Transporters 2018: rivincita sugli Amazonbot

Quando si pensa al futuro dei trasporti umani, è inevitabile. Di questi tempi il ragionamento conduce con inesorabile rapidità sempre allo stesso punto: la automobili a guida automatica, condotte a destinazione da un ensemble di GPS, radar, lidar, telecamere e processi di elaborazione logica basata sul principio dei processi neurali. Guidare è questa attività noiosa, lunga e potenzialmente dannosa, con cui la maggior parte di noi non vorrebbe mai aver nulla che fare. Soprattutto i pendolari. Ma la strada verso il conseguimento omnicomprensivo di una tale finalità è notevolmente in salita, non soltanto per il comprensibile scetticismo e la diffidenza di molti. Il problema principale è che il mondo esterno, con la sua infinita quantità di variabili, potrà pur sempre presentare un problema che l’intelligenza artificiale non riuscirà a risolvere. Ed allora, purtroppo, qualcuno perderà la vita. Ucciso accidentalmente dal proprio robot. Perciò sapete dove, invece, simili problemi non gravano col loro peso sulla coscienza dei progettisti? Dove tutto è sotto controllo, chiaro e definito, e nessun tipo di nuovo disastro può palesarsi sulla strada cronometrica delle giornate. Ma soltanto imprevisti, piccoli o grandi, all’interno di un ambiente che è la riduzione del cosiddetto “mondo esterno”. In altri termini, presso il traguardo al termine del viaggio stesso, che poi sarebbe il luogo di lavoro. Ne abbiamo visti molti, negli anni: robot che assemblano, robot che tessono, applicano vernici, spostano, selezionano, definiscono categorie. E poi quel tipo particolarmente affascinante di strumento meccanizzato autonomo, il picker artificiale per i magazzini che effettuano spedizioni online. Una lunga perifrasi, fino ad oggi, per riferirsi effettivamente a una singola e specifica cosa: il Kiva Systems di Amazon.com.
Questo perché la colossale azienda di Jeff Bezos, con un geniale colpo di mano del 2012, acquistò integralmente l’intera azienda produttrice di simili dispositivi, assicurandosi così l’esclusiva e arrestando letteralmente, per ben 7 anni, il progresso mondiale in questo specifico ambito tecnologico. Cosa c’è di meglio che monopolizzare quasi letteralmente un settore in crescita vertiginosa, quello delle vendite online, e nel contempo mantenere soltanto per se il segreto che permette, tra gli altri, di operare con una tale efficienza cronometrica e l’eliminazione parziale degli stipendi e le lamentele prodotte dai “soliti fastidiosi umani”. A un livello puramente superficiale, un Kiva è un dispositivo notevolmente simile a un aspirapolvere Roomba, o a uno di quei inarrestabili combattenti radiocomandati che vedevamo all’opera nel programma Robot Wars, dotato di ruote girevoli a 360 gradi e un sistema di sollevamento a vite infinita, che gli permette di far sollevare da terra letteralmente un apposito scaffale facente parte del sistema, definito in gergo amazoniano “The Pod”. Sopra la scocca dell’apparecchio c’è una telecamera, usata per scansionare e confermare i codici a barre posizionati sotto i diversi Pod, e sotto c’è n’è un’altra, che ne legge degli altri sul pavimento, utili a comprendere in qualsiasi momento la posizione in cui si trova nel magazzino. E a quel punto, avete presente le formiche? Poiché tutti i robot di una simile installazione possono vantare la partecipazione wireless allo stesso cervello centrale, essi lavorano in perfetta sincronicità, evitandosi l’un l’altro senza aver mai bisogno di rallentare. Fatta eccezione per il caso, tutt’altro che raro, in cui un nuovo dipendente posizioni erroneamente uno o più oggetti in vendita, lasciandoli sporgenti al di fuori dello scaffale e causandone l’impatto, talvolta a media velocità, contro un Kiva-cum-Pod che si stava dirigendo nella direzione diametralmente opposta. Ed è questa la principale ragione per cui alcune merci del sito, negli Stati Uniti, vengono vendute con uno sconto percentuale e la dicitura “scatola danneggiata”. Un altro potenziale problema, ancor più grave, è quello relativo ad oggetti piccoli e piatti che possono finire sotto il robot, bloccandosi in posizione tale da ostruire la telecamera. A quel punto esso, non conoscendo più la sua posizione, può causare più di qualche piccolo problema all’interno del meccanismo, finché un addetto umano non si accorge dell’anomalia e scende nell’arena per risolvere manualmente il problema. Il che si verifica attraverso un sistema alla Westworld (il telefilm) per cui tutti gli automi vengono arrestati all’interno di un’area definita, quello non conforme riceve la sua revisione e poi tutto continua esattamente come prima, senza alcuna soluzione di continuità.
Un sistema notevole dunque, ma non perfetto in quanto richiede ancora il regolare intervento delle mani umane. Soprattutto nell’effettivo prelievo degli oggetti al punto di smistamento, e il loro inserimento nelle scatole per la spedizione. Perché è questo il fondamentale problema, nella creazione di uno stato dei fatti di monopolio: si rallenta o arresta integralmente il progresso umano. Ma basta un rapido sguardo online per capire che proprio oggi, a conclusione di un lungo progresso di ricerca e sviluppo da parte di numerose aziende, le cose stanno finalmente per cambiare…

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L’ascensore senza cavi che rivoluziona i grattacieli

Sven si avvicinò alla finestra alta dal pavimento al soffitto, per scrutare lo sperone roccioso del fiume Neckar, incuneata tra la Foresta Nera e il massiccio del Giura. Il cielo limpido permetteva di vedere, a quasi 100 Km di distanza, alcuni dei palazzi più imponenti della distante Stoccarda. “Sa, me la sarei aspettata un po’ più… Carica di ululati.” Fece un sogghigno. Dopo tutto, l’abbreviazione per riferirsi ad uno dei più perfetti cani da guardia mai concepiti è proprio Rottweil, e tale è anche il nome sulla cartina geografica di tutto quel verde che lui stava scorgendo, adesso, al di sotto del suo gran paio di Waldlaufer. Ma la vera domanda, prima di porla alla guida della comitiva turistica a cui era stato assegnato, la considerò da ogni lato, rigirandola come fosse un cubo di Rubik nel profondo della sua anima propensa ai rimorsi. In effetti, non avrebbe mai voluto fare una figuraccia…. “Ma perché, perché mai mi dica signora, una cittadina da poco più di 24.000 abitanti dovrebbe ospitare un grattacielo alto 244 metri, con in cima la torre d’osservazione più alta della Germania?” Assumendo un’espressione enigmatica, la guida distolse lo sguardo dal resto degli ospiti, per focalizzare la sua attenzione su Sven: “Signore, una domanda alla volta. Signore, può togliere le mani e il naso dal vetro? La ringrazio. Vede, ne stavamo per l’appunto parlando. Ora se vuole gentilmente riunirsi allo scaglione di sua preferenza, stavamo tutti risalendo sugli ascensori. La spiegazione continuerà presso la sala controllo del piano intermedio. “La Test Tower poi, che nome insensato… Questi berlinesi!” Dallo sguardo dei suoi vicini, l’ospite svizzero si rese conto che stava parlando ad alta voce. Con una scrollata di spalle, contemplò la porta che si apriva ritmicamente sulla tromba già impiegata per raggiungere la sommità del palazzo. Ogni 30 secondi o giù di lì, cinque persone entravano dentro il cubicolo. Quindi, alla successiva apertura, sembravano sparite?! “Forse non avrei dovuto bere quella terza birra, al bar del centro visitatori.” Pronunciò ancora, prima di fare il passo necessario a tornare dentro il dispositivo già noto. La cui finestra, in fase di salita, aveva offerto una vista piuttosto monotona sulla parete interna della Test Tower ma che adesso, puntava dritta sul paesaggio antistante, all’estrema circonferenza dell’austero quanto insensato palazzo. Con la coda dell’occhio, quindi, vide qualcosa di strano: gli altri quattro passeggeri che questa volta, eseguendo probabilmente il contenuto di una spiegazione che lui non aveva seguìto, si reggevano al corrimano della cabina.  “E perché mai, si attendono turbolenze?” Non ebbe neanche il tempo di farsi una risata, quando l’ascensore prese a muoversi in maniera lenta a graduale, ma non verso il basso. Esso stava in effetti puntando, inesorabilmente, dritto contro la vetrata antistante. Con un grido strozzato, Sven perse l’equilibrio. Già i tre volti di Cerbero, triplo Rottweiler incatenato al primo dei pali, digrignavano i denti e spalancavano le loro fauci squadrate…
Scende o sale? O va di lato? Questo potremmo trovarci a chiedere, in un giorno non troppo distante, salendo nell’ascensore di un grande palazzo o centro commerciale. Magari, a New York, Kuala Lumpur o Dubai. Perché ciò ispira lo stile urbanistico, nonché la reale utilità dovuta all’uso contemporaneo di migliaia di persone, del nuovo sistema MULTI della Thyssenkrupp, che potrebbe effettivamente rimuovere molte delle limitazioni architettoniche che hanno inevitabilmente gravato, da oltre 100 anni, sul proposito di costruire n qualsivoglia palazzo più alto della chioma di una sequoia. Il consenso della stampa internazionale in merito, probabilmente a seguito del solito articolo apripista del giornale inglese Daily Mail, ha preso a chiamarlo l’ascensore di Willy Wonka, vista la presenza di qualcosa di superficialmente simile nella più celebre fabbrica di cioccolato della storia del cinema. Benché personalmente, io trovi più calzante l’analogia dei sibilanti turbolift in uso sull’astronave Enterprise. Ma qualunque sia la similitudine che desideriamo impiegare, è inutile girare intorno al fatto che il nuovo progetto di una delle principali compagnie siderurgiche europee possa, in effetti, migliorare in modo significativo la vita di molte persone. Secondo uno studio del 2013 non meglio definito, ma citato espressamente sul sito della compagnia, usare un singolo ascensore per ciascuna tromba corrisponde in effetti al concetto di un solo vagone, che percorre ritmicamente un’intera linea ferroviaria tra due città. Negli uffici della Grande Mela, in media, i dipendenti trascorrono 16,6 anni di attesa dell’ascensore ogni 5,9 di utilizzo! Profilando lo scenario, effettivamente, di un ingorgo che inizia fuori dalla porta di casa, per raggiungere il luogo di lavoro, seguìto da un’altro, ancora più intenso, per raggiungere il piano desiderato. E sarà proprio qui che verrà combattuta la battaglia della futura ergonomia architettonica. Grazie a dei nuovi, inusitati alleati…
La singola cabina del MULTI, che vista dall’interno è del tutto indistinguibile da un comune ascensore, assomiglia in realtà concettualmente più ad un veicolo dotato di motore lineare magnetico, come il nuovo treno MagLev recentemente entrato in servizio a Shangai. Che muovendosi lungo la sua rotaia verticale, può raggiungere liberamente qualsiasi recesso recondito dell’edificio, mentre degli appositi punti di scambio, non troppo dissimili da quelli di un binario convenzionale, lo convertono dal moto verticale a quello orizzontale. Con un simile approccio, le possibilità diventano letteralmente infinite…

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Gara di auto elettriche, svanisce la zavorra del pilota

Se funziona nei videogiochi, perché non dovrebbe farlo anche nel mondo reale? Beh, “funziona” è una parola grossa. Nel vasto catalogo di esperienze digitali interattive in cui siamo chiamati a dirigere un missile su ruote lungo i percorsi soliti noti, l’intelligenza artificiale è sempre un gran punto interrogativo. Poiché può basarsi, essenzialmente, su due direttive molto differenti, seguire semplicemente la linea di gara, oppure interpretarla. La differenza non potrebbe essere maggiore: nel primo caso, al giocatore sembrerà di essere come una scheggia impazzita, inserita artificialmente nel bel mezzo di un ingorgo a più di 300 Km/h. I diversi concorrenti, in realtà avatar dello stesso pilota privo di un corpo, marceranno ordinatamente lungo il tracciato, inscenando qualche volta la figura di un sorpasso. Neppure urtarli, accidentalmente o di proposito (magari per la frustrazione) potrà fare molto per alterarne il rigido copione. Fu questo il caso del primo, storico Gran Turismo per PSX, e di un buon 80% dei driving game venuti dopo quel momento. Ma c’è stata un’epoca, costellata di nomi come il game designer Geoff Crammond, la compagnia Papyrus e Simbin dei tempi d’oro, in cui le automobili venivano effettivamente programmate. Con una serie di comportamenti, non soltanto direttive, talvolta inclusivi di “episodi” umani, come errori di calcolo, pressione psichica o paura. Ecco, quest’ultima parte, sconsiglierei di eliminarla dal futuro della quattroruote Robocar. Dopo tutto, stiamo parlando di un bolide che dovrà girare nel mondo fisico, con tutti i rischi connessi ad una tale finalizzazione. Tranne quello, fino ad ora, considerato inevitabile: le gravi conseguenze per chi guida. Per il semplice fatto che non ci sarà più un “Chi”. Avete capito di cosa sto parlando? A partire dal 2014, nello scenario automobilistico mondiale esiste questa realtà in grado di rompere con il passato, identificata con una singola lettera dell’alfabeto. Formula E, ha deciso di chiamarla la FIA organizzatrice, dove la E vorrebbe simboleggiare, ovviamente, la parola ed il concetto di Elettricità. Il che sottintende assai evidentemente, questa serie di gare in cui il rombo del motore viene sostituito da un sibilo intenso, che sottintende una velocità massima inferiore ma il più delle volte, un’accelerazione niente meno che bruciante. C’è poi l’altro piccolo dettaglio di sfondo: la stessa macchina per tutti i team. Benché nell’ultima edizione, ci si stia muovendo in direzione diametralmente opposta, con la nuova regola che consente qualche grado di personalizzazione al gruppo motopropulsore, cuore stesso del veicolo in questione. Ma questo non è l’unico punto di rottura netta della serie, caratterizzata da un certo numero di altre caratteristiche distintive: intanto, i tracciati. Nove proposte disseminati tra altrettante città di larga fama, come Parigi, Hong Kong e Marrakesh (l’ottava, la decima e la dodicesima gara riutilizzano per la seconda volta, rispettivamente, Berlino, New York e Montreal) . Senza mancare ovviamente, di fare una visita al celebre circuito di Monaco, con prospettive ancora più intriganti all’orizzonte. Chi non sa ormai quasi tutto, ad esempio, del progetto confermato di portare presto questo grande show a Roma?
Tutto il caravanserraglio inclusi gli elementi di contorno, tra cui dovrebbe figurare, entro la fine di quest’anno, anche il campionato collaterale di Roborace. O almeno questo è ciò che sperano gli organizzatori. Di certo. a guardare il video appena rilasciato, proveniente dal circuito tedesco dell’ex-aeroporto Templehof situato nella capitale berlinese, sembra oggi di essere notevolmente più vicini all’obiettivo. L’automobile impiegata per la prova, in realtà non quella definitiva prevista dagli organizzatori, sfreccia ad ottime velocità lungo le 17 curve di questo vero e proprio labirinto d’asfalto, tutt’altro che un circuito veloce, ma proprio per questo, anche molto tecnico dal punto di vista di coloro che dovrebbero guidare. La Devbot, in realtà nient’altro che una Ginetta LMP3, ovviamente con motore al 100% elettrico, guida con una cautela pari a quella di un pilota di abilità medio-bassa. È stato dichiarato a tal proposito che la velocità complessiva sia inferiore dell’8% a quella media dimostrata dai partecipanti umani; ma questo non è necessariamente disastroso. Poiché, per tornare alla questione dell’IA (Intelligenza Artificiale) che si occupa di pilotarla, questo non è un veicolo che segua un copione particolarmente stringente. Altrimenti, cosa avrebbe di speciale? Forse ricorderete l’incredibile realizzazione dell’Università di Stanford a partire da un’Audi TTS nel 2010, che venne fatta girare sul circuito di Pikes Peak con punte di 209 Km/h ed un tempo finale, comparabilmente, decisamente più notevole di quello della Devbot. Per poi replicare il successo sul circuito di Top Gear, in una precedente puntata del famoso programma Tv inglese. Ma il punto è proprio questo: l’Audi andava tanto forte, poiché la sua navigazione si basava su una speciale tipologia di GPS reattivo, in grado di determinare la sua posizione sulla pista con pochi centimetri di errore. Questione ben diversa dal proposito di questa erede, che piuttosto alla maniera delle driverless cars di Google ed Uber, si propone di fare affidamento su telecamere a infrarossi, radar e lidar, finalizzati ad uno studio in divenire degli eventuali pericoli su strada, nonché un presa di coscienza, a livello di algoritmo, dell’effettiva linea da seguire. In gergo, si parla di un’automobile senza guidatore di livello 5. Neppure all’epoca degli anni d’oro dei simulatori ludici su PC, fu mai raggiunto davvero l’equivalente del livello 5. Ma in futuro, come dicevamo…

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Pescatore assiste all’ecatombe dei pesci texani

Una delle immagini più shockanti e terribili del mare, spesso condannata anche dai non ecologisti, è il periodico ripetersi di un’usanza, comune alle isole Faroe tra Inghilterra e Norvegia ed al Giappone della città di Taiji. Quel momento in cui il mare si tinge di rosso, mentre le rispettive popolazioni si radunano sulla spiaggia, facendo strage di grandi quantità di balene pilota, nel primo caso, e per lo più delfini nel secondo. Animali particolarmente in grado di suscitare lo sdegno del grande pubblico, perché considerati simili a noi, intelligenti, dalla vita relativamente lunga e con la capacità di comprendere a pieno la loro triste condizione. Nonché soprattutto, si presume, in grado di soffrire in maniera piuttosto intensa. È il realizzarsi di una visione tanto truculenta da essere oggettivamente difficile da razionalizzare, anche volendo accettare l’importanza delle tradizioni marittime e l’effettiva sostenibilità di simili iniziative. Mentre il resto nel mondo globalizzato, dal canto suo, non trovando simili orpelli abbinati al proprio concetto di civilizzazione, guarda in entrambe direzioni con sdegno e non senza una certa dose di auto-compiacimento, nella presa di coscienza dell propria maggiore attenzione alla cosa naturale. Il che appare del tutto vero, finché non si assiste a fenomeni come questo: un uomo, noto come The Fish Whisperer (Colui che sussurra ai pesci) impugna la telecamera presso la foce del Colorado River, nell’estremo meridione del Texas, dove una sottile striscia di terra separa un braccio di mare dal resto del golfo del Messico, creando una sorta di vasta piscina, nota col nome di baia di Matagorda. In cui alcuni canali costruiti e gestiti dall’uomo permettono alle imbarcazioni di navigare verso l’entroterra. Le quali talvolta, è inevitabile, vengono seguite da una certa quantità di pesci, che ormai da tempo hanno qui ricreato il proprio habitat ideale. Menhaden del Golfo per essere più precisi (Brevoortia patronus) animali non particolarmente rari, speciali o preziosi da un punto di vista dell’economia, appartenenti alla stessa famiglia delle aringhe. Ma semplicemente fondamentali per la catena alimentare oceanica, poiché costituiscono uno dei pochi anelli tra il plankton e molte forme di vita più sofisticate, come pesci persici, squali, balene ed uccelli pescatori. Tanto più grave appare dunque questo improvviso evento, in cui migliaia, per non dire milioni di questi esseri, tutto d’un tratto, si sono ritrovati a morire accumulandosi ai lati del canale, lasciando il nostro autore del video letteralmente senza parole. E cosa potrebbe mai dire, dinnanzi ad uno degli episodi di annientamento collettivo più totali ed imprevedibili del pianeta? Non è la prima volta che questo succede: ci sono almeno altri due casi registrati, nel 1995 e nel 2005. Ogni 10 anni, all’incirca, ogni singolo nuotatore del canale sembra passare istantaneamente a miglior vita, senza ragioni palesi ed evidenti. Non si tratta per niente, ad esempio, del rilascio improvviso di sostanze velenifere ad opera di qualche impianto industriale. Ma di un qualcosa di molto più indiretto…
È un fatto largamente noto, ma poco regolarmente approfondito, che i pesci abbiano effettivamente bisogno di respirare ossigeno, proprio come noi esseri di superficie. Le branchie non li esonerano da tale necessità, permettendogli piuttosto di effettuare la separazione delle molecole ad un livello cellulare, metabolizzando l’acqua invece di limitarsi a berla. Il che significa, incidentalmente, che il contenuto di quest’ultima deve essere sufficientemente adatto ad una simile operazione. E non è sempre, ne automaticamente così, come ampiamente esemplificato dall’esistenza dell’apparato di aerazione (o bubbler) per gli acquari, che si occupa di pompare in esso una quantità adeguata d’aria. Ora quando l’acqua è stagnante, o eccessivamente piena di pinnuti abitanti, può succedere che l’ossigeno finisca per esaurirsi. E che tutti i pesci, nessuno escluso, muoiano soffocato. Benché a dire il vero, questo non è l’unico fattore a pesare sul disastro di Matagorda Bay. Poiché a dare il colpo di grazia ci ha pensato, in effetti, un’improvvisa e incontrollabile fioritura di alghe, come i cianobatteri, i dinoflagellati, i coccolitofori e le diatomee. E sebbene possa sembrare strano che organismi in grado di produrre e riciclare l’aria respirabile, in ultima analisi, siano proprio la causa dell’evento, occorre anche considerare con il loro arrivo la formazione conseguente di substrato, privo di luce e quindi fotosintesi, in cui l’ossigeno semplicemente cessa di arrivare. E volete sapere la causa di tutto questo? Praticamente ovvio: l’uomo.

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