La comprovata semplificazione abitativa del costruire case in mezzo alle vestigia di necropoli millenarie

Nel più antico poema epico dell’umanità, l’eroe e re di Uruk, Gilgamesh sceglie di ribellarsi al più fatale degli eventi quando il suo rivale e amico Enkidu si ammala, come punizione per aver offeso la dea dell’amore Ishtar. Intrapreso dunque un lungo viaggio alla ricerca del segreto della vita eterna, egli giunge fino alla terra mitica di Dilmun, grosso modo corrispondente alle odierne isole di Bahrein e Failaka, ma che alcuni identificano con un’antica landa poi finita sotto il mare, successivamente all’inondazione del Golfo Persico attraverso lo Stretto di Hormuz. Che si creda o meno all’incontro del protagonista con l’immortale Utnapishtim ed al successivo verificarsi di un diluvio universale, ad ogni modo, cosa certa è che un regno dalla grande prosperità esistette in quest’area geografica all’incirca duemila anni prima della nascita di Cristo. Dove la morte non era certo una casistica dimenticata dalla gente, vista l’esistenza di un culto dei morti tra i più sviluppati e universali di qualsiasi civiltà fin qui scoperta del Mondo Antico. Immaginate a tal proposito l’equivalenza della previdenza civile contemporanea applicata ad un’epoca in cui il concetto di medicina pubblica era decisamente preliminare, e la vita media delle persone raramente superava le quattro decadi di età. Al punto da rendere il supremo lascito, un luogo dell’eterno riposo, come l’unica testimonianza visibile della trascorsa vita a vantaggio dei propri figli e nipoti. Non sarebbe stata dunque la città ideale, un luogo in cui chiunque, anche il più umile tra gli uomini, avrebbe ricevuto una tomba in grado di svettare sulle sabbiose alture di un cimitero? Questa una delle possibili motivazioni, tra le altre, in grado d’indurre l’Antico e il Medio Regno di Dilmun verso la creazione di uno dei siti archeologici più notevoli ed estesi dell’intera regione, composto da un gran totale di 11.774 tumuli distribuiti in un lunghissimo arco temporale. E appartenenti ad un’ampia varietà di classi sociali, dai sepolcri più magnifici dedicati ai sovrani fino a quelli di una sola stanza, un tempo appartenuti alle classi più comuni di quest’epoca che ancora riesce a mantenere molti dei suoi segreti. Ma immaginate a questo punto, nel trascorrere dei molti secoli, il progressivo ridursi delle terre emerse ed il corrispondente espandersi degli insediamenti costruiti dall’uomo. Mentre lo spazio a disposizione continuava a ridursi e luoghi come l’adiacente villaggio densamente abitato di A’ali si trasformavano da piccoli insediamenti a cittadine, quindi compatte metropoli dei tempi contemporanei. Forse la popolazione avrebbe potuto mantenere una rispettosa distanza di sicurezza dalle gibbose vestigia del pregresso culto dei defunti, evitando di costruirvi accanto palazzine e strade sopraelevate di scorrimento. Ma a causa di una serie di fattori convergenti, non fu così…

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La capsula temporale serbata dal supremo sacerdote nel sepolcro peruviano dell’Oro

“Per volere degli Dei essi verranno sottoposti alla suprema punizione. Che il villaggio dei ribelli venga dato alle fiamme. Che i loro guerrieri versino il sacro fluido della vita come concime nei campi della valle. Che i capi siano separati dalle loro teste, per intercessione di Aia Paec, il Sommo Decapitatore.” I sudditi della città ai margini dell’arida radura pedemontana volsero lo sguardo al piedistallo in mattoni di fango, in base all’usanza dell’antico rito di condanna generazionale. Dove il sacerdote del Gufo, con la maschera e gli occhiali a nascondergli il volto, enunciava la sua parte, in attesa di passare la parola al riconoscibile rappresentante del suo mistico collega, il Serpente. Sotto il manto in scaglie e piume, egli diede seguito all’arcana enunciazione, mentre al centro della triade, il grande Re teneva in alto il suo pugnale dalla forma di una mezzaluna invertita, in grado di riflettere la luce come un tangibile frammento dell’astro solare stesso. I grandi orecchini, con rappresentazioni di uomini-giaguaro e cane a far da contrappunto all’ornamento nasale ricurvo, sopra cui trovava posto l’alto copricapo, simbolo supremo del suo potere. L’armatura costruita con tasselli del miglior argento, oro e rame a disposizione. Terminato il tempo delle semplici parole, egli si rivolse con un gesto verso il basso edificio presenziato dall’unica donna di quel mondo, che aveva assolto al compito di purificazione dei prigionieri. Trasportati al termine di una stringente fune, totalmente privi di vestiti, essi vennero spinti in ginocchio dai guardiani all’ombra dei padroni di un triste destino. Quando l’ombra della meridiana fu prossima a sparire al del tutto, il coltello del sovrano era ormai sopra la testa della prima vittima sacrificale. Con un grido attentamente modulato, venne dato il segnale. E il sangue iniziò a scorrere, copioso.
È la narrazione di cui siamo meglio a conoscenza, forse la più importante di tutte, nella ritualità e celebrazione religiosa del popolo dei Moche, il cui dominio culturale, se non politico da un punto di vista tradizionale, si estese tra il secondo e il nono secolo d.C. in un territorio grosso modo corrispondente alla parte nord-orientale dell’odierna nazione peruviana. Testimoniata non mediante un resoconto scritto, giacché alcun tipo delle loro immanenti codifiche del linguaggio è giunta intatta fino ai nostri giorni, quanto grazie a nette raffigurazioni negli oggetti rituali, sui recipienti di terracotta o ancora tecniche d’incisione e bassorilievo sui metalli, che lavoravano con un grado di perizia molto superiore alla media dei loro vicini sudamericani. Ma forse la più chiara e completa prova di quel mondo, della sua precisa crudeltà ed il modo in cui venivano condotti gli affari di stato, può essere individuata nel singolo ritrovamento archeologico di quell’intera area geografica, denominato in modo metaforico come il Tutankhamon sudamericano. Soprattutto per la fortunata contingenza, che avrebbe permesso ad una serie di tombe particolarmente importanti risalenti al 700 d.C. di sopravvivere intatte dalle predazioni dei ladri, fino al 1987 quando, per una serie di sinergie e convergenze, eminenti addetti del mondo accademico ebbero l’entusiasmante occasione di riportarle alla luce…

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Le quindici piramidi che precorsero la transitorietà delle ancestrali dinastie cinesi

Che una serie di massicce piramidi possa essere “scoperte” in maniera improvvisa costituisce oggettivamente un fatto alquanto sorprendente,. soprattutto se si trovano lungo la costa di una prefettura cinese da 497.000 abitanti, e letteralmente a ridosso di una cittadina che ne conta 86.400. Eppure nell’estate dell’anno scorso numerose testate nazionali ed internazionali, soprattutto di natura digitale, hanno titolato in merito alla presunta ricomparsa dalle offuscate nebbie del tempo di una serie di presunti monumenti denominati strategicamente sulla falsariga delle aguzze tombe dei faraoni, per affinità con le strutture concettualmente non dissimili, benché sensibilmente meno imponenti, delle tombe imperiali della dinastia Xixia (1038–1227). Ecco finalmente un appropriato tipo di attrazione, paesaggistica e proto-storica, per questa località in precedenza fuori dalla preponderante maggioranza delle guide turistiche, per lo più dotata di proporzioni totalmente prive di precedenti: tra i 200 e 400 metri di elevazione rispetto alla valle sottostante, in modo tale da evocare pressoché immediatamente i soliti noti tra cui ufologi, cospirazionisti e cultori dell’origine extraterrestre di plurime civiltà ormai da lungo tempo scomparse. Il che avrebbe costretto di responsabili del marketing turistico ad aggiungere, pressoché immediatamente, il critico debunking delle circostanze, ovvero una spiegazione pratica di cosa, esattamente, il mondo si apprestasse a discutere a margine del loro piccolo, antico angolo di mondo quasi letteralmente sconosciuto fuori dai confini disegnati dai suoi stessi abitanti. Trattasi dunque di 天然金字塔 (Tiānrán jīnzìtǎ) traducibile come “piramidi naturali” costruite dall’azione carsica di epoche eccezionalmente remote, prima di assumere le proporzioni e l’attuale aspetto di vere e proprie colline. Databili, grazie all’analisi stratigrafica del carbonato presente all’interno, all’Era del Triassico (oltre 200 milioni di anni fa) quando ancora l’intera regione di Anlong sostanzialmente non esisteva, rimanendo sommersa sotto le acque salmastre dell’oceano primordiale che assediava i continenti. Le sue lande sottoposte a forze d’erosione più che millenarie, un eone dopo l’altro, così da erodere gli strati meno resistenti per lasciare impervio il nocciolo di pietra dolomitica insolubile, depositato in cumuli creati grazie all’attrazione gravitazionale della Terra. Finché al ritirarsi delle salmastre distese, sottoposte all’energia del sole, le intemperie, il vento, non vennero scolpite molto prima di qualunque mano umana avrebbe mai potuto immaginare di riuscire a farlo…

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Il tubo del tesoro: l’incerto e imperscrutabile significato di un cong (琮)

Come può essere descritta, invero, la forma dell’Universo? Si tratta di una verità che alberga, come in ogni circostanza dalle implicazioni metafisiche, almeno in parte dentro l’occhio ed i neuroni dell’osservatore. Giacché non appartiene al pesce, il potere di comprendere l’ampiezza di un lago. Né a una mosca, il poter circondare con lo sguardo una ragnatela. Il che non ha in alcun modo impedito, a generazioni successive dell’interminabile consorzio umano, di trovare o caratterizzare punti di convergenza per quanto concerne l’opinione collettiva. Imprimendoli nelle figure o manufatti che oggi abbiamo l’abitudine, più o meno giustificata, di associare a intere generazioni pregresse dei nostri predecessori. Nella società altamente stratificata in classi dell’antica cultura di Liangzhu ad esempio, concentrata primariamente attorno al delta del Fiume Azzurro nella parte nord-occidentale dell’odierna prefettura dello Zhejiang, è altamente ragionevole pensare che ampie fasce di popolazione appartenenti alle classi meno influenti non avessero mai tenuto in mano, soppesato o ponderato la natura di un cong (琮). Eppure, tali oggetti dalla forma estremamente riconoscibile figurano in modo preponderante all’interno delle tombe di quelli che noi reputiamo essere stati i potenti di questa civiltà del Neolitico, che fiorì tra 3.400 e 2250 anni prima della nascita di Cristo. Non servono, del resto, attrezzi di metallo di alcun tipo per poter pensare di plasmare questo tipo di materiale, la giada che non può essere divisa o incisa tramite un approccio di tipo convenzionale. Ma soltanto abrasa un poco alla volta, con grande dispendio di tempo e pazienza, fino all’emersione delle forme o del disegno desiderato. In tal senso, gli oggetti dal significato rituale e almeno parzialmente istituzionalizzato costruiti a partire da minerali come la giadeite, nefrite, agalmatolite o serpentina parrebbero aver rappresentato il puro ed esclusivo appannaggio di coloro che potevano posizionarsi in modo incontestabile agli assoluti vertici del loro mondo privo di testimonianze scritte. Poiché la scrittura, per quanto ci risulti verificabile, era ancora ben lontana dall’essere stata inventata. Il che non impedì a quei popoli, incluse le altre culture limitrofe connesse da diverse angolazioni a quella di Liangzhu, di dare forma tangibile alle loro credenze più trascendentali e le divinità cui erano soliti rendere omaggio nel quotidiano. Il che dovrebbe aver costituito, sulla base dell’implicita linea di ragionamento che accomuna l’antico al moderno, la base e l’origine del singolo oggetto destinato, più di ogni altro, a suscitare un senso di spiazzamento in successive generazioni di archeologi interessati al contesto cinese…

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