Di che colore è il lago azzurro dell’Hokkaido?

Nell’oscuro regno di Camelot resuscitata, la spada Excalibur non ha mai avuto una ragione d’esistenza. Poiché i centomila fabbri, lavorando alacremente, non credevano nella creazione d’armi leggendarie: ogni singola katana, se costruita come si deve, avrebbe avuto la sua saga degna di essere narrata. Il che ha lasciato, nei fatti, più di una Dama libera di uscire dal suo Lago. Ma vi sono luoghi, nella terra della Notte, dove le nebbie di Avalon paiono convergere per il volere dei defunti, offrendo il portale spalancato verso nuove ed improbabili visioni di una strana e inconoscibile realtà. Si, l’avrete forse già visto. Come fondale per lo schermo dei vostri dispositivi Apple, grazie all’iniziativa professionale fotografo Kent Shiraishi, la cui opera permise l’inclusione nell’OS X-Mountain Lion. E successivamente, all’intero di ciascun singolo, perfetto e scintillante iPhone. Potete veramente dire, tuttavia, di aver creduto che un luogo come questo potesse esistere realmente?
C’è una discordanza di visioni sulla maniera effettiva in cui a ridosso dell’estremità più remota del grande ammasso emerso euroasiatico, ad un certo punto indefinito di epoche geologiche passate, possa essere giunto a palesarsi l’arcipelago del Giappone. Chiedete a un seguace della religione shinto, la Via dei sommi Kami che risiedono nell’ultramondo, ed egli non mostrerà nessuna esitazione nel riferirvi del racconto del sommo dio padre Izanagi, Colui che invita, compagno di Izanami la Colei che invita, che appoggiando la sua sacra lancia sulla superficie dell’Oceano, lascia che da essa scaturisca un fango magico, in grado di consolidarsi nella forma delle otto grandi isole del regno di Yamato. Mentre l’esperienza pregressa c’insegna, d’altro canto, che per ciascuna terra relativamente giovane, c’è sempre da cercare una particolare forma nel paesaggio: conica col buco in cima, qualche volta silenziosa. Qualche altra, borbottante della furia mai sopita delle origini del mondo. Soprattutto quando ci si trova, come per quel tellurico paese, sui confini dell’anello stesso dei monti di fuoco, una delle aree geologicamente instabili più estese ed importanti dell’intera crosta sopra del pianeta. 6.852, per essere precisi: questo è il numero totale delle isole che compongono, collettivamente, il paese cosiddetto degli dei. E per ciascuna di esse, salvo le più piccole, c’è sempre un ottimo vulcano. La nevosa Hokkaido, sita in corrispondenza latitudinale con la russa città di Vladivostok (grossomodo) non fa certamente eccezione. Tranne che per un aspetto, a dire il vero, alquanto geometricamente affascinante. Poiché di caldere ancora fiammeggianti ne ha diverse, tutte site in prossimità del centro esatto dello spazio trapezoidale che ricopre sulla mappa. Raccolte attorno all’alto monte Tomuraushi, nel parco naturale di Daisetsuzan. Non troppo distanti dalla piccola città di Biei (11.000 abitanti). Come la mitica lancia di cui sopra, ma posizionata in senso inverso, e tesa verso l’alto dalle forti mani di un titano chtonio, mai raggiunto dalla luce degli astri distanti nella volta dell’azzurro cielo. Oppure una condotta rinforzata, tubo solido impiegato per tenere ferma l’ampia piattaforma soprastante. Ma non si possono fare miracoli, ovviamente, senza rompere qualche uovo. Dall’incandescente contenuto magmatico, nel presente, e alquanto problematico caso…
Fu così che nel 1988, non per la prima né l’ultima volta, il monte Tokamichi, parte delle tre catene del Daisetsuzan, sfogò la sua furia rilasciando un fiume piroclastico di roccia liquefatta, pericolosamente incline a dirigersi verso la piccola città di Biei. E voi pensate, per assurdo, che la povera gente e l’Amministrazione del Paesaggio dell’Hokkaido, avrebbero accettato un tale scempio senza fare tutto il possibile, TUTTO il possibile, per avere salve le proprie preziosissime case?

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La pausa pranzo della MacGyver delle forniture da ufficio

Chiudi gli occhi… “Roteante sopra un piatto incandescente, la padella gigantesca di uno di quei banchi mobili che spopolano nella più grande città di Pechino. Gialla come l’uovo, morbida per la farina, ricoperta dei sapori e dei colori di un’assortimento di spezie, di erbe ed altri condimenti scelti a piacere. Il mio nome Jianbing, Beijin Jianbing. Non vorresti forse assaporarmi, proprio ora?” Adesso… Aprili! Un altro giorno, un altro giro, un’altra mattinata di profondo studio, raccoglimento e meditazione, nella complicata compilazione dei dati di vendita della Sheng Industries Import-Export Evil Megacorp (SIIEEM). Il foglio Excel che muta e si trasforma, ripiegandosi sopra se stesso come l’iperspazio, mentre i numeri cessano di avere un qualsivoglia tipo di significato. Mentre la conclusione del lavoro, necessariamente, diventa l’obiettivo più importante. Le luci paiono offuscarsi, una lontana musica rimbomba nelle orecchie; la piccola Ye, stanca ma giammai sconfitta, inserisce la sua formula, produce la statistica, incolonna i risultati. Quando sei nel top management, pensa un’altra volta, tutto questo dovrà pur servire a qualcosa. Poiché costituisce parte di una melodia più estesa. Ma per gli umili soldati della prima linea, chini sulla scrivania di pino della più totale perdizione? Ogni cifra, una graffetta, un elastico, la testa d’invisibili puntine. E le persone, coltellini svizzeri pagati per dire di comprendere l’incomprensibile, o assumere in se il ruolo di coloro che capiscono, senza esserne effettivamente connotati. Finché un giorno, la mente appesantita non elabora un pensiero: “Loro” sapevano chi stavano assumendo. “Loro” sapevano che sono creativa, scoppiettante, umile nel lavoro di squadra, socievole d’inclinazione, con grande capacità di adattamento, rispettosa degli altrui gradi d’autonomia. Era tutto lì, scritto in nero su bianco. Perché mai, dunque, hanno voluto privarmi della mia realizzazione? Io che ho sempre sognato di essere una cuoca, oppure ancora meglio, una diva internazionale con successo comprovato nell’arte sublime del mukbang! (mostrarsi online mangiando, nello stile degli streamer coreani). Con un moto vorticoso dei lunghi capelli, ella si alza in piedi ed apre lievemente la sua bocca, in un grido silenzioso che per sua fortuna, non si espleta in misura percettibile dal capo del dipartimento. I colleghi, totalmente immersi negli schermi loro attribuiti, non si voltano neppure a guardarla. Se questo fosse stato un film del nostrano Fantozzi, prodotto di un epoca ed un etica lavorativa d’altri tempi, sarebbe stato questo il punto in cui la piccola Ye avrebbe ricordato le aspettative familiari, la splendida figlia, il marito semplice e devoto. Sedendosi di nuovo a compilare. Ma nell’era dei millennials, che non hanno avuto nulla, tranne quello che si sono conquistati con i denti e l’auto-abnegazione personale, ogni presumibile sacralità del posto di lavoro, qualsiasi mistero della preziosissima poltrona, è stato necessariamente rimpiazzato dalla capacità di esprimere se stessi in ogni situazione. Chiamatela pure, se ne avete voglia, espressione stachanovista della psicanalisi di Sigmund Freud.
È sull’onda di questo che la nostra Ye, non più tanto “piccola” nella visione generale delle cose, apre i cordoni della borsa e tira fuori ciò che aveva preparato fin da casa: gli ingredienti per la più perfetta frittatona di metà giornata, energizzante quanto un pasto preparato dalla nonna fra le stanze di un’infanzia ormai remota. Ma prima di procedere, un problema: “Come cuocio tutto questo…Come…Come…” Ah, per tutti e sette le Divinità della Fortuna. Proprio sotto alla mia scrivania c’è tutto il necessario: forno, padella e pure il fuoco. Devo sbrigarmi: presto arriva il mezzogiorno. Il computer viene spento, poi smontato. In ogni parte tranne l’alimentatore, che troverà posto accanto al case, ormai del tutto vuoto. Una rapida serie di gesti, e la staccionata della decorazione in legno da scrivania (aiuola per i fiori) si trasforma in legna da ardere, all’interno di una pratica ciotola metallica, nella quale trova posto solamente una candela. Dopo tutto, bisognava fare spazio per le operazioni. Il tutto trova posto, viene acceso, inizia la cottura, alimentata dalla stessa ventola del PC, appositamente lasciata in condizioni di funzionare. La collega, più impassibile di un accidentale spettatore negli sketch di Mr Bean, continua imperterrita a inserire numeri nel foglio Excel.

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I lemuri assuefatti alla migliore droga del Madagascar

Per sognare, per dimenticare, per vivere la vita in modo più intenso. Per prolungare l’attimo. Per cancellare la cognizione stessa del domani. Sono molte le ragioni per assumere sostanze psicotropiche, nonostante le ragioni del disagio che possano derivare da una tale scelta, qualche volta subito, altre volte più dilazionate nel tempo. Poiché la salute, sembrerebbe, è quello stato di grazia in bilico sul bordo del tempo, che una mera perdita anche momentanea d’equilibrio può far scivolare nell’oscurità e l’oblio. Eppure se soltanto vi metteste ad osservare uno di loro, gli occhi gialli canarino intenso, la bava idrofoba, il naso umido, i capelli lunghi e spettinati, le movenze a scatti, di sicuro non esistereste a dire: “Lui si, che sa come combattere la noia e stare bene!” Assomigliare all’incarnazione arboricola dei più famosi mostriciattoli degli anni ’80, i pericolosi Gremlins, non è normale. A meno che tu sia, un primate del Madagascar… Eulemur macaco, il lemure nero. Che in effetti, tanto cupo resta solamente per qualche anno dalla nascita, prima che i maschi diventino marrone scuro, e le femmine di un attraente color terra di Siena, con dei vistosi ciuffi bianchi ai lati della buffa testolina. Attestato unicamente in una zona del Sambirano, nell’estremo settentrione dell’isola più celebre per la biodiversità, dove ogni manciata di chilometri, o anche meno, inizia il territorio di una diversa o totalmente unica specie di creature. Ciascuna delle quali, associata ad un particolare stile di vita o attività. Ma forse nessuno tanto strano e caratteristico, quanto quello mostrato in questa scena della serie di documentari Spy in the Wild, per i quali la BBC sta disponendo delle telecamere nascoste all’interno di riproduzioni realistiche di varie specie di animali, al fine di riprendere le bestie vere da una posizione nuova e privilegiata. Mentre fanno ciò che gli riesce in meglio: ovvero in questo caso, semplicemente, drogarsi.
È un comportamento osservato in molte specie diverse tra loro, incluse le platirrine del genere Cebus, comunemente dette scimmie cappuccine. Ma che questi particolari strepsirrhini, grazie alle particolari condizioni ecologiche dell’ambiente di provenienza, sembrerebbero aver portato fino alle più estreme conseguenze. In sostanza, ciò che loro fanno è andare a caccia sui loro alberi del millepiedi del fuoco (Aphistogoniulus corallipes o specie similari) ed iniziare a masticarlo delicatamente, affinché quest’ultimo, nella speranza di salvarsi, inizi a secernere il veleno contenuto nel suo corpo. Una formidabile miscela di acido idroclorico, cianuro idrogenato, fenoli, cresoli e benzoquinoni. Tale da poter causare conseguenze gravi in piccoli organismi, se fagocitato, ed irritare gravemente anche la pelle degli umani. Ma non quella, a quanto pare, dei lemuri, che anzi sembrano trarre un particolare piacere da una tale scriteriata attività. La creatura con l’insetto in mano, dopo pochi secondi, sembra assumere un atteggiamento frenetico, mentre inizia a mostrare il primo sintomo del veleno: un aumento estremo della salivazione. Ma è a quel punto che prende il via la parte migliore. Perché il lemure, a quel punto, non trangugia affatto il millepiedi, bensì inizia a strofinarselo sul pelo, avendo attenzione di raggiungere ogni angolo del suo corpo inclusa la lunga e pelosa coda. Ad ogni secondo che passa, esso parrebbe sperimentare una sorta di estasi frenetica finché, apparentemente soddisfatto, non getta via l’insetto verso il suolo, da dove quest’ultimo, zampettando via visibilmente sollevato, riprende la parte migliore della sua giornata. Questo tipo di millepiedi giganti in effetti, nonostante il suono sgranocchiante che gli autori del documentario hanno deciso di aggiungere all’insolita scenetta, risulta essere piuttosto resistente, e generalmente non muore a seguito della spiacevole esperienza. Si potrebbe persino dire, dunque, che la relazione tra lui ed i lemuri sia solamente in parte svantaggiosa, poiché gli permette in ultima analisi di sopravvivere, riuscendo ad accoppiarsi e trasmettere i suoi geni alla seguente generazione. Molte parole sono state spese in merito alla cosiddetta evoluzione del desiderio, secondo cui alcune specie sopratutto vegetali, ma anche animali, sarebbero mutate attraverso i secoli ottenendo la protezione da parte di una specie più forte. Vedi ad esempio l’alto contenuto di capsaicina di alcune specie di peperoncini, apparentemente priva di funzioni pratiche, o più semplicemente il gusto della frutta coltivata sui terreni agricoli del mondo degli umani. Se il millepiedi non fosse, in effetti, tanto piacevole per i primati, questi probabilmente lo mangerebbero, con il veleno e tutto il resto. Mentre allo stato dei fatti effettivo, esso non è percepito come cibo, bensì una sorta di strumento belluino del piacere. Prezioso, preziosissimo. Da conservare.

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Perché in Ohio la gente ha paura dei palloncini?

I più terribili disastri possono accadere sull’onda delle migliori intenzioni e per quanto la natura, molto spesso, mostri caratteristiche di spietatezza che la rendono al di fuori della nostra convenzione, è talvolta la stessa morale umana, flessibile sulla base del bisogno, a porre le basi di un ulteriore stadio di tragedia. Distruzione ed apocalittica Rovina. Siete mai stati a Cleveland, con la sua torre simile a un coltello? The Mistake by the Lake, come la chiamano gli stessi residenti (l’Errore sul Lago) ovvero quello di Eyre, volendo essere specifici, il più meridionale ed il meno profondo dei cinque grandi del Nordamerica, attorno ai quali si trova una delle maggiori concentrazioni di popolazione dell’intera area geografica, sia dalla parte statunitense che canadese. Chicago, Detroit, Pittsburgh, Minneapolis, Toronto, Quebec City… Tutte metropoli rinomate nel mondo. Le ragioni per l’impiego di un termine peggiorativo soltanto in quel caso, per chi vuole ricercarle, possono trovarsi nella relativa piccolezza del centro abitato in questione, che non raggiunge neanche le 400.000 anime tra un simile mucchio di giganti, ma soprattutto nel suo essere uno di quei luoghi in cui, almeno secondo lo stereotipo comune, “non succede mai nulla.” Non fu sempre così. Giacché l’imprevisto, come si dice, proviene proprio dall’eccessiva monotonia. Che porta a distrarsi e prendere dannate decisioni. Come quella per cui, nel 1980, il rinomato uomo d’affari locale e proprietario della squadra di basket dell’NBA dei Cavalier, Ted Stepien, ebbe la geniale trovata di salire fin sopra quell’acuminato pugnale di 235 metri, l’edificio più alto dell’intera città, ed iniziare a gettare di sotto una lunga serie degli eponimi attrezzi per giocare a softball. La ragione: commemorare i cinquant’anni dall’inaugurazione della Terminal Tower, e nel contempo promuovere la sua nuova venture sportiva, la fondazione dei giovani ed entusiastici Competitors, dediti alla nobile arte della mazza e delle palline. Ora come forse saprete, nonostante il nome, la tipica sfera usata per questo sport molto simile al baseball non è propriamente morbidissima, risulta più grande dell’alternativa e pesa in media tra i 180 ed i 200 grammi. Il concetto era che il ricevitore del team prendesse al volo la sfera (dopo tutto, i 230 Km/h calcolati al momento dell’impatto non sarebbero stati tanto maggiori di quelli sviluppati da un lanciatore professionista) mentre una fetta significativa degli abitanti in zona e i passanti facevano il tifo, accompagnati dalle telecamere della Tv. Non tutto andò come sperato: la prima palla lanciata dal buon vecchio Ted, certamente animato dalle migliori intenzioni, cadde come una meteora sopra un’auto parcheggiata, frantumandone immediatamente il parabrezza. La seconda colpì alla spalla un cittadino, che per miracolo non riportò alcun tipo d’infortunio grave. Mentre così fortunata non fu la successiva vittima dell’episodio, una donna il cui polso risultò purtroppo fratturato dall’impatto del letterale macigno venuto dal cielo. A questo punto dovete pensare che all’epoca non c’erano i cellulari, e molto probabilmente nessuno si era preoccupato di dotare l’imprenditore di walkie talkie o attrezzi sulla stessa linea funzionale. Così, la grandine letale continuò, con palle che rimbalzavano fino all’altezza di 12 metri, e persone che correvano via da ogni parte, sperando di aver salva la vita.
Ora se pensate che l’amministrazione cittadina, dopo l’atroce esito di un simile stunt pubblicitario, avesse appreso l’infelice lezione, lasciate che vi dica che non fu così. A costituirne la testimonianza, il disastro verificatosi soltanto 6 anni dopo, destinato a rimanere negli annali come uno degli episodi più bizzarri, e sfortunati, dell’intera storia cittadina. Si sarebbe chiamato il Balloonfest. Nacque dall’idea della filiale locale della United Way of America, celebre organizzazione caritatevole, per una raccolta fondi basata su una finalità d’innegabile impatto: stabilire il nuovo record per il maggior numero di palloncini liberati allo stesso tempo. Proposito tutt’altro che semplice, quando si considera il traguardo raggiunto solamente l’anno prima ad Anaheim, per il 30° anniversario di Disneyland ed il 114° compleanno postumo del grande e compianto Walt: 1 milione di ellissoidi in lattice ricolmi d’elio, rossi, blu, gialli, azzurri… Che meraviglia, miei cari americani! Fu dunque chiamato, senza particolari esitazioni, l’organizzatore di quello stesso evento, Treb Heining della Balloonart, che si era occupato nel 1984, assieme al project manager Tom Holowach, della cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Los Angeles, durante la quale centinaia di palloncini vennero liberati a formare i cinque cerchi e l’amichevole scritta “Welcome” per gli atleti di tutto il mondo. Ma le proporzioni, e la portata dell’evento che doveva ancora giungere, sarebbero state del tutto nuove…

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