All’alba del giorno X, lievi tremori sveglieranno tutti i cani delle isole Canarie, per quello che i locali potrebbero interpretare, inizialmente, come l’ennesimo sciame sismico privo di conseguenze. Ma una scossa più forte delle altre, all’improvviso, lascerebbe intuire la verità: la montagna di fuoco che si risveglia, ancora una volta, per scatenare tutta la sua furia repressa sulle teste di coloro che da un tempo lunghissimo, sono vissuti all’ombra della sua svettante presenza. Un poco alla volta, o forse nel giro di un istante, gli sconvolgimenti geologici che seguono puntualmente il fenomeno di un’eruzione, intaccherebbero in profondità la crosta e il mantello, con ondate oblique che andrebbero a manifestarsi, di nuovo, in un particolare punto della montagna del Cumbre Vieja, sull’isola verdeggiante e ospitale de La Palma. E sarà allora che l’evidente crepa sul suo versante, lungamente studiata da geologi ed altri scienziati della Terra a partire dal 1999, raggiungerà un punto critico di non ritorno. Un disastro come questo che avanza, lento e imperterrito, verso il suo espletamento risolutivo, può essere facilmente previsto. Ma ci sono casi in cui neanche l’uomo, l’onnipotente, onnisapiente erede delle scimmie sagge della Preistoria, può industriarsi per risolvere alcunché. Così l’intero versante ovest del monte scivolerà in mare. Potrebbe succedere tra mesi, anni, oppure generazioni. Ciò di cui dovremmo preoccuparci maggiormente, tuttavia, non è l’incertezza cronologica. Bensì la portata, letteralmente globale, delle possibili conseguenze.
Tutti in Italia conoscono, se non ricordano in prima persona, il disastro terribile del Vajont. Quando il nuovo bacino idroelettrico dell’omonimo torrente alpino, costruito senza studi sufficientemente approfonditi della geologia locale, subì le gravissime conseguenze di una frana, verificatasi il 22 marzo 1959, per una quantità complessiva di detriti ammontante a 3 milioni di metri cubi. I quali, precipitando all’interno del lago artificiale, trascinarono con se ossigeno sollevando una quantità persino superiore d’acqua, che tracimando al di fuori dell’invaso, trascinò a valle la spaventosa ondata di fango e pietre che, a partire dalle ore 22:39, causò la totale distruzione di svariati villaggi del fondovalle veneto. Nonché la tragica morte di 1.910 persone. Quello che invece non viene spesso discusso, perché distante geograficamente e fortunatamente privo di conseguenze altrettanto gravi, fu il fenomeno estremamente simile che si era verificato soltanto l’anno prima nella baia di Lituya, non troppo lontano da Anchorage, capitale e principale città dell’Alaska. Quando, per un sommovimento tellurico, le pareti scoscese del golfo si staccarono in maniera improvvisa assieme a una parte del ghiacciaio soprastante, precipitando rovinosamente in mare. 300 milioni di metri cubi stimati, di pietra, terra, neve e detriti, abbastanza per sollevare un’onda apocalittica dall’altezza di 30 metri, che risalì le pareti della baia in data 9 luglio del 1948. Cinque persone, che si trovavano a bordo di due barche di pescatori, persero immediatamente la vita, mentre un sesto equipaggio, composto da marito e moglie, che si trovava all’imboccatura della baia, riuscì a cavalcare con la propria barca la furia della natura sconvolta, per testimoniare l’incredibile evento a beneficio della posterità. Oggi si ritiene che, se questo prototipo del concetto stesso di mega-tsunami si fosse generato in un tratto di mare più aperto, per l’effetto domino delle masse d’acque coinvolte, avrebbe finito per generare la più grande onda anomala della storia, devastando l’intera costa ovest degli Stati Uniti.
Ma persino tutto questo non è praticamente nulla, in confronto a quanto potrebbe verificarsi, secondo uno studio scientifico pubblicato da Simon Day, Steven Neal Ward et al, relativo a quello che ci aspetta nel momento in cui il fianco ovest della seconda vetta più alta delle Canarie dovesse spaccarsi letteralmente in due, lasciando precipitare in mare la quantità stimata di un milione e mezzo di metri cubi di terra e pietra. I quali, accelerando in fase discendente, andrebbero a generare il più grande flusso di detriti della storia registrata, come un sasso gettato al centro di un lago, grande quanto la metà dell’intero pianeta Terra. A quel punto, a patto che il crollo si verifichi in maniera improvvisa e non graduale, ciò che andrebbe a crearsi è un’onda concettualmente non dissimile da quella del Vajont o della baia di Lituya, ma molto più grande ed ampia. La quale si propagherebbe, in maniera minore, verso il Nord Africa, il Portogallo e la parte meridionale dell’Inghilterra. Ma sarebbe sopratutto una direzione, ad accogliere tutta la sua furia: l’estremo Occidente, verso le coste inconsapevoli dei remoti Stati Uniti.
Tre casi citati, due pregressi ed una possibilità futura. Ciascuno appartenente alla categoria concettuale lungamente studiata, ma ancora non del tutto compresa, dei mega-tsunami. Qualcosa di ancor più terribile, persino, della catastrofe di tipo naturale che sembrerebbe aver causato il numero maggiore di vittime nella storia umana. La ragione, ritengo, è palese: laddove lo scuotersi di un comune fondale marino, in condizioni idonee, può far sollevare dei cavalloni alti decine di metri, con devastazione evidente in prossimità delle coste abitate, non c’è letteralmente limite, alla quantità di acqua che può essere spostata da una vera e propria frana all’interno della suddetta fluida, pronta a reagire alle sollecitazioni con un’immediatezza che prescinde dalla sua immensità. L’onda generata dal crollo del Cumbre Vieja, quindi, inizierebbe a propagarsi alla velocità di 720 Km/h, paragonabile per intenderci a quella di un jet di linea, puntando dritta in direzione del Nordamerica con un’altezza iniziale di 600 terrificanti metri. Con il raggiungimento, dopo circa quattro ore di viaggio, della faglia continentale situata nella parte ovest dell’Antlantico, quindi, la sua velocità sarebbe portata a diminuire, con una separazione in svariate onde più piccole, dell’altezza media di 20-30 metri. Queste ultime quindi, crescendo di nuovo in conseguenza del sollevamento dei fondali, si abbatterebbero dopo un altro paio di ore su città come Boston, New York, Miami…
La portata di un simile disastro è difficile da prevedere sulla Grande Mela poiché nella storia registrata, nessuna effettiva metropoli moderna è stata mai investita dalla piena furia di uno tsunami. Per non parlare dei rarissimi mega-tsunami. Nella simulazione al computer mostrata in apertura, attentamente realizzata dal misterioso youtuber Ingomar200 nel 2011, vengono mostrate le possibili conseguenze di un simile evento. L’onda anomala, con una stima relativamente conservativa di 20 metri, investirebbe la penisola di Long Island, penetrando nell’entroterra fino allo svincolo dell’autostrada statale n. 25. Quindi, rimbalzando a meridione verso la regione della Lower Bay, giungerebbe fino al cuore cittadino di Staten Island, spazzando via letteralmente il ponte di Verrazzano. Manhattan, possiamo presumere, si salverebbe a causa della sua posizione geograficamente protetta. Tra i più alti grattacieli della zona, sarebbero i più vecchi a riportare i danni maggiori, causa l’assenza di fondamenta profonde ancorate allo scisto metamorfico situato nelle profondità della zona. La loro massa letteralmente proiettata verso l’entroterra dalla furia del mare, diventerebbe un letterale proiettile vagante, destinato ad unirsi al terribile flusso dello tsunami. Milioni di persone terrorizzate, rimaste bloccate per la quasi totale rovina delle arterie di collegamento, non avrebbero a questo punto altra scelta che attendere i soccorsi, tra le macerie fumanti di quella che era stata, fino a poche ore prima, una delle città più magnifiche al mondo. E un destino simile, del resto, potrebbe toccare ad innumerevoli altri luoghi.
Fin da tempo immemore, vivere in bilico è un’attività che ci riesce particolarmente bene. L’inquinamento, il buco dell’ozono, il mutamento climatico… Tutte questioni da noi causate e sulle quali, proprio per questo, ci illudiamo di mantenere un certo grado di controllo. “Posso smettere quando voglio” è del resto una frase che trova continua applicazione nel micro come nel macroscopico, ad ogni livello della nostra esperienza individuale di esseri umani. Ma di tutto questo, alla natura interessa particolarmente poco. Pensate allo spazio insignificante che persino il nostro intero pianeta occupa nella vastità del Sistema Solare, per non parlare delle più immediate regioni del cosmo silente. Cosa volete che sia, per un simile concerto smisurato dei fenomeni, produrre una nota o due all’indirizzo dei nostri beni più preziosi, le abitazioni, o persino le vite delle persone? Considerate che è soltanto dell’ottobre scorso, la notizia di alcune scosse misteriose nelle profondità della crosta terrestre, non troppo distante dalle isole della Canarie. Occasione in cui numerose testate di tutto il mondo, nel classico tsunami di disinformazione, hanno pubblicato dei titoli allarmanti sulla presunta imminenza del giorno X. Qualcosa che non può essere previsto. E per proteggersi dal quale, gli abitanti di New York avranno soltanto quelle 6 fatidiche ore. Da allora e per sempre, rimaniamo in attesa. Chi vivrà…
Perciò l’insegnamento che potrebbe trarre il senso comune, a distanza di tanti anni, dal disastro della diga del Vajont, dallo tsunami della baia di Lituya o da future possibili manifestazioni di sconvolgimenti ancor più gravi, è che l’energia apparentemente stabile sulla cima di una montagna, non importa quanto antica, può sempre scatenare tutta la sua furia per un improvviso risvolto del fato. E non è sempre detto, che vivere distanti dal rischio, ci isoli dalle sue più drammatiche conseguenze. Il pianeta, del resto, è uno. Con una sola atmosfera. Un singolo oceano. Soltanto una vulnerabile, sacrificabile (intera) inutile, magniloquente umanità.