Non succede particolarmente spesso che un producer di video divulgativi su YouTube sollevi una questione biologica oggettivamente del tutto nuova per il pubblico, e benché ampiamente nota in determinati circoli accademici purtroppo mai discussa, di fronte all’opinione pubblica, per lo meno con l’ampia considerazione che avrebbe meritato. Per l’oggettivo spunto di riflessione che ci può fornire, in merito all’evoluzione, l’ambiente preistorico, gli alterni sentieri e metodi della natura. Così Adam Crume, ambasciatore scientifico del canale SciShow è comparso lo scorso 19 dicembre online con un titolo esplicitamente provocativo: “Tutti si sono sempre sbagliati sull’avocado. Inclusi noi.” E una breve, quanto pregna trattazione di una di quelle percezioni generalmente diffuse, in forza di una serie di circostanze pregresse, fino al punto di essere diventate delle vere e proprie roccaforti. Ovvero la seguente concatenazione di cause ed effetti: l’albero tropicale mesoamericano di Persea americana, per come lo conosciamo, è un vero e proprio anacronismo. Questo per la dimensione del suo seme, sproporzionatamente enorme ed in funzione di ciò praticamente impossibile, per qualsiasi creatura attualmente esistente, da trangugiare tutto intero. Ciò anche senza considerare il suo contenuto di tossine, sufficientemente elevato da poter venire tritato, ad esempio, per la produzione di un veleno per topi tradizionale. Quale appartenente al mondo animale, dunque, aveva la capacità e propensione di provvedere alla diffusione di tale pianta? Soltanto due famiglie, appartenenti alla categoria della megafauna di quel mondo, con origini rispettivamente nelle epoche del tardo Oligocene (25 mya) e del Pliocene (5,2-2,3 mya) avrebbero potuto vantare la capacità di farlo. Sto parlando dei gomfoteriidi, pachidermi proboscidati vagamente simili a degli elefanti con quattro zanne, e dei megateri, colossali bradipi di terra che potevano anche raggiungere i 6 metri in determinate specie. Creature primariamente erbivore (nel secondo caso, non solo) la cui dieta per quanto ci è stato possibile desumere conteneva effettivamente le foglie di piante ad alto fusto e potenzialmente, anche i loro frutti e semi dal variabile grado di tossicità, che avrebbero potuto metabolizzare possedendo stomaci di ferro analoghi a quello dell’odierno rinoceronte. Così venne teorizzato, per la prima volta nel da Wolstenholme and Wiley nel 1999, riallacciandosi a uno studio di 17 anni prima di Janzen and Martin, che l’avocado in questione potesse avere una stretta relazione simbiotica con queste creature, riuscendo nonostante questo a sopravvivere successivamente alla loro estensione. Un’ipotesi ulteriormente sostenuta nel famoso saggio del 2002 della studiosa Connie Barlow “I fantasmi dell’evoluzione” il quale avrebbe ulteriormente cementato questa percezione ritenuta effettivamente utile ad avvicinarsi all’inspiegabile realtà dei fatti. Almeno finché a qualcuno, da qualche parte, non fosse venuto in mente di porsi le domande adeguate…
propagazione
Nuovo approccio anisotropico conferma l’esistenza di una sfera di metallo al centro del nucleo terrestre
Un agglomerato di materia mantenuta assieme unicamente dalla forza imperscrutabile dell’attrazione gravitazionale, mantenuta sul binario di un tragitto relativo alla sua principale fonte d’energia: l’astro solare della propria antica stella. I cui strati superiori, come ben sappiamo, restano costituiti dagli stessi gas portati a un plasma riscaldato, in forza dei processi di fissione atomica che vengono prodotti nel suo nucleo interno. Ma le cose, tra i due poli contrapposti di quel sistema, sono forse meno distinte e contrapposte di quanto potremmo essere indotti a pensare, laddove ogni singolo pianeta incluso il nostro, contiene in se il seme possibile di un altro valido riferimento per costellazioni di una civiltà distante, semplicemente troppo piccolo e poco pesante, per poter dare inizio al processo produttivo di una quantità di luce ed energia bastanti a renderlo una fonte. Una prova? Arde al centro esatto di questa palla di terra (lo sferoide… Chiamato per l’appunto Terra) un oceano semi-solido con 2.260 Km di diametro, pari a circa due terzi rispetto a quello dell’astro lunare, al cui centro abbiamo saputo individuare, fin dagli anni ’30 dello scorso secolo, un nocciolo di ferro e nickel totalmente solido ed indipendente ampio a sua volta circa 1.120 Km, costituito principalmente da metalli pesanti, tanto remota quanto fondamentale per la nostra sopravvivenza. Ciò almeno in base alla teoria, attribuita nella sua forma contemporanea a Walter M. Elsasser (1904-1991) secondo cui la magnetosfera responsabile di proteggerci dalle più pericolose radiazioni del cosmo, tra cui soprattutto quelle del sopracitato ed idealmente “divino” astro e Dio dell’Alba, sarebbe il prodotto di una vasta dinamo alimentata proprio dalla rotazione che determina il succedersi di ogni singola giornata del calendario. Un sistema tanto complesso, in linea di principio, da aver visto la sua elaborazione matematica subordinata progressivamente all’introduzione di calcolatori sempre più potenti e che persino alla luce dei potenti computer odierni, ancora attende d’incontrare la prova finale e inconfutabile della sua esistenza. Ciò che gli studi pregressi sul tema del nucleo interno hanno lungamente saputo dimostrare, tuttavia, è che spesso l’elaborazione di metodologie ed approcci nuovi possono accelerare non poco il compiersi di tale processo tecnologico, fino all’ottenimento di rapidi e non prevedibili cambi di paradigma. Situazioni come quella per la prima volta prospettata dai geofisici Adam Dziewonski e Miaki Ishii nel 2002, quando presentarono al mondo accademico la fondata ipotesi dell’esistenza di un terzo strato del suddetto nucleo (e quinto dell’intero pianeta, includendo il mantello e la crosta) con un diametro possibilmente collocato tra i 300 ed i 400 Km, che loro chiamarono IMIC – Innermost Inner Core o “Nucleo interno del nucleo interno” tanto compatto e solido da risultare in qualche modo paragonabile alla singola biglia di un cuscinetto a sfera. Un modo particolarmente ingegnoso di vedere le cose, necessariamente supportato da diverse deduzioni empiriche non necessariamente, né completamente valide a convincere gli scettici di un tale tipo di spiegazione. Categoria il cui sacro compito ereditario parrebbe essere diventato ora esponenzialmente più difficile, a partire dalla pubblicazione lo scorso febbraio di un nuovo studio scientifico sull’argomento, opera di due scienziati dell’Università Nazionale d’Australia, a Canberra…
Le cronache della valanga viola che minaccia di coprire l’arido entroterra d’Islanda
Al termine del primo capitolo del romanzo Hawaii di James A. Michener, che descrive la formazione vulcanica del popoloso arcipelago del Pacifico settentrionale, una dichiarazione programmatica prospetta il tono che accomunerà le alterne vicende dei diversi popoli e personaggi, utilizzati dal narratore per delineare attraverso i secoli la storia di quel paese: “Uomini della Polinesia, di Boston, della Cina e del Monte Fuji e dei barrios delle Filippine, non venite in queste terre a mani vuote o poveri di spirito. Non c’è cibo qui. Non c’è certezza. Portate i vostri Dei, i vostri fiori e i vostri concetti. Senza risorse, qui perirete. In questi termini, le isole vi aspettano.” Il tipo di situazione che potremmo ritrovare in molte trascorse esperienze di colonizzazione, portate a termine dai popoli con le finalità ed obiettivi più diversi. Gente come i Vichinghi della Scandinavia medievale, che stanchi di combattere e preservare il predominio su terre contese, s’imbarcarono con armi, mogli e figli, per andare a vivere in luoghi del tutto privi dell’acredine in cui avevano trascorso i travagliati giorni della loro esistenza europea. Coste come quelle dell’isola americana di Terranova, oggi sappiamo, che loro chiamarono Vinland (ᚠᛁᚾᛚᛅᚾᛏ) dalla vite selvatica che vi cresceva in quantità copiosa. Ma prima di raggiungere l’altro lato dell’oceano, facendo sosta e presto stabilendosi presso un luogo che potremmo definire al tempo stesso parte del Vecchio Continente ed insolito per molti aspetti, tanto da costituire un universo grigio e contrapposto ad una terra in qualsivoglia modo “accogliente”. Almeno, prestandogli occhio al giorno d’oggi, in cui l’Islanda si presenta tanto atipica da essere stata impiegata al principio degli anni ’60 per preparare Buzz Aldrin e gli altri astronauti del programma Apollo al possibile aspetto paesaggistico del nostro satellite lunare successivamente allo sbarco. Ma è davvero sempre stata in questo modo? Secondo l’analisi retrospettiva degli studiosi, botanici, geologi ed archeologi, prima del decimo secolo questa era un’isola coperta per tre terzi da vegetazione rigogliosa ed abitata da un singolo mammifero di terra: la volpe artica. Una condizione idilliaca destinata a cambiare radicalmente con l’arrivo del secondo, che precorrendo di parecchi secoli l’esortazione del romanzo, oltrepassarono l’oceano accompagnati da pecore, capre, bovini ed altri animali capaci di agire come una sorta d’implacabile armata di tagliaerba, eliminando tutto quello che non poteva essere agevolmente ricostituito in tempi brevi. Mentre il resto veniva utilizzato per costruire abitazioni e navi. Questo perché il suolo per lo più pietroso dell’isola del fuoco e della lava, per usare un’associazione largamente nota, presuppone periodi in media molto più lunghi del normale per la crescita di un manto smeraldino filiforme, per non parlare di alberi ed altre piante dal fusto preminente sopra il chiaro segno della radura. Il che avrebbe annullato ogni speranza di ricrescita o sostenibilità zootecnica, almeno finché in tempi relativamente recenti all’importante figura del botanico Hákon Bjarnason, direttore del Servizio Forestale Islandese, non venne in mente nel 1945 di compiere un viaggio fino alle vaste distese climaticamente simili d’Alaska. Da cui avrebbe fatto ritorno custodendo in valigia il chiaro seme di un possibile sentiero di rinascita, replicato in plurime occorrenze pronte a salvare/devastare l’aspetto tipico di un’intero paese…
L’australiano sforzo decennale per tenere in vita l’albero più antico della Terra
Verso la metà del tardo periodo Giurassico, per essere specifici nell’era Kimmeridgiana (155-150 mya) un gruppo di pesanti stegosauri si aggirava nella parte centrale del Gondwanaland. Il vasto continente composto dalle masse di quelli che oggi costituiscono il Sud America, l’Africa, l’Antartico, l’Arabia, l’India e l’Australia, divenuto attraverso le ultime migliaia di stagioni un luogo torrido e piuttosto brullo, per l’essenziale innalzamento dell’intera temperatura terrestre. I grandi dinosauri erbivori dal dorso corazzato, grazie alla grande quantità di piastre ossee, avevano migrato per molte settimane, divorando progressivamente un certo numero di piccole macchie boschive. Scontrandosi a più riprese con famelici allosauri, ceratosauri e saurophaganax “addentatori di carne”, i membri più deboli del branco erano stati progressivamente eliminati, mentre i maschi dominanti e le loro consorti, vibrando poderosi colpi con i loro possenti thagomizer caudali, simili a mazze ricoperte d’aculei, avevano stoicamente accettato la nuova ragnatela di cicatrici e lesioni sull’intero estendersi dei loro possenti corpi. Ma ora, l’ultimo tramonto si stava progressivamente avvicinando sulla strada del loro destino: stanchi ed affamati, senza nessun tipo di risorsa, gli antichi guerrieri erano giunti al termine della loro corsa. A meno che… La matriarca del gruppo, accompagnata da un gruppo di cuccioli della grandezza approssimativa di un’automobile Smart, fermò improvvisamente la sua marcia; rivolgendo il collo taurino verso il placido lucore del tramonto, sollevò quindi lo sguardo verso il cielo, per lasciare scaturire un complesso verso modulato noi avremmo potuto associare al soffio di un drago di komodo. Ella aveva scorto, infatti, una lieve irregolarità nel paesaggio, come un’indentatura su un costone di roccia. In molti, tra gli esemplari che si trovavano più vicino, fecero ben presto lo stesso, mentre il sottile istinto ereditato nella lunga marcia dell’evoluzione permetteva al loro piccolo cervello, non più grande di quello di un cane (per un animale adulto dal peso di 4,5 tonnellate) di comprendere che cosa ciò potesse significare. Una sorta d’inumano senso di sollievo percorse in quei momenti l’intera carovana. Poiché gli stegosauri ben sapevano di aver trovato l’occasione vegetale di rifocillarsi: all’interno di una rarissima, quanto preziosa, Valle Perduta nella distesa senza fine del bush prossimo alla desertificazione.
I mutamenti climatici e geologici, per loro implicita natura, richiedono moltissime generazioni. E tendono a operare sulla base di una funzionale concatenazione tra causa ed effetto, incapace di coinvolgere ogni singolo elemento di un particolare contesto geografico. Così che sussistono casualità, particolarmente amate dai creatori di romanzi, in cui qualcosa di predestinato all’estinzione, per il cambiamento inarrestabile dello stato dei fatti, possa sopravvivere intonso attraverso le incalcolabili generazioni. Per riemergere, come se nulla fosse, all’altro lato della nebbia pluri-millenaria, come se niente fosse, sembrando chiedere all’indirizzo dell’uomo: “Allora, che cosa vogliamo fare adesso?” Una domanda che probabilmente avrà finito per rivolgere a se stesso David Noble in persona, la guardia forestale che accompagnata dai colleghi Michael Casteleyn e Tony Zimmerman, in un fatidico 10 settembre del 1994 giunse all’orlo precario di un profondo canyon nel parco naturale di Wollemi, sito ad appena 150 Km dalla fiorente metropoli di Sydney, capitale dello stato australiano del Nuovo Galles Meridionale. Fatidico perché, una volta calatosi oltre il baratro grazie all’impiego delle immancabili corde, gli spedizionieri finirono per ritrovarsi proprio in quello stesso paesaggio, ombroso ed accogliente, che tanto sollievo avrebbe potuto portare alla comunità migrante degli stegosauri. Un letterale bosco di conifere alte tra i 25 e i 40 metri, del tipo che i primi coloni di quel continente sarebbero stati fin troppo pronti a definire dei “pini”, sebbene Noble e compagni, dotati di una valida conoscenza di base della botanica scientifica moderna, non avrebbero tardato ad identificarli correttamente come appartenenti alla vasta famiglia delle Araucariaceae, oggi diffuse in circa 40 specie in America Meridionale, Sud-Est Asiatico ed Oceania. I quali, sebbene presentassero alcuni punti di somiglianza con le varietà botaniche arcinote dell’albero kauri (gen. Agathis) o il cosiddetto pino di Norfolk (gen. Araucaria) avevano anche alcuni tratti distintivi assolutamente degni di essere sottoposti all’attenzione di un vero esperto. Ivi incluse le foglie spiraleggianti, in una serie di distinte creste o puntali, con al termine dei rami due diverse tipi di pigne: oblunghe oppure con la forma di una sfera. E soprattutto, gli intriganti tronchi bitorzoluti, paragonabili alla superficie realizzata da qualcuno che avesse deciso, per qualche ragione, d’incollare l’intero contenuto di una scatola di Corn Flakes a un tubo di cartone verticale. Qualcosa di notevole, compresero perciò, aveva avuto l’occasione di presentarsi sotto i loro occhi…