiana (CALFIRE) non iniziarono a sperimentare un nuovo tipo di approccio al problema. Legare un lungo cavo sotto un elicottero, ed attaccarvi… Varie cose. Un processo noto come helitack, il cui inventore resta largamente ignoto, ma che avrebbe rivoluzionato su scala globale il metodo per approcciarsi agli incendi boschivi. Ben presto ci si rese conto agire da terra nelle circostanze più infernali era un rischio che non occorreva più correre, a meno che si fossero già tentate tutte le alternative a disposizione. Tra cui quella, decisamente Heavy Metal, di gettare l’equivalente civile del napalm sul sentiero più probabile dell’espansione dell’incendio. Sia chiaro che stiamo parlando, in questo caso, dell’elitorcia, uno strumento che non costituisce, contrariamente al suo apparente aspetto, la più compatta e versatile delle armi di distruzione di massa. Bensì un utile alleato nella lotta contro entità spietate come il Rocky Fire del 2015, e così tutti gli altri incendi a venire. Un lanciafiamme buono, in altri termini. Il più improbabile degli ossimori, tra tutti quelli che potremmo concepire in un’epoca successiva alle grandi guerre del ‘900.

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