La palma che ha unto i naturali meccanismi del mondo

Quando l’Agnello sciolse il primo dei sette sigilli, vidi e udii il primo dei quattro esseri viventi che gridava come con voce di tuono: «Vieni». Ed ecco mi apparve un albero di palma e da esso pendevano frutti rossi. Quindi gli fu data una corona e poi esso crebbe vittorioso, per crescere ancora. Terribile verità: non tutte le Apocalissi si presentano inizialmente come tali. Vi sono circostanze, o sequenze di eventi, che appaiono benevole sott’ogni possibile aspetto; finché non monta il serpeggiante sospetto, da parte dei soggetti a tale iniqua negazione dell’essere, che ogni cosa abbia smesso per andare verso il bene. Ed è allora, in genere, troppo tardi per imboccare la strada del ritorno. Sappiate dunque oh poveri umani, che il nome era è resta Elaeis guineensis, sebbene non sia questa l’unica, tra tutte le piante appartenenti alla famiglia delle Arecaceae, ad essere sottoposta ad un processo di spremitura dei propri frutti e la stessa sommità del tronco, finalizzati a creare un ulteriore, semi-trasparente tipo d’oro dei nostri tempi. Ovvero olio, ottimo tra gl’ingredienti, risorsa utile non solo per cucinare, ma anche creare un’amalgama, donare consistenza, far spostare i veicoli alimentati a biodiesel. Particolarmente a partire dal fatidico 2007, quando gli Stati Uniti vararono la fatale legge per l’Indipendenza Energetica e la Sicurezza, finalizzata a liberare per quanto possibile l’industria dei trasporti dalla dittatura economica del petrolio mediorientale, riconosciuta come un punto di svolta nella diffusione su larga scala della monocultura intensiva finalizzata alla produzione dell’olio di palma.
Un fenomeno che getta le sue più profonde radici, tuttavia, nei trascorsi della gastronomia salutista a partire dalla metà degli anni ’90, quando fu determinato improvvisamente come il principale antidoto all’obesità e il colesterolo globale, la margarina che aveva sostituito il burro in molti ambiti della produzione su larga scala di cibo, potesse in realtà esser ancor più lesiva ai danni del nostro organismo già in fase borderline. Ciò in funzione della genesi insospettata, durante la processazione dei suoi ingredienti di origine vegetale, di una grande quantità di acidi grassi insaturi, normalmente chiamati in lingua inglese trans fats. Venne così l’irripetibile giorno, in Europa e negli Stati Uniti, in cui tutte le fabbriche di cibo in scatola, dolci, cioccolatini spensero per un’intera giornata le proprie catene di produzione. Affinché l’intero contenuto delle vasche di preparazione potesse essere sostituito dalla nuova, mistica sostanza. Caratteristica dei demoni è quella di avere molti nomi e sotto questo punto di vista, l’attraente fluido ricavato dal frutto di un tale albero non fa certo eccezione: oltre 200, ne possiede, molti dei quali poco più che un numero accompagnato ai termini “emulsificatore” o etilene-glicolo” e soltanto il 10% dei quali contenenti il termine chiarificatore di “palma”. Il che fa testo non soltanto per quanto riguarda il recente ma enfatico intento di nascondere la sua presenza in determinati prodotti al grande pubblico, ma soprattutto l’inerente straordinaria versatilità di un simile ingrediente, che arriva persino ad essere usato anche al posto del sego di origine animale in un grande numero di saponi e detersivi. In un’alone di segretezza che trova la sua principale ragione d’esistenza nella percezione vaga, riuscita a permeare il senso comune, che l’olio di palma sia un Grande Male dei nostri giorni, sebbene siano sorprendentemente poche, le persone che giungano in fin dei conti ad interrogarsi sull’effettivo perché. Questo nonostante i tre paesi che vantano il più intenso effetto deleterio nei confronti dell’effetto serra siano i due più vasti e industrializzati della Terra (Stati Uniti e Cina) subito seguiti dalla relativamente rurale, non troppo avanzata nazione isolana dell’Indonesia. Non per il fumo costante proveniente da un certo numero di ciminiere, bensì tutt’altro tipo di fuoco, probabilmente destinato a non spegnersi fino all’ultimo dei nostri tragici giorni…

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Un altro anno di animali per il tronco più affollato della Pennsylvania

Possa la mia storia essere la prova. Di come la morte non debba necessariamente corrispondere, in natura, alla fine dei processi che coinvolgono l’essenza di una singola entità vivente. E la rete di collegamenti ed interconnessioni, che unitariamente la collegano alle collettività distinte di uno specifico contesto d’appartenenza. Come caddi, un giorno ormai distante, lungo il corso di un torrente nell’ombroso stato di Keystone. Pino della Virginia, vecchia quercia, ginepro, noce americano o ippocastano: chi riesce più a ricordarlo, ormai? In un luogo variegato come può esserlo soltanto il continente paleartico, tanto vasto e incontaminato da aver mantenuto in tempi non sospetti la definizione di “Nuovo” mondo. Patria di animali variegati ed animali molto noti, in quanto simboli dal canto loro di una sovrapposizione non del tutto conclusiva tra gli spazi dell’uomo e quelli dedicati a loro. Un tronco messo di traverso, pensa, lungo il corso di quello che scorre da una fonte fino alla destinazione marittima o lacustre; nient’altro che detriti da rimuovere per garantire l’ottima risoluzione di un imprevisto. Eppure per uccelli, orsi, felini e altri mammiferi, ciò può essere l’inizio di un servizio utile per la comunità indivisa. Il ponte, semi-permanente, verso l’altro lato delle circostanze…
Quanto state per vedere (o forse, avete già guardato) proviene da una volutamente non meglio definita “zona montana” nella parte nord-est degli Stati Uniti, benché l’utente di Reddit OldCoaly sembri averla identificata con successo come l’area di conservazione naturale WMU 4D, non troppo lontano dalle cittadine di Williamsport e State College, chiamata in questo modo per l’indubbio onore di ospitare la sede principale della sola ed unica università della Pennsylvania. I cui frequentatori e professori condividono, come coscienza collettiva, questa sensazione di essere vicini al nesso e il cardine del centro incontaminato di un’intera biosfera, come testimoniato dalla frequente occorrenza d’incontri con coloro che l’avevano occupata per primi. Un’occasione geograficamente rara, dunque, quella colta in modo tanto spettacolare da Robert Bush Sr, titolare ed unico amministratore del canale di YouTube Bush’s Pennsylvania Wildlife Camera, basato su una premessa semplice quanto davvero affascinante: offrire al grande pubblico l’occasione di conoscere le spettacolari immagini raccolte, attraverso il trascorrere dei mesi, da una serie di videocamere disposte in luoghi strategici attraverso il grande verde della regione che ospita la sua casa. Nessuno tanto valido e funzionale, ad ogni modo, quanto quello del succitato torrente, proprio nel luogo in cui tutti, nessuno escluso, paiono aver identificato l’arteria stradale verso l’irrinunciabile soddisfazione quotidiana. Ed è un appello che sarebbe degno della Vecchia Fattoria se soltanto tale canzone, piuttosto che al mondo degli animali addomesticati, fosse dedicata ai loro simili al di là dell’alto muro dove inizia l’assoluta libertà operativa e situazionale. Certo è che, d’altronde, fa una certa impressione osservare un consorzio tanto variegato di creature, spesso nemiche tra di loro, che occupano a turno gli stessi pochi metri di foresta…

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La favolosa corsa sull’acqua dello svasso americano in amore

Eleganza, prestigio, tradizione. Di un antico rituale che sin da tempo immemore, è stato tramandato da una lunga dinastia. Il che non significa, d’altronde, che l’espressione e la creatività personale non trovino alcun posto, nella messa in pratica da parte degli uccelli candidi che si esibiscono ogni anno ad aprile. E fino al mese di giugno, una coppia alla volta, percorrono agilmente l’increspata superficie dei maggiori laghi americani. Non volando a bassa quota, come sono soliti fare nei momenti in cui hanno l’intenzione di spostarsi da un luogo all’altro; né nuotando o galleggiando in superficie, metodo più che altro utile a trovare qualche meritato attimo di riposo. Bensì correndo in modo verticale sulle zampe, che potremmo definire posteriori se non fossero le uniche a disposizione, dell’uccello che proprio da tale propensione sembrerebbe prendere il nome. Svasso, “lo sguazzatore” nell’arcaico dialetto romagnolo, mentre il nome anglosassone grebe parrebbe provenire dal termine bretone che vuole dire “pettine” in riferimento all’alta cresta erettile di colore scuro sulla sua testa. Termine quest’ultimo, che ritroviamo assai più spesso riferito alla particolare specie qui mostrata dell’Aechmophorus occidentalis, diffuso in colonie di centinaia d’esemplari nell’intera parte ovest degli Stati Uniti. Dove il suo particolare stile usato nel periodo dei corteggiamenti, differente dalle comunque notevoli sceneggiate dei cugini europei, lo vede eseguire un’acrobazia inerentemente appropriata alla figura veneranda del divino Salvatore: camminare sull’acqua, un miracolo piuttosto semplice. Quando si dispone della forma fisica ed il peso ridotto di creature come queste, lunghe 55-75 cm e con un peso massimo di appena 2 chilogrammi. Senza nessun particolare dimorfismo tra il maschio e la femmina, sebbene esista una specie cognata che può trarre l’ornitologo in inganno, data l’inerente somiglianza in ogni aspetto tranne le dimensioni leggermente inferiori e la scurezza del piumaggio in corrispondenza delle ali. Mentre uguale resta, per tale A. clarkii, l’abitudine a praticare il podismo super-acquatico, nel momento fatidico della sua storia riproduttiva annuale. In quella che viene definita dagli etologi una vera e propria cerimonia, per la ripetizione di una serie di gesti e movimenti chiaramente sempre identici, facenti parte delle cognizioni ereditarie possedute in potenza fin dal momento in cui l’uccello fuoriesce dall’uovo.
Si comincia, in genere, con un richiamo ripetuto e squillante, finalizzato a segnalare ai propri simili che la sfida è prossima a cominciare. Una volta che i maschi si ritrovano assieme, e le femmine riunite in cerchio a guardare, le coppie di pretendenti si mettono fianco a fianco ed uno di loro solleva prima il lungo collo da cigno, quindi il corpo intero. Iniziando a muovere con precisione consumata i suoi piedi palmati, mentre accelera rapidamente verso l’orizzonte e di nuovo in senso contrario. La controparte, ben presto, inizia a seguirlo sincronizzando i propri movimenti fino al benché minimo dettaglio, mentre i due fanno a gara per vedere chi riesce ad andare più lontano, o alternativamente riesce a proseguire più a lungo la stancante attività fisica. Una volta che le potenziali partner hanno fatto la propria scelta, si esegue a questo punto una corsa finale i cui due membri sono i novelli innamorati, pronti a passare alla seconda parte della loro ben precisa cerimonia nuziale. Chiamata per l’appunto “rito delle alghe” in quanto consiste nel tuffarsi ripetutamente sott’acqua, per offrire vicendevolmente al partner piccoli ciuffi di materiale erboso, che viene successivamente rigettato da una parte con un elegante movimento del lungo becco appuntito. Un passaggio potenzialmente finalizzato a dimostrare in potenza l’abilità dei membri della coppia nell’imminente costruzione del nido tra le canne e la vegetazione lacustre ripariana. Verso l’ottenimento di uno stato di grazia e soddisfazione familiare, che culmina generalmente con la deposizione di 3-5 uova bluastre, destinate ad essere covate a turno da entrambi i genitori. Mentre l’altro, dimostrando il suo altruismo, si occupa di procacciare il cibo per entrambi nutrendo il coniuge come se fosse parte della sua stessa prole…

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La flotta trasparente che sorveglia la muraglia glaciale d’Islanda

Viaggiare lungo il grande anello stradale che circonda la nazione isolana più a settentrione d’Europa potrà richiedere un grande numero di ore, ma difficilmente può essere definito “noioso”. Soprattutto quando ci si appresta ad affrontare il tratto che fiancheggia, una dopo l’altra, meraviglie naturali come le cascate di Skógafoss, il vulcano Eyjafjallajökull ed il ghiacciaio Mýrdalsjökull. Ma è mentre si procede verso Est, nell’ideale progressione di quest’avventura al volante, che la prima vista effettivamente ardua da identificare inizia a palesarsi oltre le digradanti coste di quell’universo paesaggistico senza un eguale: per l’apparente fila di quattordici, quindici autocarri dalla cima frastagliata, che in rapida sequenza sembrano riemergere da un mondo sotterraneo, fiancheggiando stolidi il sottile nastro asfaltato che costituisce l’interfaccia tra il mondo sensibile e lo stato delle cose. Finché al variare della prospettiva, tali orpelli si presentano per ciò che veramente erano sempre stati: sculture di ghiaccio, alte, oblique, trasversali. Aspetti indipendenti di un tetto bianco che sovrasta, e in senso concettuale riesce a incombere, sopra ogni spazio abitabile di quel paese sospeso tra l’Atlantico e la terra leggendaria del Grande Inverno. Così che se una popolazione indigena, come gli Inuit canadesi o i Chukchi della Siberia, avesse vissuto in questo luogo prima della colonizzazione da parte dei Norreni avvenuta nel corso del Medioevo, tale luogo avrebbe avuto il nome e ruolo religioso di “divino” Vatnajökull, coi suoi 7.900 Km di materia compattata grazie alla pressione gravitazionale, per un volume complessivo di 3.000 Km quadrati, entrambi dati capaci di collocarlo in cima alla classifica dei più vasti ghiacciai europei. Ma chi dovesse credere, a un simile proposito, che tale monade suprema sia risultata immutabile attraverso i secoli, come le grandi montagne o laghi delle terre più distanti dal grande Cerchio, avrà di certo una sorpresa considerevole, comparandone l’aspetto attuale con quello registrato sulle mappe di appena una generazione o due a questa parte. Poiché il ghiaccio cambia e assieme ad esso la forma geometrica d’Islanda, come ben sappiamo dalle registrazioni risalenti alla piccola era glaciale (PEG) generalmente collocata tra il XIV e XIX secolo, ma realmente portata ad esaurirsi verso l’inizio degli anni ’30 del Novecento. Data in cui il grande ghiacciaio, dopo essersi propagato per circa 50 Km oltre le coste dell’isola, ha iniziato gradualmente a ritirarsi. Lasciando indietro gli iceberg che continuano, uno di seguito all’altro, a percorrere il nastro trasportatore posto in essere dalla natura in attesa.
Jökulsárlón è il suo nome, che significa letteralmente “fiume della laguna glaciale” benché non si tratti allo stato attuale di nessuna delle due cose, bensì un esempio particolarmente imponente di quello che prende il nome di lago proglaciale, essenzialmente intrappolato dalla duplice morena (slavina di detriti) causata per l’effetto del progressivo disgregarsi della montagna bianca. Una visione totalmente priva di alcun termine di paragone…

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