Come cambia questa foglia con l’insetto che disegna nella sua miniera

“Oh, lavoro, lavoro…” Recita l’antico canto del minatore, figlio d’arte e che a un simile mestiere dovrà dare un senso, nel procedere della sua vita faticosa e irrimediabilmente intrappolata in un’impenetrabile lacrima di cristallo. Nato nel profondo color verde smeraldino, gli occhi piccoli e vermigli come dei rubini, la volontà di un solido e magnifico diamante; “…Andiam, andiam…” mentre con mandibole già sufficientemente sviluppate, penetra attraverso il guscio del suo uovo e morde la malleabile materia vegetale dal dolce sapore, nonostante la fibrosa consistenza. “Ehi hooo!” Parole semplici di un essere neonato, con una mansione grafica severamente imposta dalla natura. Quella di creare un tremulo disegno, che si scorga dall’esterno della loro casa; una spirale, che si avvolge su stessa; la piantina di un’arcana, troppo strana geografia. Poiché questa è la sapienza di un piccolo… Verme. Che non aspira tanto alla felicità, quanto all’occasione di librarsi nello spazio che occupavano i suoi effimeri predecessori. Così tritura e sminuzza, procede e ancor s’ingozza per placare quella voglia. Con un lieve stridere, che riecheggia nell’interno della foglia.
Le chiamano le scavatrici di quest’ultime e non c’è qualifica omni-comprensiva perché appartengono a famiglie, e persino ordini di tipo differente. Benché nella realtà tangibile dei fatti, quando si evoca una simile categoria l’intento è quello di riferirsi ad una larva di mosca appartenente alla genìa delle Drosophilidae o delle Agromyzidae, creature geograficamente non del tutto corrispondenti ma accomunate da diversi esempi di convergenza evolutiva, tra cui la durata e modalità di svolgimento del loro distintivo ciclo vitale. Un processo nella maggior parte dei casi univoltino (i.e. compiuto una volta l’anno) che vede le volatili d’età completamente adulta che fuoriescono dal bozzolo invernale sepolto sotto terra, andando in cerca delle loro ronzanti controparti del sesso opposto. Per poi procedere all’accoppiamento al termine di una breve danza d’identificazione, completato il quale sarà la sola femmina a raccogliere la torcia del compito necessario alla continuazione della propria discendenza. Che consiste nel posarsi sulla foglia di una specifica pianta, per poi praticare una serie di fori attraverso quella superficie ragionevolmente resistente, mediante l’utilizzo di un acuminato e articolato organo posizionato nella parte posteriore dell’addome. In gergo tecnico ovopositore, che assomiglia più che altro alla bocca estensibile del mostro di Alien, per la facilità con cui apre e suddivide quel che la natura aveva tanto faticosamente costruito. Finché non si apre e molto prevedibilmente, lascia fuoriuscire una quantità variabile di minute capsule, ciascuna contenente un piccolo e già esperto scavatore di gallerie. Trascorso il giusto periodo in genere non superiore al paio di giorni, quivi nascerà un simile essere, con l’aspetto a seconda dei casi di un piccolo bruco serpentino, piuttosto che oblungo e incline a restringersi alle estremità. Davanti e dietro? Chi potrebbe dirlo, se non fosse per il movimento che si trova a dimostrare, avanti, sempre avanti nell’incedere attraverso la materia. Ed è una letterale piccola opera d’arte, quella che simili esseri disegnano nel più sofisticato laboratorio del mondo botanico, trasformato per l’occasione in una letterale nursery o capiente ristorante con un singolo commensale. La larva continuerà perciò a crescere e nutrirsi, qualche volta spostandosi da una foglia all’altra. Finché raggiunto un peso e riserve energetiche sufficientemente significative, si lascerà cadere affinché il ciclo possa avere inizio da capo al palesarsi della primavera successiva. Ed è affascinante, nonché in qualche modo terrificante, che l’intera popolazione mondiale di svariate specie animali cessi temporaneamente di esistere per una buona parte dell’anno, ogni anno, ciascun singolo esemplare adulto ucciso dalla longevità inferiore ai 15-20 giorni trascorsi tra le altre creature di questa Terra. Laddove le piante, vittime coinvolte da un tale destino, farebbero senz’altro a meno del loro ritorno…

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La sorprendente ragione per cui le lucciole non illuminano le notti californiane

Quando il cielo è fuoco, per l’effetto di un magnifico tramonto, lacrime di gioia scendono a zig zag lungo le guance dei poeti. Quando il mare è fuoco, soprattutto i naturalisti piangono per il naufragio del grande battello, mentre intere moltitudini di animali si ricoprono di petrolio nero e letale. Ma quando è la terra stessa, a ricoprirsi di fiamme, nessuno può più fingere che non stia succedendo nulla. Mentre lingue ardenti seguono le strade, s’inoltrano sui campi coltivati e si avvicinano alle comunità umane, circondandole in un cerchio di assoluta e imprescindibile devastazione. Il che vuole corrispondere, in secondaria linea d’analisi, a una situazione atmosferica particolarmente secca e calorosa, in cui le piante stesse di trasformano in materia pronta da ardere, per l’effetto di un sole particolarmente piromaniaco nel corso di determinate stagioni. Lo stesso tipo di clima, per inciso, che risulta in larga misura inadatto al prosperare degli insetti, creature che necessitano di umidità per sopravvivere, in misura mediamente assai maggiore dei vertebrati. Ed è probabilmente proprio per questo che nella percezione largamente data per scontata in America dei Lampyridae, esiste una sorta di linea di demarcazione mediana, per cui soltanto coloro che vivono ad est di un’ideale linea in grado di dividere verticalmente il continente, possono vedere la notte accendersi letteralmente di un milione di piccoli fuochi. Una giustificazione almeno in apparenza valida e ragionevolmente realistica in altri luoghi del mondo, benché determinate circostanze rilevanti localmente sembrino smentirne l’applicabilità eminente; quando si considera l’impressionante quantità di lucciole avvistate occasionalmente nelle notti dello Utah e del Wyoming, nonché la minore ma pur sempre presente popolazione dell’Arizona. Luoghi in grado di configurarsi, in determinati punti del proprio territorio, come simili a dei veri e propri deserti. Se le lucciole non temono simili particolari circostanze meteorologiche, a questo punto, diventa del tutto naturale chiedersi: dove sono i piccoli volatori sfolgoranti di Washington, Oregon e California? Caso vuole che da lì non siano mai spostati, da un tempo approssimativo di svariati milioni di anni. Mutando tuttavia in maniera significativa, per l’effetto della selezione naturale e conseguente mutazione delle proprie inerenti prerogative comportamentali.
Il fatto che in molti degli abitanti locali affermino di “non aver mai visto una lucciola” è d’altra parte riconducibile all’inerente caratteristica diffusa nella maggior parte delle specie locali, appartenenti alle sotto-famiglie Lucidotini, Pyropyga ed Ellychnia, all’interno delle quali non sono gli svolazzanti maschi ad emettere i caratteristici segnali lampeggianti bensì le femmine prive di ali, capaci di mantenere fino all’età adulta l’aspetto delle tipiche larve segmentate di questi coleotteri, e giungendo ad emettere appena un tenue lucore difficilmente visibile dall’occhio umano. Ma l’effettivo distinguo che occorre applicare, persino una volta modificate le aspettative in materia, è più che altro di natura relativa all’organizzazione cronologica dell’intera faccenda. Poiché simili insetti, persino nella caotica stagione degli accoppiamenti, non sono affatto soliti praticare le loro sfolgoranti danze dall’alto grado di sofisticazione successivamente all’ora del tramonto. Bensì durante le ore diurne già inondate d’energia fotonica assai più significativa ed incombente, tale da annientare ogni possibile principio d’avvistamento. Lasciando i pochi spettatori alquanto stupiti, quando si considera la ben nota gravità dell’inquinamento luminoso per simili specie d’insetti, tale da impedire il loro normale ciclo dell’esistenza caratterizzato da un copione particolarmente preciso. Almeno finché non si nota, scrutando da vicino un esemplare di queste lucciole di dimensioni particolarmente piccole e colorazione per lo più nera, con appena qualche nota di colore rossastro sui bordi, la determinante assenza di un vero e proprio fotoforo caudale, ovvero l’essenziale “lampada” delle proprie specie cognate. Questo per l’innato ritorno ad un diverso approccio biologico, frutto di precise scelte operate attraverso il trascorrere di molti secoli e millenni di cambiamento…

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Il bruco che sa fingersi cheerleader per sfuggire a uno spiacevole destino

Carnoso tubulo artigliato si avvicina lentamente, inesorabilmente. Al ritmo impressionante di un centimetro al secondo, mentre il possessore gigantesco di quell’arto guarda interessato, gli occhi attenti e un broncio lieve sopra il volto. Cosa può succedere? Che potrà accadere? Quale… Strano… Evento, si potrà verificare in quel momento? Il bruco lieve, sopra la sua foglia, non si sposta ma rimane immobile, in attesa. Perché sa che nel momento in cui avverrà il contatto, potrà fare affidamento su uno stratagemma, utile a cambiare il corso degli eventi. Il tempo sembra rallentare, quindi sosta per un attimo. Quel delicato polpastrello, tra un momento, raggiungerà il bersaglio prefissato! La verde pelle della piccola presenza, poco più di un paio di centimetri ed un sogno, all’orizzonte: di riuscire a chiudersi nel bozzolo e poter spiccare il volo, un giorno non troppo lontano. E questo pensa mentre il dito, il dito tocca, finalmente, l’increspata superficie della sua schiena. Orribile, tremenda sensazione. Da cui resta solo una possibile compensazione. Con tutta la sua forza l’esserino tenta di gridare. Si concentra, spreme i muscoli all’interno del suo corpo bulboso, mentre quello che si trova “dentro”, all’improvviso, ricompare “fuori”. Due organi o arti che si vogliano denominare, ed in effetti gli unici che abbia mai posseduto, propaggini tentacolari emerse dai tubercoli simili ad antenne di rappresentanza. Che presso la parte terminale si dividono in molteplici piccoli tentacoli a raggera, tale da sembrare il pappo del tarassaco in attesa di essere soffiato via dal vento. O ancora, se volessimo impiegare un più vicino termine di paragone, lo stesso sfolgorante agglomerato o ciuffo, di strisce di stoffa, fibre variopinte, che il mondo dei tifosi è solito chiamare pompon. “Datemi una P, datemi una U! Datemi una S, S, A. V-I-A! VIA! VIA!” È la forza persuasiva che deriva da una sceneggiata di precisa progressione. Che potrebbe, a conti fatti, avervi già tratto in inganno. Sono certo che pensaste, a tal proposito, che QUELLO potesse essere il davanti!
Ci sono d’altra parte molti significativi vantaggi, per un’inerme larva di lepidottero, nel confondere il più possibile le cose. Ed è per questo, soprattutto, che gli appartenenti alla famiglia dei Lycaenidae diffusa in buona parte dell’Asia, e tra loro le farfalle “raggio di sole” del genere Curetis, vantano una collocazione dei propri organi tentacolari nella parte posteriore del corpo, facendo si che in posizione di riposo sembrino, a chi osserva da lontano, degli strumenti sensoriali facenti posti al culmine della sua stessa testa. Che si trova invece all’altro lato, non vista ed ancor meno considerata, con immediato e assai tangibile vantaggio per l’animale. In primo luogo perché questo gli permette, in situazioni di pericolo non troppo estreme come l’attacco di un artropode dalle dimensioni ridotte, di aver più tempo per mettersi in salvo mentre aspetta che l’agitazione dei tentacoli sortisca l’effetto desiderato. Ma ancora più spesso e contro uccelli, rettili e famelici mammiferi ed altri insettivori di passaggio, di scorgere in anticipo il pericolo che credeva di avvicinarsi di soppiatto. Ed iniziare a pronunciare tra se e se quelle parole magiche e risolutive: “Sono una foglia, soltanto una foglia. STOP!” Il che costituisce dopo tutto la sua più importante dote d’autodifesa, essendo privo di alcun mezzo per combattere, fuggire o avvelenare il suo avversario. Diversamente dal più noto tipo di bruchi dotati di un organo eversibile, i papillionidi con il loro osmeterio a forma di Y, ornamento vagamente simile all’emblema su di un elmo da samurai. Nonché dotato della capacità di secernere, ogni qualvolta lo ritiene necessario, un liquido maleodorante che respinge ragni, mantidi e formiche. Mentre anche in assenza di dati specifici per quanto concerne la specie Curetis acuta mostrata nel breve video d’apertura, possiamo ragionevolmente affermare per inferenza come nel suo caso l’obiettivo sembri collocarsi nei fatti diametralmente all’opposto. Titillare, piuttosto che respingere. Sedurre invece che allontanare. L’esercito operaio di coloro che abitano i rami più elevati di quegli alberi, mandibole che tagliano senza riposo. Chiunque ma non lui/lei, che attraverso elaborate coreografie, possiede la preziosa cognizione di cosa dovrebbe essere, idealmente, il tifo da stadio…

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A proposito del bruco super-velenoso che trasporta sulla schiena una barriera di peptidi

Striscia, striscia, non cammina ma striscia. Circondato di aggressivi aculei, che nessuno avrebbe mai la voglia di toccare. Anche se il pericolo che lui contiene, nella subdola realtà dei fatti, trova posto più che altro dentro l’ornamento simile alla piuma di un cimiero, che si trova replicato nella parte frontale, e sul retro dell’animale. I cui peli aguzzi appaiono ritratti dentro l’approssimazione artropode di un anemone di mare, fino all’attimo in cui potrebbe rendersi opportuno agire, onde prevenire l’irreversibile trasferta all’altro lato dell’Esistenza! Già, corposo limacodide, rappresentante della prolifica specie della Doratifera vulnerans (letteralmente dal latino: Portatrice di Dolore…) Nello schema generale dell’ecologia terrestre non v’è controindicazione maggiormente problematica, che abbigliar se stessi come un dolce di mandorle o Viennetta particolarmente appetitosa, in un incarto variopinto dai colori variegati ed intensi. Quando si rappresenta, nel profondo del proprio stesso essere, l’approssimazione di quel particolare tipo di spuntino per la soggettiva percezione di una grande varietà d’uccelli, mammiferi o varie tipologie di vespa parassita. A meno, s’intende, di poter riuscire ad ignorare qualsivoglia tipo di mimetismo, non soltanto con l’intento di riuscire a spaventar l’alato nemico. Ma mettere i fatti, come si dice, nella stessa coppa delle parole, grazie all’urticante, dolorante, potenzialmente letale effetto riservato a chiunque sia abbastanza imprudente, o folle, da tentare la fortuna gastronomica ingoiando l’infernale pasticcino. Andando incontro a una potenza del veleno senza dubbio notevole, ed al tempo stesso tutt’altro che inaudita, persino per simili larve non più lunghe di 2 o 2,5 cm l’una, suddivise in 13 specie molte delle quali originarie, neanche a dirlo, del continente meridionale d’Oceania. In un’ideale insieme di cui fanno parte tutti quei particolari lepidotteri, che durante il corso della loro evoluzione pregressa hanno imparato a caratterizzare la propria gioventù larvale con l’impiego passivo di un particolare cocktail tossico facente parte della stessa biologia inerente. Tale da risultare particolarmente sgradevoli, per non dire sconvenienti, persino al tocco di creature considerevolmente più imponenti, come un essere umano. Ragion per cui simili bruchi, ampiamente descritti attentamente identificati a beneficio dei bambini in tutte le più coscienziose scuole australiane e neozelandesi, sono stati chiamati attraverso gli anni anche Navi da Guerra, per l’armamento di cui la natura ha scelto di dotarli, nonché la forma pretenziosa e vagamente simile a quella di un galeone dell’epoca delle grandi esplorazioni. Mentre quello che nessuno aveva sospettato, almeno fino ad uno studio pubblicato lo scorso maggio sulla rivista di scienze naturali statunitense PNAS (guadagnandosi persino la copertina) da parte di Andrew A. Walker e colleghi dell’Istituto di Bioscenza Molecolare dell’Università del Queensland era come l’effettiva composizione e natura di un simile approccio chimico all’autodifesa costituisse, nella realtà dei fatti, la punta di un iceberg capace di rivaleggiare i più avanzati laboratori per la guerra batteriologica mantenuti segretamente in funzione dalle maggiori superpotenze globali.
Il tutto a partire da un obiettivo piuttosto semplice: scoprire quale fosse l’origine del notevole dolore causato al contatto con il bruco, ben presto identificato in un componente del tutto simile a quello presente nel veleno di molti ragni, una knottina a base di disulfide. Facente parte, nello specifico, del vasto gruppo dei peptidi, una classe di componenti proteici caratterizzati da catene assai variabili d’aminoacidi, famosi per la loro capacità di dare ordini e influenzare significativamente il funzionamento del sistema nervoso. Ragione che giustifica il loro ampio utilizzo nel campo dei cosmetici, sebbene sotto aspetti certamente meno distruttivi di quello sviluppato dal bruco della Doratifera in questione. E soprattutto, non ancora circondato dalla stessa caotica quantità di sostanze simili, tali da costituire una letterale antologia di tutto ciò che esiste di mefitico, e malefico, all’interno del sensibile Universo….

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