Un lupo, un ghiottone e un corvo entrano in un bar…

Avete mai osservato uno scenario naturale talmente perfetto ed interessante, così esteticamente raffinato, da assomigliare in ogni suo possibile dettaglio alla scena d’apertura di un film? Il misterioso utente di YouTube AJ Survey, paese di residenza la penisola della Chukotka, sembra averne postati diversi sul suo canale, grazie all’evidente combinazione d’istinto, ottimi strumenti fotografici ed il fascino di un territorio tanto diverso da ogni altro del nostro pianeta. Così ricorrono, nelle sequenze registrate da costui, le variegate figure di tre protagonisti particolarmente eterogenei, almeno in apparenza uniti dalla condivisione del proprio destino. Il più grande lo conosciamo particolarmente bene, poiché altro non è che l’antenato selvatico, geneticamente quasi indistinguibile del Canis lupus familiaris rimuovendo la penultima delle parole, per tornare all’archetipico nemico e divoratore dell’ingenua trasportatrice di cestini attraverso la foresta delle fiabe a noi più note. E togliendo anche quest’ultima, per non parlare della tecnica del branco almeno in molte circostanze, poiché forse a queste latitudini trovare il cibo è sufficientemente arduo per un singolo individuo, senza doversi preoccupare dell’ordine sociale dei propri simili & compagni. Al punto che la propria controparte operativa, tanto spesso, è rintracciabile nella figura simile ma diversa del Gulo gulo alias ghiottone o volverina, unico rappresentante del suo genus ma parte inscindibile della vasta famiglia dei mustelidi, di cui costituisce il più grande e pericoloso. Creatura carnivora certamente più piccola del lupo, ma altrettanto forte e forse ancor più ardua da soverchiare, come esemplificato dal suo morso temibile, capace di abbattere senza particolari difficoltà esseri della dimensione di un cervo ed un caribù. Tanto che in normali circostanze, mai e poi mai verrebbe in mente al canide di disturbarlo, se non fosse per il demone che induce in tentazione, occhi attenti ed ali dalle piume nere, interpretato nelle circostanze da un massiccio esemplare di Corvus corax (c. imperiale) che poggiando silenziosamente i propri piedi sulla neve intonsa, punta il proprio becco all’indirizzo del pegno di turno, osso chiaramente rimanente dall’ultima vittima del ferocissimo tasso delle nevi. Al che tensione, pericolo e una certa suspense, mentre il canide si allunga da lontano, per stringer tra le fauci un tale pegno prima che il rivale possa intercettarlo, facendo quindi una rapida inversione di marcia, prima di discendere dalla collina a gran velocità. Ma non fa in tempo, il nostro amico non-più-fido a ritrovarsi solo col maltolto, che l’alato messaggero giunge presto a disturbarlo, accompagnato da una coppia d’aiutanti dalle simili persuasioni corvine. Così si trova perpetrato, giorno dopo giorno, un sistema trofico chiuso e remoto, che vede frequente l’interazione delle tre creature, ciascuna a suo modo posta a suo modo in cima alla catena alimentare poiché priva di nemici in grado di arrecargli un qualsivoglia tipo di danno (fatta eccezione, ovviamente, per l’uomo). Situato molto appropriatamente presso le propaggini orientali del continente eurasiatico, dove i continenti sono prossimi a incontrarsi così come le ideologie e culture idealmente in contrapposizione di Russia e Stati Uniti. Per i quali fortunatamente, attraverso le generazioni e ancora adesso, manca da sempre la figura potenzialmente problematica di un corvo che sussurri soluzioni dall’economia ostile…

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Il villaggio intrappolato dal potente soffio dell’Inverno

Mentre il ciclo delle stagioni procede nel suo incedere nella più assoluta indifferenza alle tribolazioni umane, invisibili titani si risvegliano dal sonno millenario, seguendo e anticipando i lenti movimenti delle nostre aspettative. Sono i fronti d’aria calda e fredda, che s’intersecano sopra zone d’interesse, al confine tra i diversi insediamenti e nelle zone d’interesse, per procedere nell’assoluta marcia delle loro conquiste terrene. Ultima vittima: la spiaggia di Hoover presso il piccolo paese di Hamburg, sulle coste del lago Erie nello stato americano di New York. Ai confini di un sistema d’acqua dolce tra i più vasti della Terra, che in funzione di una simile caratteristica, presenta innata propensione a trasformarsi in ghiaccio, non appena le temperature scendono al di sotto dello zero. E questo, a quanto sembra, è normalmente un bene, come hanno scoperto i pochi abitanti invernali dell’insediamento, normalmente usato come luogo di villeggiatura, nel momento del risveglio avuto giusto al termine di questo febbraio 2020, accompagnato dalla strana consapevolezza che l’astro solare, per qualche ragione, dava l’impressione di non essere salito al di sopra dell’orizzonte. Se non che recandosi alla finestra più vicina, essi ebbero la consapevolezza che un qualcosa, come un velo impenetrabile, ne aveva incapsulato l’abitazione, così come l’essenziale porta, tirando e spingendo, non sembrava muoversi di un singolo millimetro. Così molti tentativi, ed enfasi possente, diventarono la prova necessaria per uscire a rivedere il cielo, dall’interno di quel che si era trasformato nella più perfetta manifestazione architettonica della valle del Cocito, quinto ed ultimo dei fiumi infernali.
Gelo, freddo, glaciazione. Nessun tipo di espressione d’uso comune può arrivare a descrivere semplicemente quello che le telecamere delle principali Tv locali si sono affrettate per andare a riprendere, consistente essenzialmente nella copertura integrale di ogni superficie, incluse quelle verticali, da uno strato candido d’impenetrabile acqua congelata, ricoperta di strani bitorzoli e pendule stalattiti. Per l’effetto, contrariamente a quanto titolato dai maggiori quotidiani, non tanto dalla “Magia compiuta dall’inverno simile a quella del film Frozen” quanto a un effettivo fenomeno atmosferico dalle conseguenze spesso gravi, definito in gergo tecnico la glaciazione da effetto lago. Il cui principio, se approcciato con la razionalità opportuna, apparirà tutt’altro che inaudito, bensì frutto della conseguenza totalmente logica degli eventi: 1 – Fronti d’aria fredda si spostano, per l’effetto dei venti, sopra una grande massa d’acqua; 2 – Il calore e l’umidità dell’ambiente sottostante causano la condensazione, e successivo incorporamento, di grandi quantità di liquido all’interno delle nubi; 3 – Quest’ultime, sospinte ulteriormente innanzi, raggiungono il clima continentale dell’entroterra, scaricando spesso copiose quantità di neve; ma ora immaginate la stessa cosa velocizzata di svariate centinaia di volte, causa l’insorgere di una tempesta sufficientemente forte da spingere quantità ingenti d’acqua direttamente a congelarsi sulle case stesse. Con l’effetto di creare la versione più terribile, e inerentemente minacciosa, dell’ideale concetto di una Winter Wonderland…

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Le profonde radici di Macquarie, isola che perfora la crosta terrestre

Esattamente in corrispondenza dei Cinquanta Ruggenti, latitudine superiore persino a quella di Capo Horn per forza, imprevedibilità e pericolosità dei venti, c’è un punto in cui le correnti deviano ed il flusso d’aria subisce un’improvvisa suddivisione. Tutto questo in forza di una terra emersa lunga 35 Km, la cui collocazione corrisponde grossomodo al punto intermedio tra i due continenti d’Australia e dell’Antartide, ove le foche prendono il sole, i pinguini si moltiplicano e gli uccelli migratori si fermano per riposare. Il suo nome: Macquarie, da quello del governatore del Nuovo Galles del Sud al momento della sua scoperta, nel 1810. Eppure, per una volta, non è la popolazione di questi ultimi a ricevere le principali attenzioni del mondo scientifico, benché in questi luoghi sia presente la minaccia di popolazioni di ratti e conigli portati qui due secoli fa dai cacciatori di balene. Bensì la natura geologicamente unica di questo luogo, la cui stessa formazione, per un tempo quasi equivalente, ha saputo sfidare le principali ipotesi dagli scienziati del settore. Collocata in corrispondenza della dorsale oceanica all’incontro tra le placche Indo-australiana e quella del Pacifico, l’isola sembrava totalmente priva di attività vulcanica o tellurica tale da lasciar emergere il suo suolo, di composizione lavica, oltre i 2 Km di oceano che si estende verticalmente tra il fondale e la superficie. Almeno finché non si ebbe l’occasione di scoprire, sotto lo strato di sedimenti risalenti al Miocene (23-5 milioni d’anni a questa parte) formazioni rocciose perfettamente in linea con l’aspetto dei cosiddetti basalti a cuscino, spesso associati alla formazione di un’ofiolite. Dicesi affioramento roccioso spinto dalle inusitate pressioni sotterranee, attraverso letterali migliaia di secoli, fino a materializzarsi la ove potesse, in qualche modo, raccogliere la luce dei cieli. Il che significa, in altri termini, che questo luogo è il probabile prodotto dello stesso mantello terrestre, ovvero uno dei pochi luoghi in cui è possibile osservare con i propri occhi le viscere stesse, crudelmente esposte agli elementi, della nostra Terra generatrice.
Le implicazioni di tutto questo, in prima analisi, potrebbero non risultare evidenti. Simile per composizione paesaggistica ed elevazione alla vicina Tasmania, benché totalmente priva di vegetazione ad alto fusto a causa del suo clima rigido e il continuo battere dei venti, l’isola presenta per le menti interessate l’occasione di studiare da vicino l’effettiva composizione degli strati sottostanti all’involucro geologico sopra il quale, normalmente, siamo soliti poggiare i nostri piedi. Con una varietà di tipo geologico capace di mostrare, a profondità zero, rocce normalmente rare come particolari formazioni di doleriti, troctoliti, harzburgiti, duniti e peridotiti, normalmente parte di un colonna sotterranea irraggiungibile senza l’impiego di trivelle. Il che ha giustificato, a partire dal 1997, all’iscrizione di un simile luogo all’elenco dei patrimoni naturali dell’UNESCO, anche grazie ad una rara conservazione pressoché perfetta dello spazio geologico, soprattutto causa la collocazione remota e irraggiungibile di questo luogo. Attenzione certamente non intenzionale, e d’altra parte, incapace d’estendersi all’effettiva sopravvivenza dei suoi più antichi, pennuti abitanti…

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Ma la Cina ha davvero inviato 100.000 anatre guerriere contro le locuste pakistane?

Un antico modo di dire cinese recita, all’indirizzo del proprio nemico, la terribile maledizione: “…Che tu possa vivere in un’epoca DAVVERO interessante” e non ci sono dubbi che volendo analizzare questo inizio di 2020, l’attuale situazione umana sia perfettamente in linea con un simile anatema. Abbiamo già avuto, nell’ordine: prove tecniche di guerra mondiale, la peggiore pandemia degli ultimi 100 anni, capace a sua volta d’inasprire la latente crisi dell’economia globale, un principino che ha lasciato la famiglia reale (tipico stereotipo delle profezie di Nostradamus) e la cosa più vicina a un’invasione aliena che sia lecito aspettarsi nel procedere insicuro della storia. Già, 400 miliardi di locuste, le creature che dal nulla sorgono per cavalcare i venti, con inenarrabile irruenza, minacciando di fagocitare ogni risorsa agricola sul passo della loro meridiana. Così che all’inizio della settimana scorsa non furono in pochi a sollevare un sopracciglio, leggendo l’apparentemente improbabile notizia che la Terra di Mezzo, proprio quel paese ove ogni fibra del destino parrebbe intenta a convergere, stava per schierare un intero esercito a vantaggio del proprio vicino il Pakistan, attualmente minacciato dalla più probabile e devastante crisi alimentare a memoria d’uomo. Un’armata composta, tuttavia, non da uomini e i loro bagagli, bensì il più implacabile prodotto dell’evoluzione insettivora: l’anatra di Pechino, in numero di 100.000, schiera dopo schiera di candide divoratrici, pronte a fare scempio, in linea di principio, delle insettili divoratrici/saltatrici. Un’idea non soltanto già utilizzata, a quanto pare con successo (nel 2000 per contrastare uno sciame che si era formato nella regione autonoma dello Xinjiang Uygur) ma capace d’incarnare ogni possibile vantaggio ragionevole dettato dalle circostanze: la anatre sono infatti mansuete, gregarie e quindi facili da controllare, estremamente voraci con la loro capacità di fagocitare 200/250 locuste al giorno ciascuna e soprattutto valide a esser convertite in ottimo cibo, a loro volta commestibile, una volta che la crisi sarà stata finalmente risolta. Nell’esecuzione del progetto delineato, secondo la prima versione irradiatosi a ondate memetiche a partire dal notiziario serale della Ningbo Tv, da una speciale task force costituita dal governo cinese al fine di elaborare metodi preventivi all’ulteriore diffusione di quella che potrebbe costituire, in ultima analisi, la più grave catastrofe del corrente, memorabile inizio d’anno bisestile. Un metodo tradizionale secondo quanto riportato dallo stesso capo dell’operazione Wang Fengle, già utilizzato al fine di annientare passati episodi verificatosi all’interno dei confini del suo stesso paese e che proprio per questo, nell’opinione pubblica fatta patriotticamente rimbalzare da un’angolo all’altro del social network Weibo, sembrava aver colpito in maniera significativa l’immaginazione dell’intero popolo d’internauti cinesi, permettendo, presumibilmente, ai pakistani di tirare un ragionevole respiro di sollievo. A meno finché a qualcuno, nel giro di una ragionevole manciata di giorni, non è venuto in mente di mettere in fila una ragionevole serie d’osservazioni…

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