Il triplano che avrebbe condannato New York


Era la primavera del 1919, quando i due funzionari della Commissione Inter-Alleata di Controllo Aeronautico si incontrarono alla stazione di Colonia, dove un piccolo gruppo di militari, principalmente francesi ed inglesi, si trovavano appositamente per accompagnarli nel loro giro d’ispezione. La barriera linguistica, fortunatamente, non sarebbe stata un problema: Verna Daviau aveva vissuto, durante gli anni della sua adolescenza, in America con suo padre, ambasciatore della Terza Repubblica che aveva lavorato a margine della Triplice intesa, prima di essere inviato a curare gli accordi economici pre-bellici con la nascente potenza economica al di là dell’Atlantico. Anche per questo, lei era stata scelta quel giorno per accompagnare Albert Stephenson, SPC Master Sergeant della delegazione statunitense, durante il suo giro d’ispezione delle fabbriche Mannersmann AG, secondo quanto definito dai precisi termini del trattato di Versailles. Tutte le catene di montaggio sarebbero state smantellate. Alla Germania non sarebbe rimasta alcuna possibilità di costruire aerei militari. “Hello sir, pleased to make your acquaintance.” Fece lei, il tailleur blu cielo dello stesso colore del suo cappello, recante una spilla con la bandiera del suo paese. Lui compunto in divisa militare, le spalline splendenti sotto la luce dei finestroni, rispose con forte accento: “Mademoiselle, possiamo parlare la vostra lingua. Sono un grande fan di Victor Hugo.” Il ghiaccio, cos’era? Un sottile strato già infranto da circostanze professionali così importanti, eppure semplici da trasformare in un’occasione di scambio culturale. E l’automobile a bordo strada, una Vauxhall D-Type 25 cavalli, era già pronta ad accoglierli ed accompagnarli nel quartiere di Köln Westhoven. “Si rende conto, signor Stephenson? Fino a pochi mesi fa, auto come queste venivano utilizzate per spostare i più alti ufficiali in grado dell’Impero. Gli stessi gran duchi di Prussia ne guidavano una. Finché la battaglia di Cambrai non ha cambiato tutto, ora non è un veicolo come gli altri.” Il sergente americano annuì con enfasi, raccontando alla sua collega d’oltreoceano della Ford Model A, il primo veicolo per il popolo, e di come in America, molto presto, tutti avrebbero avuto l’opportunità di mettersi al volante. Lei tacque, pensierosa. Ben presto raggiunsero gli argini del Reno, oltre il distretto di Rodenkirchen. “Guardi alla sua destra, Ms. Daviau, quella doppia guglia appartiene alla cattedrale della città!” Oltrepassato l’omonimo ponte, quindi, si trovarono nell’area industriale della città. Questa intera missione, in realtà, era il prodotto di una soffiata di un’attaché della marina militare svedese a Berlino, il comandante Lindström, che al termine della guerra era emigrato in Inghilterra con l’assistenza del Secret Service BureauRaccontando agli agenti stranieri, in quell’occasione, della volta in cui aveva incontrato un brillante ingegnere finlandese di nome Villehad Henrik Forssman, che si era vantato con lui di un progetto apparentemente molto importante: la costruzione di un bombardiere, diverso da qualsiasi altro mai concepito nel primo ventennio del secolo dell’aviazione. Le fabbriche della grande cooperativa, ufficialmente impegnata nella costruzione di tubi d’acciaio, iniziarono a profilarsi più avanti sulla strada, non più asfaltata. Tra le vibrazioni dell’ammortizzatore a balestra, già la Daviau intravedeva della forme all’interno del grande portone spalancato, con soldati delle forze d’occupazione ai lati, pronti a farli passare secondo i precisi ordini ricevuti. L’autista parcheggiò l’auto a lato, mentre già i due rappresentanti di commissione iniziavano il loro ingresso nella scena. Ad accoglierli oltre la porta, tuttavia, una forma inaspettata: era una colossale ruota di legno, dal diametro di 2 metri e mezzo. “Se non fosse impossibile, l’avrei vista bene sul cavallo di Troia.” Ironizzò lei. Ma Stephenson era serissimo: “Nulla di tanto remoto nel tempo, mademoiselle. Quella…Cosa, appartiene a un aereo.” D’un tratto, l’atmosfera cambiò totalmente. La portata di quello che stavano vedendo coi loro occhi, gradualmente, penetrò nella coscienza di lui e lei.

Leggi tutto

Perché i videogiochi non capiscono il silenziatore

I valori di produzione, e la qualità, di molto del materiale che si trova su YouTube variano sensibilmente in base all’autore. C’è un nuovo video sul canale di Destin Sandlin, l’ingegnere americano di Smarter Every Day, che prende in analisi un qualcosa che noi tutti conosciamo fin troppo bene, attraverso l’immagine romantica ed un po’ distorta che ne viene data dal cinema prima, dai videogiochi poi: l’unico strumento in grado di ridurre il rumore prodotto da un’arma da fuoco. O eliminarlo, come tendono a farci pensare le succitate opere d’ingegno da almeno una trentina d’anni o giù di lì. La differenza tra i due risultati perseguibili è in realtà anche oggetto di una pregna disquisizione linguistica, visto come l’accessorio in questione tenda ad essere definito in lingua inglese silencer, l’oggetto che “toglie il suono” (del tutto) piuttosto che suppressor, ovvero un qualcosa che lo riduce. Un fraintendimento che risale, volendo tornare alle origini, fin dalla prima versione commerciale dell’oggetto, prodotta dall’inventore newyorkese Hiram Percy Maxim, che nella prima decade del ‘900 lanciò una campagna pubblicitaria a tappeto sulle principali riviste di settore, ottenendo presumibilmente un ottimo ritorno d’investimento. Questo perché, contrariamente a quanto saremmo forse propensi a pensare noi non-iniziati del proiettile e la polvere da sparo, ci sono molte diverse assolutamente legali per possedere, e trarre soddisfazione, dall’impiego di un’arma da fuoco in grado di ridurre la sua udibilità: prima fra tutte l’impiego durante la caccia, potendo così eventualmente sbagliare il colpo, senza che il cervo o il tacchino di turno reagiscano scappando via nel profondo del sottobosco. Ma anche l’impiego durante il semplice tirassegno dentro il poligono, senza la necessità d’impiegare protezioni per le orecchie e restando quindi in grado di ascoltare i consigli del proprio istruttore, se non addirittura conversare amabilmente con gli amici o colleghi delle cabine a fianco. L’impiego militare del silenziatore viene convenzionalmente fatto risalire al presidente Franklin D. Roosevelt, che accolse con entusiasmo la dimostrazione di William Joseph “Wild Bill” Donovan, l’allora capo del servizio segreto OSS (quella che un giorno sarebbe diventata la CIA) il quale scaricò il suo intero caricatore contro un sacchetto di sabbia presente dentro lo studio ovale, mentre il capo della nazione dettava una lettera alla sua segretaria. Già il suo quinto cugino e precedente presidente, Theodore, era stato un utilizzatore assiduo dei silenziatori Maxim.
Piuttosto che considerare gli impieghi storici dell’attrezzo ad ogni modo Destin, che aveva fatto da portavoce del popolo internettiano nel 2016 ponendo alcune domande ad Obama assieme ai colleghi di YouTube, si concentra sulla dimostrazione pratica del suo funzionamento, grazie all’assistenza dell’amico Steve della Sotiria, una compagnia che ne produce una nutrita gamma del tipo monolitico in titanio, tra i più resistenti, solidi e facili da pulire sul campo. L’approccio è molto diretto e al tempo stesso ingegnoso: applicando quella che il celebre divulgatore di YouTube definisce con il suo consueto entusiasmo “ingegneria distruttiva” un componente specifico degli oggetti viene sostituito con qualcosa di meno resistente, allo scopo di studiare margini di miglioramento progettuale. Stiamo parlando della scocca, normalmente un tubo in metallo che dovrebbe contenere i gas in espansione del proiettile al momento dello sparo, qui sostituito con l’equivalente in acrilico, sostanzialmente nient’altro che plastica. Proprio così: trasparente. Il che è una vera fortuna, visto come il nostro eroe internettiano disponga da qualche tempo, ed utilizzi con grande soddisfazione, una telecamera per il super rallenty in grado di raggiungere i 110.000 frame al secondo, l’assoluto non-plus-ultra per quanto concerne la cattura su video degli eventi scientifici o tecnologici dal più alto tasso di velocità. Così tutto quello che la gang deve fare, per dimostrare al mondo quanto desiderato, è comportarsi da buoni abitanti dell’Alabama e recarsi presso un poligono all’aperto, per mettere alla prova quanto da loro teorizzato in merito all’intera dimostrazione. Per ottenere una serie di risultati che sono talvolta buoni, qualche altra non propriamente eccezionali, ma in ogni caso sempre degni di essere riportati e discussi.

Leggi tutto

L’arma che rivoluziona le regole della guerra navale


A dire il vero non ce l’eravamo aspettata così. Enorme, in primo luogo, e poi terribilmente rumorosa: la semi-mitica railgun, arma molto amata dai film di fantascienza e che spesso capitava in mano degli eroi e dei cattivi del cinema degli anni ’80 e ’90. Per non parlare dei videogiochi. Uno strumento che si riteneva configurato, forse per un’insensata analogia con il laser, sull’assoluta silenziosità e precisione, in grado di penetrare una parete di cemento neanche fosse un sottile foglio di carta. Senza neppure un sussurro. Eppure lo spaventoso apparato, messo alla prova in questo video durante un recente test al poligono di Dahlgren in Virginia, a una distanza risibile dal Pentagono, tutto sembra tranne che il bisturi di un chirurgo. Sopratutto nella sua nuova, rivoluzionaria configurazione, in cui può fare fuoco più volte al minuto. Qualcosa di inimmaginabile, fino a poco tempo fa, proprio perché la velocità in fase d’accelerazione del proiettile (in grado di raggiungere i 2000–3500 m/s) tendeva a disintegrare il meccanismo di fuoco e la canna stessa. Per non parlare di un altro “piccolo” problema: la quantità di energia elettrica necessaria a sparare. Perché… Beh, lasciatemelo dire: affinché la luminosa scintilla degli elettroni possa sostituire completamente l’impiego di qualsivoglia esplosivo o polvere nera, state certi che vi servirà un condensatore bello grosso. E conseguentemente, una fonte pressoché inesauribile per caricarlo. È per questo che nel suo programma d’impiego sull’immediato futuro, la marina sta guardando verso le sue navi a propulsione nucleare, con la sola eccezione dei nuovi incrociatori di classe Zumwalt (vedi precedente articolo). Che sono stati, effettivamente, costruiti attorno ad un enorme generatore. Le possibili ripercussioni sull’aspetto di una futura battaglia in alto mare, che possiamo soltanto sperare rimanga ipotetica, sono tuttavia difficili da sottovalutare.
In origine era il cannone. Non sto certamente parlando degli albori dei conflitti marittimi, quando tutto quello che i marinai avevano erano arco e frecce, il loro coraggio, un coltello tra i denti durante il pericoloso balzo oltre la murata dell’imbarcazione nemica. Bensì dell’epoca dei brigantini e dei galeoni, quando un capitano per mare iniziò a rappresentare, in tempo di guerra, la potenza bellica della sua nazione. Isole mobili, pezzi di suolo sovrano, cagnacci sputafuoco all’ombra di vele e bandiere, che all’ordine di qualcuno potevano rilasciare una grandine di ferro sopra il legno nemico, sperando di sforacchiarlo per bene. Con l’evolversi tecnologico dei presupposti d’ingaggio, quindi, la guerra è cambiata. Non poi da tantissimo tempo: si può ragionevolmente affermare, in effetti, che ancora all’epoca della seconda guerra mondiale il principale mezzo d’autodifesa di una nave da battaglia fosse il semplice tubo a retrocarica, in grado di scaraventare un oggetto (potenzialmente esplosivo) all’indirizzo di un bersaglio distante. Ma già allora, con l’invenzione dei missili e l’impiego più ampio delle portaerei verso l’ultimo capitolo del conflitto, le vecchie corazzate stavano perdendo la loro funzione primaria in un gruppo da battaglia. La curva del potenziale distruttivo trasportabile, persino da un piccolo incrociatore o un mezzo volante, stava raggiungendo vertici tali che non c’era più nulla a cui potessero servire, effettivamente, la stazza e la durevolezza di un gigantesco battello. Fu pressoché allora, quindi, che le navi da ingaggio prolungato iniziarono a dar spazio maggiore alle contromisure di bordo, piuttosto che i metodi per far rimpiangere al nemico di essere nato. Allo stato corrente delle cose e prendendo in analisi il contesto operativo statunitense, benché una moderna capital ship trasporti almeno un’arma a lungo raggio o due, i suoi ufficiali d’artiglieria hanno principalmente il compito di mantenere in condizioni ottimali sistemi come il Phalanx CIWS, la cui principale mansione è sviluppare un volume di fuoco sufficiente ad abbattere un missile nemico in volo. Non che tutto questo, nella mente degli ammiragli e dei capi di stato maggiore, sia considerato uno stato ideale delle cose. Intanto per il costo necessario a impiegare un sistema d’arma a lungo raggio come il missile Tomahawk (costo unitario 1,84 milioni di dollari) e poi per l’annosa questione, tradizionalmente invisa ai capitani di mare, di trasportare a bordo tonnellate e tonnellate di esplosivo, pronto a saltare in aria nel caso di un colpo fortunato del nemico. Immaginate ora se soltanto ci fosse un sistema per lanciare una semplice sbarra di metallo appuntita (generalmente si tratta di tungsteno) a distanza di 30 miglia nautiche, con una potenza cinetica tale da scardinare qualsiasi corazza in grado di galleggiare. O direzionare tale lo stesso proiettile contro un missile nemico in arrivo, a una velocità di sei volte quella del suono. Non fareste anche voi di tutto, per poter disporre di un simile potenziale d’arma?

Leggi tutto

Artista dei Lego ripercorre la storia dei carri armati

Questa è per i ribelli, i fuorilegge, i guerrieri al di fuori degli schemi. Per chi è disposto a tutto, tranne seguire l’ordine prestabilito. Voi che vedete una scatola di costruzioni e piuttosto che cercare le istruzioni, iniziate a chiedervi “Che cosa può fare lei per me?” Come pretende il vero spirito dell’ingegneria… Si armeggia coi mattoncini per molti motivi. Chi ama quella sensazione tattile e cerca soltanto la sfida di assemblare il set, come si trattasse di un comune puzzle bidimensionale. E chi invece non si accontenta davvero, finché non ha esaurito il combustibile nel serbatoio (tank) della creatività. C’è stato un tempo lontano, prima del fortunato sodalizio con il brand multi-generazionale di Star Wars, in cui la compagnia svedese di costruzioni non solo per bambini aveva giurato di fare il possibile per: “…Non essere associata a stili di gioco che glorificano i conflitti o lo spargimento di sangue di alcun tipo, pur riconoscendo la capacità dei bambini di distinguere il gioco dalla realtà.” E in effetti, avete mai visto un jet militare, un elicottero, un carro armato fatto di Lego? Certo che si. È semplicemente impossibile stemperare la metafora del conflitto dall’animo umano, non importa quanto si è giovani e innocenti. Si potrebbe persino affermare… Il contrario. A meno che si stia effettivamente parlando dell’operato del nostro Sariel, celebre esperto polacco che ha associato la sua produzione a una particolare serie di costruzioni cosiddette “per giovani adulti”. Le Lego Technic note per l’ampia selezione di ingranaggi, cremagliere, motorini elettrici e funzionalità avanzate. Come i telecomandi. Difficile, a quel punto, allontanare la propria mente dal proposito di costruire una riproduzione in scala dei propri veicoli preferiti. E caso vuole che a lui, più di ogni altra cosa, piacessero i carri armati.
La visione di questo Mark V che avanza maestoso sul parquet del salotto, superando ostacoli come libri, assi inclinati e fortificazioni occupate dall’agguerrito criceto di casa evoca immagini di un importante momento tecnologico, in cui venne raggiunto probabilmente l’apice della filosofia di sviluppo inglese alla base della nave di terra (la Landship) il veicolo che avrebbe annichilito l’importanza primaria delle trincee nella prima guerra mondiale. Era un’esigenza profonda nata dal senso stesso del conflitto bellico che stava tenendo bloccato il mondo, e che nell’idea dei suoi principali promotori tra cui lo stesso Winston Churchill, all’epoca maggiore al comando degli Ussari di Sua Maestà, doveva cancellare quello spazio invalicabile che era la terra di nessuno, le centinaia o migliaia di metri, che separavano una lunga buca dall’altra, dove vigeva soltanto la regola orribile della mitragliatrice. Fu quindi determinato in terra d’Albione, con largo anticipo sull’offensiva di Somme lungamente progettata da inglesi e francesi contro il dilagante impero tedesco, che tutto quello che serviva era un grosso apparato corazzato semovente che fosse in grado di abbattere il filo spinato, assorbire il volume di fuoco delle armi leggere ed offrire copertura di prima scelta alla fondamentale, benché vulnerabile fanteria. Nonché ovviamente, rispondere al fuoco. La prima epoca del progetto fu portata a compimento grazie all’opera, principalmente, di un comitato guidato dai tenenti Walter Wilson e William Tritton operante nel corso dell’estate del 1915, per cui venne coniato il nome in codice di tank. Fu dopo tutto, la loro prima creazione dal nome di Little Willie, una sorta di contenitore, o per meglio dire una scatola perfettamente squadrata in grado di spostarsi alla vertiginosa velocità di 2 Km orari (escluso il peso dell’armatura, che non fu mai montata). Ben presto ci si rese conto, tuttavia, come un simile approccio al design sarebbe stato del tutto incapace, una volta raggiunta la trincea nemica, di uscirne nuovamente fuori e continuare la propria importante funzione strategica sul campo di battaglia. Prima della fine di quell’anno, dunque, il design originario fu sostituito da una scocca vistosamente romboidale, con i cingoli che risalendo sulla parte frontale gli avrebbero permesso di fare presa in molte impossibili situazioni. Il suo nome era Mother e in effetti, di lì a poco avrebbe dato i natali ad un’ampia serie varianti, di “marchi” numerati dall’uno al dieci, destinati a diventare una vista comune sui campi di battaglia di ciò che restava della terribile grande guerra. Ma nessuno immaginava, realmente, dove si sarebbe arrivati di lì ad appena 25 anni, dopo la duratura, ma instabile e insoddisfacente pace che era stata imposta dai vincitori con il trattato di Versailles.

Leggi tutto