La ventosa del pesce che aiutò a fondare l’Impero Romano

Poco prima della battaglia che avrebbe deciso il più importante dei conflitti scaturiti dal decesso di Caio Giulio Cesare, suo nipote Ottaviano, sbarcò dall’esareme al comando del suo fedele luogotenente ed ammiraglio Marco Vipsanio Agrippa presso la spiaggia del promontorio Azio, nell’Acarnania nordoccidentale, al fine di gettare uno sguardo dall’alto presso quello che sarebbe diventato, molto presto, il banco di prova del suo progetto di egemonia. Era l’autunno del 31 a.C, sebbene nessuno, a quel tempo, potesse certamente dire di saperlo. Poco prima di voltarsi nuovamente verso il vascello, quindi, egli scorse tra le schiere dei suoi soldati una figura lontana in sella a un’asino, semi-nascosta dalla scarna vegetazione greca. Che poco a poco si fece più vicino, per presentarsi quindi al politico e condottiero romano, parlando un ottimo latino: “Salve, signore. Il mio nome è Fortunato e questo qui è il mio asino, Vittorioso” L’immotivata natura del gesto, in così particolari circostanze, sarebbe stata riportata successivamente dallo storico Svetonio assieme a un’altro strano aneddoto della battaglia.
Secondo la teoria del battito d’ala delle farfalle, capaci di causare una tormenta all’altro capo del pianeta, sono talvolta le cose più piccole ad influenzare maggiormente la sequenza incontrollabile degli eventi e sebbene secondo le fonti coéve, la vittoria del futuro primo Imperatore contro Marco Antonio fosse stata già decisa nel momento in cui il fedele Agrippa aveva conquistato la città macedone di Metone in inverno, tagliando i rifornimenti provenienti dall’Egitto, era innegabile che il rivale fosse ancora idealmente in vantaggio, con un’armata di 84.000 uomini e 480 navi di natura particolarmente imponente, fornite dalla sua amante e complice Cleopatra, regina d’Egitto. La sorte, tuttavia, sembrava essergli contraria, con l’epidemia di malaria che aveva infuriato tra i suoi uomini in attesa dell’attacco proveniente da Occidente. Dopo il primo scambio di frecce e tentativi di abbordaggio, iniziato dopo alcuni giorni di manovre e tentativi di sorprendere il nemico, tuttavia, successe l’impossibile: mentre l’ammiraglia di Marco Antonio stava per muoversi al fine d’incoraggiare gli uomini in battaglia, all’improvviso qualche cosa sembrò impedirgli di riuscire a muoversi in avanti dalle retrovie. Quasi come se una mano gigantesca inamovibile, sorta dalle profondità del golfo di Ambracia, avesse stretto le sue oscure dita sulla chiglia. Eppure, neanche per un attimo il suo generale, Publio Canidio Crasso, ebbe alcun dubbio nell’attribuire un nome a quel prodigio: “Sventura, mio signore! Siamo caduti vittima del crudele Echeneis, [colui che] ritarda le navi. Non potremo muoverci fino al concludersi della battaglia, né prendervi parte…”
Di sicuro, tutto questo rappresenta una questione in grado di farci sorridere, dall’alto delle nostre cognizioni scientifiche moderne. Chi mai potrebbe credere che un semplice animale, per quanto imponente, possa fermare una possente nave da guerra? Eppure resta indubbio che se la natura sia mai stata in grado di fornirne gli strumenti, il ricevente sia per forza stato quello che oggi definiamo, paradossalmente, non più in greco ma latino, la remora (ritardante). Ovvero pesce-pilota dello squalo, la balena, tartaruga e qualche volta, anche dugonghi e altri pinnipedi marini. Quei 30-110 cm di carangiforme attinopterigio, diffuso in quasi tutti i mari della Terra, sormontati dalla singola più eccezionale pinna che sia mai stata prodotta dall’evoluzione: piatta sulla testa, dalla forma circolare come quella di uno sturalavandini, ma segnata da una serie di lamelle controllate dal complesso sistema dei muscoli nascosti sotto-pelle. Capace di funzionare, tramite un simile approccio, come fosse una ventosa…

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Questo bruco è la parrucca di una strega incoronata

L’esperienza inizia in genere con un lieve senso di smarrimento. Quando camminando in solitudine nella foresta, il peso dei peccati commessi fino a quel momento sembra all’improvviso sollevarsi dalle nostre spalle, un attimo prima che il sentiero termini, proprio in mezzo ai tronchi ricoperti di strati di muschio e funghi di varie colorazioni e forme. Ed è allora che un QUALCOSA sembra materializzarsi, come un movimento lieve ai margini del campo visivo, il passo silenzioso di una mistica creatura con gli occhi rossi puntati dritti sulla nostra schiena. E il cielo, appena visibile nel mezzo delle fitte fronde, s’ingrigisce fino scomparire, gli uccelli tacciono, persino il vento smette di soffiare. Quindi, poco dopo l’ora del tramonto fuori luogo, l’intero sottobosco inizia a muoversi strisciando. Con un ritmo strano e surreale: un passo avanti, uno indietro, tre passi avanti ed uno indietro, strane semi-rigide escrescenze che si muovono per colpa dell’inerzia subita. Ed una forma sale sopra la corteccia di quell’albero. Ed un’altra poi la segue. Poi sono dozzine! Mentre si dispongono a ventaglio, sulla sagoma di quella vecchia quercia, per formare i lineamenti di uno strano volto; la cui bocca dunque s’apre, a un ritmo rallentato, pronunciando la parola “Walpurgis”.
Streghe, streghe, tremebondi esseri dai molti aspetti. Così che i credenti dell’Europa settentrionale, assieme ai loro “padri” pellegrini che si erano spostati all’altro capo dell’Atlantico, pensaron bene che dovesse risultare maggiormente conveniente attribuire tale orribile presenza a tutte quelle donne, dall’atteggiamento giudicato irrispettoso e quell’orribile propensione allo studio di scienze “maschili” come la medicina, la matematica o l’osservazione sperimentale della natura. La cui immagine, stereotipata, includeva un certo tipo di abbigliamento e aspetto inclusivi di, nell’ordine: un naso lungo, possibilmente bitorzoluto; mento aguzzo, arcigno; smorfia eternamente sprezzante; un ampio cappello a punta. E sotto quest’ultimo, nella maggior parte dei casi, una folta chioma spettinata di colore tendente al grigio, qualche volta mantenuta in una serie di lunghe trecce che potremmo definire, con la terminologia moderna, affini alla visione Rasta dell’acconciatura umana. Non c’è dunque proprio alcunché d’imprevedibile, se cercando una valida analogia per il bruco della Phobetron pithecium, lepidottero dall’insolito aspetto ed i vistosi sei tentacoli irsuti, gli anglosassoni abbiano scelto d’impiegare il valido binomio di hag moth (falena strega). Lui che una o due volte l’anno, verso l’inizio e la fine dell’estate, fuoriesce inconsapevole dalle lunghe e piatte uova della sua specie, attaccate sotto la superficie delle foglie di frassino, betulla, quercia, corniolo, salice o diversi alberi da frutta. Per iniziare la lenta marcia destinata a trasformar la clorofilla in antipasto e il lembo vegetale in ottima portata dell’ora di cena, mentre le proprie dimensioni aumentano ed aumentano, attraverso quattro o cinque distinte fasi o instar, ciascuna coronata dall’abbandono della propria pelle e scheletro esterno, ben presto riformato con l’intera dotazione di aguzzi e minuscoli pugnali. Già perché osservando tali esseri, raramente più lunghi di 2,5 o 3 centimetri, nessuno potrebbe mai riuscire a dubitare dei meriti della loro armatura pilifera, capace di ricoprire fino all’ultimo angolo delle suddette preminenze, simili alle zampe di un ragno capovolto. La cui funzione, contrariamente a quanto si potrebbe tendere a pensare, non è affatto la deambulazione…

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L’orribile ingegno dello scarabeo mangiatore di rane

Tra le contorte radici di un vecchio albero d’ontano, uno scintillante convegno di esseri brulicava, temporaneamente invisibile agli occhi dei propri molti nemici. “Vendetta, vendetta” era il segnale nella lingua artropode di feromoni, gesti con le antenne ed interscambio di contatti momentanei, sopra le elitre di un verde acceso congiunte in modo tale da impedirgli, per antica scelta evolutiva, di spiccare il volo. “Coleotteri, carabidi, cari fratelli…” Esordì il giovane capo della tribù, con la cicatrice sullo scudo chitinoso della testa e le mandibole contorte in una smorfia di artropode furore “Per troppo a lungo abbiamo sofferto in silenzio il predominio degli anfibi. Troppe morti e troppa sofferenza hanno reso tragica la storia della nostra Famiglia. Portate quindi a me, i vostri figli immaturi, e quindi ancora privi di preconcetti. Ho in mente un piano che probabilmente, un giorno, riuscirà a salvarli.” Avete mai osservato la scena di una iena che abbatte un bufalo, dieci/dodici volte più pesante? Tutto è possibile, nel regno senza limiti della natura. E in particolari generazioni, quando si susseguono in maniera sufficientemente rapida, persino la vittima può trasformarsi in un qualcosa di… Diverso. “Morderemo, mangeremo. Succhieremo via la loro stessa carne!”
Epomis, dal nostro punto di vista umano, è solamente una parola. Ma per gli anuri, rospi, rane e tutto ciò che è collocato in mezzo, costituisce l’orrido sinonimo di una lenta e dolorosa morte, originatosi durante l’attimo del proprio assicurato trionfo. É soltanto un attimo, lo scatto subitaneo della lingua. Un lampo rosa e normalmente, l’insetto sparisce tra le fauci spalancati della cosa saltatrice, gli occhi chiusi per assaporare meglio l’evidente superiorità all’interno delle gerarchie del regno. E se invece vi dicessi che in particolari casi, nonostante i presupposti, la suddetta preda possa evadere dal segno orribilmente chiaro del suo triste fato? Casi che in effetti ammontano, nel caso qui presente, a fino il 90% degli incontri-scontri rilevanti, con le “insignificanti” larve del suddetto scarabeo, del tutto simili a dei micro-vermi dalla forbice sul deretano, che scattano agilmente di lato. Per poi colpire, a loro volta, sulla pelle vulnerabile del viscido carnivoro della palude. Ed Epomis (indipendentemente dalla specie) è quello che possiede, nella sua famiglia, le più efficaci doppie mandibole per ancorar se stesso al corpo del gigante, tanto che mai e poi mai la rana, nonostante i molti movimenti o tentativi fatti, riuscirebbe più a scrollarselo di dosso. Così può apparire, ad un osservatore umano di paesi che possono estendersi dall’Europa temperata (Italia inclusa) all’intera regione paleartica dell’Asia e persino nel Nord-Africa, questa scena surreale della rana con l’insetto attaccato, durante il breve periodo che precede la sua orribile morte. Perché questo sinistro membro della stessa famiglia di tanti scarabei dall’aspetto variopinto e magnifico possiede, in effetti, la capacità di secernere un fluido digestivo capace di corrodere letteralmente l’organismo della vittima aspirante predatrice. Cui fa seguito il suo progressivo indebolimento, finché una di due cose, entrambe altrettanto orribili, possa accadere…

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L’orrendo miagolìo nella notte di un Natale islandese

Accarezzandosi la barba, Magnús guardò l’uomo ormai del tutto in suo potere, esprimendo con lo sguardo tutto il biasimo e lo sprezzo nei confronti di costui: “Già, ora capisci ciò che intendo.” Espresse nell’inglese, lingua franca dei mari settentrionali: “Almeno i nostri antenati vichinghi, a differenza di voi altri, non sarebbero stati catturati VIVI” L’uomo col turbante di colore azzurro, legato mani e piedi ed appoggiato contro la cornice del camino, aprì d’un tratto gli occhi, dopo il colpo ricevuto sulla nuca, mentre si aggirava con la ciurma alla ricerca di una vittima da trascinare sulla propria nave… “Pirati, vi fate chiamare. Com’è che si chiama il vostro paese? Berber? Barbaroi? Ma forse neanche ci siete mai stati, voialtri criminali di bassa lega. Si tratta solamente di una bandiera…” E qui, Magnús tacque momentaneamente. Mentre spostava il suo sguardo nostalgico verso l’emblema di bronzo ricevuto in dono dall’aldermanno, recante l’effige dell’aquila ed il toro considerati i veri protettori del Regno; a meno finché nell’anno del Signore 1660, il più recente erede dell’originale Unione tra i tre regni di Scandinavia, Federico III di Danimarca, proclamò il decreto che restaurava la monarchia assoluta nelle Isole, rivendicando il diritto di chiamare a se i contingenti dei suoi sottoposti locali. Ed ecco, dunque il risultato. Il prigioniero dall’aspetto del tutto europeo, a quel punto, colse l’attimo di esitazione e fece un’espressione truce. “Lo so cosa stai pensando, che non possono esserci tanti guerrieri in questo remoto villaggio di pescatori. Grindavík, si chiama, tra l’altro. Non che t’importi, sono pronto a scommetterci! Ma vedi, ho un piccolo segreto da raccontarti…”
Già, un segreto oppure due. Anzi, facciamo tre: primo, chissà se gli infedeli possiedono un calendario, pensò il soldato in pensione, sogghignando tra se e se. E mi chiedo pure, lasciò prender forma alle parole senza un suono, se ricordino il significato antico dello Yule, il giorno del Solstizio tramandato, prima che la chiesa stessa, e in seguito Martin Lutero, dessero un significato più importante ad una simile occasione. Ma ci sono cose, a questo mondo, che neppure la più sincera fede in Dio potrà riuscire a cancellare. Cose che si aggirano in mezzo alla neve, di una notte senza stelle né rumori. Fu a quel punto che il pirata catturato, il cui nome musulmano era Ekrém, colse qualcosa muoversi presso i margini del proprio campo visivo. Quindi, lentamente, lo mise a fuoco: sembrava un bambino assurdamente magro con il cappello rosso, ma dotato di una lunga barba bianca. In mano teneva un oggetto oblungo capace di rivelarsi, a una seconda indagine, come un cucchiaio. “Ecco, ti presento… Þvörusleikir. Ormai vive in questa casa da circa una settimana. Puoi considerarlo una specie di… Messaggero.” Gradualmente, a quel punto, le luci di candela nella stanza parvero affievolirsi, mentre un certo numero di esse scomparivano in rapida sequenza. “Ed immagino questo significhi che anche Kertasníkir è finalmente dei nostri. Dunque, ci siamo.” Un suono reiterato riecheggiò fuori dalla finestra, stranamente simile al ripetersi di una sillaba tronca: “Oh, oh, oh” Ekrém aggrottò le sopracciglia, facendo l’inutile gesto di volersi coprire le orecchie. Ma presso le sue caviglie legate, a quel punto, vide comparire un’altro orribile nanetto, con una pentola di legno sotto braccio “Askasleikir, ora basta. Non è il momento: vai subito a chiamare tua madre!” Gridò il padrone di casa. C’è un qualcosa che devo chiedergli, stasera.

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