Pilota veterano spicca il volo grazie all’autorotazione

Ken Wallis Flight

L’avevano chiamato pazzo e invece, guarda qui, adesso! No, non lui. Questo è Ken Wallis, beneamata personalità dell’aviazione inglese impegnata in uno dei suoi celebri voli della terza età, decollando ben oltre il confine dei 90. Stavo parlando invece di Juan de la Cierva, l’uomo che nel 1923 ebbe ad inventare questa particolare classe di velivoli, i primi a compiere dei voli significativi grazie allo strumento di un’ala rotante. Che non erano, in alcun senso immaginabile del termine, degli elicotteri: in primo luogo perché le pale del rotore principale, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non erano motorizzate. Da cui il nome: autogiro, benché l’amore moderno per i termini immediatamente comprensibili ci abbiano portato a ribattezzarli, in epoca più recente, come girocotteri. Ma ciò è molto meno descrittivo. E soprattutto, ingiustificatamente derivativo da quell’altro tipo di ventilatore volante, a noi molto più familiare. Mentre tre prototipi successivi di quell’epoca, C1, C2 e C3, assomigliavano piuttosto a degli aerei, con elica di trascinamento (ovvero, posizionata davanti) ali convenzionali dotate di superfici di controllo ed in AGGIUNTA, come una sorta di optional bizzarro, l’elica posizionata parallelamente ad esse, che aveva uno scopo ben preciso ed in un certo senso, persino evidente: impedire lo stallo dell’apparato volatore. Come mai, tanta preoccupazione? Tutto aveva avuto inizio nel ’21, quando l’ingegnere aeronautico spagnolo di Murcia aveva avuto l’occasione di partecipare ad un concorso dell’esercito, per la progettazione di un bombardiere a tre posti da usare nell’allora futura, già paventata ma ancora distante, seconda guerra mondiale. Se non che il suo presunto capolavoro, durante i primi test di volo, venne fatto rallentare troppo dal pilota, che trovandosi privato della portanza, quella forza che le ali generano ricevendo un forte flusso d’aria, cadde rovinosamente giù (fato dell’individuo: a me ignoto). Il che portò de la Cierva alla comprensione di come, se soltanto avesse potuto concepire il primo mezzo volante privo di questo problema, avrebbe non soltanto reso un gran servizio all’umanità. Ma si sarebbe pure guadagnato un posto a pieno titolo nella storia dell’aviazione. Ed anche i diritti sulle concessioni del brevetto ai produttori, perché no…
Fast-forward 90 anni: chi, cosa, come? Siamo in molto pochi, temo, ad avere familiarità con simili dispositivi volanti, con la possibile esclusione di chi è un appassionato specialistico di questa specifica branca dell’aviazione, oppure i semi-giovani che ben ricordano il videogioco per Super Nintendo, Pilotwings. O ancora, tutti coloro che siano abbastanza cresciutelli, o in alternativa appassionati di cinema, da aver visto il film del 1967, “Si vive solo due volte” con Sean Connery nel ruolo di James Bond. E nel ruolo di quest’ultimo a sua volta, per lo meno in una delle scene culmine della vicenda, proprio quello stesso protagonista del nostro video di apertura, quel Ken Wallis che, pur non essendo mai stato chiamato pazzo, di folli macchine volanti se ne intende, eccome! Sopra il monte Shinmoedake nel Kyushu, un vulcano tutt’ora attivo, per ore ed ore, a bordo del suo fido Wallis WA-116 Agile dall’elica a spinta, uno dei più piccoli autogiro mai costruiti…. Proprio per questo soprannominato “Little Nellie”. L’aveva fatto lui, con le sue mani. Benché dubito che potesse essere fatto a pezzi e messo in una serie di valige, come fatto nella trama cinematografica da Q, lo scienziato variabilmente pazzo (anche lui ha le sue giornate) che lavora ormai da decadi per la versione immaginifica del MI6. E che in questo caso, ci aveva visto giusto, considerato come i girocotteri di concezione moderna presentino notevoli vantaggi, sopratutto nelle mansioni di sorveglianza che una spia potrebbe, teoricamente, trovarsi ad affrontare in terra straniera: sono leggeri, non eccessivamente rumorosi. Pur non potendo effettuare il vero e proprio volo stazionario, essi possono rallentare fino al punto che, nel caso in cui ci sia un forte vento, puntare il muso in direzione contraria gli permetta di restare pressoché fermi in aria. Ed anche questo, può servire. Essi sono, inoltre, molto più facili da pilotare dell’alternativa dotata di rotore, avendo in effetti solamente alcuni accorgimenti da tenere rispetto ad un aereo convenzionale, laddove l’elicottero, notoriamente, tende ad uccidere saltuariamente i piloti che facciano il benché minimo errore ai comandi. E poi, sopratutto: non possono entrare in stallo, ovvero perdere troppa velocità e conseguentemente, cadere. Ciò era stato dopo tutto l’obiettivo principale del suo inventore: giacché un girocottero che perda completamente il suo motore, continuerà comunque a procedere per la sua strada, e il suo rotore principale, viste le sue particolari caratteristiche aerodinamiche, non cesserà affatto di girare. Il velivolo, così, potrà essere portato a toccare terra con delicatezza successiva alla sopravvivenza. Esattamente come un aereo ed anzi, anche meglio di esso: la ridotta velocità, infatti, ridurrà di molto la probabilità d’impattare contro qualcosa di solido, come un muretto, e/o inamovibile, come una quercia. E poi, lo sapevate? Può farlo anche l’elicottero. Proprio così…

Leggi tutto

Il polpo 1200 volte più letale del cianuro

Blue Ringed Octopus

Buongiorno turista d’Australia! Come vuoi morire, oggi? Delicatamente assaggiato da uno squalo toro di passaggio, animale che notoriamente non apprezza la carne umana (ma lo scopre, il più delle volte, a smembramento già avvenuto…) Oppure masticato dal coccodrillo marino, il più grande rettile del pianeta, che non ha bisogno di scuse per far rispettare i limiti del proprio territorio? O ancora, morsicato dal ragno dei cunicoli, artropode aggressivo il cui veleno stranamente non ferisce topi, gatti, conigli e altri animali. Ma uccide un uomo adulto in 15 minuti! Ne abbiamo per tutti i gusti: morti violente, silenziose, dipartite materiali o immaginarie. Se lo preferisci, potresti addirittura fare l’esperienza di essere schiacciato dal drop bear, leggendaria versione carnivora del dolce koala, che si dice piombi sopra i viaggiatori per poi morderli alla gola e divorarli dai piedi in su. Quale miglior maniera di apprezzare il patrimonio faunistico di un paese unico al mondo, che nutrirlo in prima persona, con le proprie stesse disattente, ineducati carni. Aspetta, aspetta, ne ho una ancor migliore di così: visualizza la seguente scena. Ti trovi in spiaggia, circondato da un intero gruppo di amici. Estasiato dal Sole, dal mare, dalle molte viste affascinanti conosciute nel tuo viaggio di allontanamento dai problemi della vita. Cinque minuti prima, durante una tua passeggiata di metà pomeriggio, hai messo il piede in una pozza d’acqua rimasta nel bagnasciuga, lasciata indietro dopo l’ultimo ritrarsi della marea. Finendo per dare, accidentalmente, un piccolo calcio a una bottiglia di plastica, proprio lì gettata da un qualche altro visitatore privo di coscienza ambientale. Sul momento non ci hai fatto troppo caso. Ti sei fermato per un breve attimo, pensando forse di rimuovere l’oggetto e trasportarlo fino a un punto di raccolta. Poi hai lasciato perdere, perché? Ma circa cinque minuti dopo, d’un tratto, ti senti molto stanco. Deambulando pesantemente, raggiungi il tuo materassino e lì ti sdrai, a meno di due metri dalla gente che è venuta fin lì con te. Grosso errore. Perché allora, con un’improvvisa ed orrida realizzazione, inizi a comprendere che c’è qualcosa che DAVVERO non va. Gambe e braccia sembrano pesare come tronchi. La vista inizia ad offuscarsi. Mentre il tuo tentativo di chiamare aiuto, nonostante l’impegno, si risolve in un gemito appena udibile da neanche pochi centimetri di distanza. Quindi, nel giro di un altri due minuti, il respiro inizia a diventare laborioso e tu perdi i sensi. Non ti sveglierai mai più.
Il delitto perfetto. Ad opera di un assassino di proporzioni minutissime, che può spostarsi nell’acqua e sulla terra, per brevi tratti sufficienti a rendersi un pericolo pressoché costante. Che risulta essere tuttavia, per nostra massima fortuna, relativamente raro in tutto il suo areale d’appartenenza, benché il sussistere di condizioni particolarmente favorevoli, in determinati periodi dell’anno, possa portare a vere e proprie piccole invasioni, di interi tratti di spiaggia fra l’Australia ed il Giappone. La singola femmina di una di queste quattro specie, molto simili tra loro, può del resto fare fino a 50 uova, circa 2 anni dopo la propria nascita, prima di smettere di mangiare e lasciarsi morire. Questo vuole, del resto, la natura. E forse dopotutto è anche meglio così. Li chiamano, con piglio pienamente descrittivo, polpi dagli anelli blu (scientificamente: Hapalochlaena) e ogni bambino nato in Australia viene educato, fin dalla giovane età o al suo primo contatto con le coste sabbiose del continente, a non toccare assolutamente ciò che brilla tra la sabbia; alla maniera di una gemma preziosa di 6-8 centimetri dagli improbabili otto tentacoli sottodimensionati… Ma gli incidenti, o le casistiche davvero sfortunate, possono pur sempre capitare. Come quelle di persone, ahimè, disinformate. Mentre nel caso di un animale come questo, saper come comportarsi può salvare FACILMENTE una vita o due…

Leggi tutto

Le strane voragini tra il permafrost della Siberia

Yamal Sinkhole

L’attimo, la terra che tremò. L’aria, s’incendiò. Mentre un colpo fragoroso, come l’esplosione di una bomba dal potenziale misurabile in diversi megatoni, risultò udibile fino a 100 Km di distanza, tra le rustiche case degli allevatori di renne della penisola di Yamal, il cui nome significa letteralmente: la terra alla fine del Mondo. Un’appellativo di natura soprattutto geografica, visto come tale striscia soltanto in parte abitabile, posizionato tra la baia di Baydaratskaya nel mare di Kara ed il golfo di Ob, veda la sua parte settentrionale estendersi nelle propaggini più estreme del Circolo Polare Artico, dove i grandi orsi e le foche costituiscono le uniche forme di vita in grado di prosperare al di sopra della superficie dell’Oceano. Ma che potrebbe presto diventare un vero ammonimento letterale, rivolto ai popoli del pianeta e col supporto dei fatti attualmente già verificatosi. Sul fato deleterio che ci attende tutti quanti, prima o poi, a meno che non sopraggiungano elementi nuovi di giustificazione o un radicale cambio di stile di vita. In un luogo che non ha nome, se non nella tradizione orale di chi vi transita da immemori generazioni, verso l’inizio dell’estate del 2013, è così comparso un buco. Dalle notevoli caratteristiche geometriche: 70 metri di diametro, 50 di profondità, con una forma regolare che poteva far pensare ad un impatto meteoritico, o all’esplosione di un ordigno posizionato dall’uomo. Ma i diversi team di scienziati sia americani che russi, che negli ultimi anni si sono dati il cambio nell’analizzare l’incomprensibile nuova caratteristica del territorio, non hanno trovato i segni che avrebbero dovuto giustificare l’una o l’altra ipotesi. Semplicemente, innumerevoli tonnellate di terra sono state improvvisamente scaraventate verso l’alto, ricadendo in giro per la tundra anche a molti chilometri di distanza. È come se il suolo stesso fosse essenzialmente, esploso.
Ma la storia non finì lì. Negli ultimi tre anni, da un estremo all’altro di una tale terra desolata, giunsero numerose altre testimonianze di simili eventi: almeno altri tre grandi crateri, oltre ad un numero attualmente stimato tra i 20 e i 30 dalla posizione ignota, forse più piccoli ma comunque sufficienti ad inghiottire un pastore, la sua slitta e l’intero gregge delle renne che lo stavano seguendo fino al pascolo distante. Nel giro di pochi mesi dalla loro formazione, quindi, simili depressioni tendono a riempirsi d’acqua diventando a tutti gli effetti indistinguibili da elementi paesaggistici più convenzionali. Eppure, per chi ne conosce l’origine, essi appaiono meritevoli di guadagnarsi quell’appellativo spesso impiegato più a torto che a ragione, di “Porta dell’Inferno” quasi come le anime dei trapassati gridassero con furia dai recessi umidi tra le pareti ripide e scoscese. Mentre sia il Vladimir Pushkarev, direttore del Centro Russo per l’Esplorazione dell’Artico, che il Prof. Julian Murton dell’Università del Sussex, che in prossimità di simili recessi ha guidato più di una spedizione con partecipazioni internazionali, hanno rassicurato il mondo facendosi calare nei reconditi anfratti, e garantendo quindi che: “Non c’è alcun pertugio che s’inoltra nelle viscere della Terra, in fondo a questi fori. Tutto finisce ove può spingersi l’occhio umano.” Il che, nel risolvere un mistero, ne creava un’altro: in assenza di punti di sfogo dalla natura vulcanica o misteriosa, che cosa dunque avrebbe dovuto causare il crearsi di un tale grande vuoto? Le possibili risposte fornite a margine sono state molto diverse. Ma ce n’è una, in particolare, che sembra la più probabile…

Leggi tutto

Chi misura gli alberi più alti al mondo

Big Lonely Doug

Dietro un record significativo c’è (quasi) sempre una grande storia, e questo tanto maggiormente vero nel caso di un categoria da guinness, forse meno immediatamente spettacolare de “la creatura più veloce” o “l’uomo più forte del mondo” eppure straordinariamente importante per giungere a una comprensione più profonda del nostro pianeta. Perché risponde a una domanda d’importanza fondamentale: fino a che punto può spingersi la natura, nel rendere imponente e duraturo un solo, gigantesco essere? In se stesso dotato di ogni presupposto a sopravvivere per molte interminabili generazioni, ed al cui confronto noi effimeri camminatori del terreno non possiamo che esprimere la nostra riverenza, per venerarne ad un livello istintivo lo spirito prezioso ed antico… E la ragione di una simile avventura? Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è affatto facile assegnare un numero all’immenso, per quanto immobile e del tutto privo d’intenzioni. O per lo meno, è difficile farlo in maniera precisa. Voglio dire, provateci! Simili alberi massivi crescono, generalmente, in luoghi estremamente remoti, o in altri termini abbastanza scomodi perché, nelle generazioni, nessuno si sia mai preso la briga di buttarli giù, con l’obiettivo di creare gigantesche navi o la struttura d’edifici di ogni tipo. Non è quindi possibile sfruttare punti di riferimento, con la finalità di fare, per così dire, ad occhio. Né la soluzione più tecnologicamente moderna, dell’impiego di un sistema di misurazione laser, sortisce facilmente l’effetto desiderato, visto come la cima tenda ad oscillare nel vento, i rami siano molteplici e l’ottenimento di una misurazione oggettivamente corretta, anche per questo, estremamente passibile d’errori. Così alla fine, non resta che un’unica possibile soluzione: armarsi e partire.
Come fatto da questo team formato da vari individui dell’Arboreal Collective e dell’Ancient Forest Alliance, entrambe organizzazioni con sede nella Columbia Britannica, al fine di cementare, ed iscrivere nei libri mastri, la scoperta di “Big Lonely Doug”. Un abete. Non esattamente uguale a quello che avete addobbato in occasione del Natale scorso: se questo fosse un edificio, avrebbe almeno 15 piani. E la circonferenza del suo tronco è tale, che se un’automobile con quattro porte dovesse mettersi a girargli attorno, essa sparirebbe pressoché immediatamente dalla vostra vista. Queste sono, per intenderci, le dimensioni di cui stiamo parlando. 66 metri d’altezza, 4 di larghezza. Una vera enormità. E dire che l’antico vegetale, sito nel bel mezzo dell’isola di Vancouver, non è nemmeno vicino ad essere il più grosso del mondo sotto alcun parametro, venendo facilmente superato da almeno un suo simile alto quasi il doppio, laggiù nella contea di Coos nell’Oregon, per non parlare di tutti gli altri appartenenti ad una lista che viene ogni anno pubblicata, documentata ed aggiornata, con al suo interno la più vasta selezione di arbusti dell’America Settentrionale, australiani ed appartenenti ad ogni recesso geografico dell’area dei Tropici. Già, ma misurati COME? Salendoci sopra, se proprio volete saperlo! Il sistema più efficace, “semplice” ed a prova d’errori: un coraggioso, scelto tra i più agili del gruppo, dovrà premurarsi di lanciare a grande altezza un tenue e lungo filo, con un contrappeso alla sua estremità. Quindi mettersi a tirare quella cosa giù dall’altra parte, ma non prima di averla assicurata ad una corda da alpinismo, che egli impiegherà, secondo i suoi metodi e ritmi, per giungere fino alla cima della foresta e del mondo. E tutto questo, con la sola finalità di ritrovarsi da solo, lassù, una mano saldamente stretta al più solido ramo del circondario. Ed un altra, che stringe saldamente un nastro di misurazione, la cui estremità crescente dovrà essere gettata giù. Ottenendo, finalmente, una lettura in chiari metri dell’originale senso di stupore e meraviglia. Ed è proprio così, alla fine, che qui nasce una leggenda.
L’impresa relativa a questo particolare abete di Douglas, che viene definito il secondo più alto del Canada, non è del resto neanche tra le più incredibili. Ma soltanto una delle meglio documentate su YouTube. Gli alberi della specie Pseudotsuga menziesii, infatti, sono estremamente resistenti, rapidi nella crescita e vivono fino a 1.000 anni. Il che significa che essi attraversano, nel corso della loro vita, un’ampia serie di cambiamenti, tra cui il processo di auto-potatura dei rami più bassi per ottimizzare il proprio dispendio di energia. Raggiunto il secolo d’età, quindi, essi presentano uno spazio di circa 10 metri da terra, in cui l’unico appiglio offerto agli aspiranti scalatori è il tronco nudo dalla ruvida e sugherosa corteccia. E gli ostacoli si moltiplicano, con il distanziarsi del soprastante obiettivo…

Leggi tutto