Con il drago sulla punta di una sola pennellata

Hitofude Ryuu 3

Hitofude Ryuu, il suo nome soffia in mezzo al vento, una volta sola e può bastare. Hai mai visto, durante un temporale estivo, la punta di una coda che spariva tra le nubi? Hai notato il ghigno feroce della belva dietro a un fulmine distante? E ci hai fatto caso, quella volta del febbraio scorso, quando le corna d’oro sono emerse per una attimo dal fiume Tevere, ingrossato dalla furia dei terribili elementi, pienamente sufficienti, un tempo, a straripare…Se l’hai visto, lo ricordi. Ed hai tentato di ritrarlo, almeno nove volte. La prima per la testa di cammello. La seconda per gli occhi da demonio. La terza per il ventre simile ad un ostrica. La quarta per le scaglie, come quelle della carpa. Cinque: gli artigli d’aquila. Sei, le zampe di una tigre! Sette, coda di serpente. Otto le orecchie di una mucca, però prive di capacità uditive. Perché tutto quello che il Dragone percepisce, di quel Cosmo che riesce a malapena a contenerlo, lo acquisisce dal suo palco cranico ramificato in cheratina, il più strano degli organi di senso. Preso in prestito dai cervi di foreste rigogliose, eppure differente.
L’hai disegnato. Così, di certo, senza un pregno rituale o l’esperienza. Tali approcci, d’altra parte, non si adattano al sentire dei moderni; hai preso il foglio, la matita. Forse, un pennarello e ci hai provato, bene o male… Il mistico signore del mondo naturale, questo è chiaro, ha molte forme. Ci sono draghi che strisciano nel mondo sotterraneo ed altri che nuotano fra i flutti dell’Oceano. Ce n’é uno, addirittura, che cammina sulla terra, come un millepiedi. E nei bestiari medievali d’Europa, fondati su credenze tipiche della cristianità di allora, il gran serpente era grassoccio, addirittura, un po’ sgraziato. Una penosa manifestazione del crudele satanasso, da trafiggere con spada e lancia ed alabarda.
Nella Cina del taoismo è sempre stato differente. Nel paese in cui il saggio diceva: “Conosci te stesso e il tuo nemico, vincerai cento battaglie” queste creature incomparabili venivano intagliate nella giada, messe sopra un piedistallo ed ammirate. Erano da sempre state considerate, fin dal primo giorno della loro concezione, come la massima espressione dello Yang, principio luminoso. Contrapposto alle feconde tenebre dello Yin, fatte d’ali di Fenice, nel frattempo. C’era dunque, un solo modo di ritrarre questo Dio. Perché di ciò si tratta, non abbiate dubbi. Con suprema reverenza. Stupore, tremori e un senso di tremenda responsabilità. Ben sapendo che se ti dimentichi quel fenomeno del Cielo e non riesci a riprodurlo, poco ma sicuro: Lui, non tornerà da te.

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Finché non giunsero alla forgia di Damasco

Forgiare un martello
Torbjörn Åhman forgia un martello da forgia del peso di circa un Kg e mezzo

Ogni forma di tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia. E come Arthur C. Clarke, l’autore di Odissea nello Spazio, ben sapeva questa cosa il Grande Yǔ, semi-mitico fondatore dell’antichissima dinastia cinese degli Xia (XXI-XVI secolo a.C.) e primo fabbro fonditore nella storia dell’umanità. Non a caso, tra i suoi molti titoli spiccavano traforatore delle montagne e il minatore felice che bonifica la terra. Secondo la fondamentale opera Memorie di uno storico, scritta dagli studiosi Sima Tan e Sima Qian durante il regno molto successivo dell’imperatore Wu (140 – 87 a.C.) questo grande civilizzatore aveva ricevuto in forma di tributo, dalle nove province del suo regno, altrettanti carichi di un prezioso metallo: il bronzo, fondamento delle arcaiche civiltà. Non contento di impiegarlo solamente per forgiarne umili spade o zappe, l’eroico governante fece dunque portare una significativa parte del materiale all’interno della sua officina personale. E proprio in tale luogo, lavorando giorno e notte per un tempo imprecisato, ne trasse nove enormi calderoni a tripode, riccamente decorati, ciascuno del peso di 30.000 Jin (7 tonnellate e mezzo). L’aspetto maggiormente affascinante di questi giganteschi oggetti rituali, destinati a diventare il modello dell’intera produzione bronzea della Cina antica, era il modo in cui presentassero dei fregi geometrici, e figure di draghi o altri esseri mitologici, non semplicemente realizzati a bassorilievo. Bensì tratteggiate in tre dimensioni, attraverso l’incorporamento sulla superficie metallica di una diversa qualità di metallo, con caratteristiche e colorazione in assoluto contrasto. È soltanto naturale, in un mondo che si perde tra le nebbie occulte della storia, identificare in un tale maestro dell’ingegneria il principio ultimo della divinità.
Nell’antichità d’Occidente, tuttavia, non siamo mai stati governati da un grande forgiatore. La civiltà greca, tra i suoi molti immortali, celebrava l’epica opera del dio Efesto, figlio di Ares del conflitto armato, e di Era, la personificazione femminile della Terra stessa. Egli aveva costruito, nella sua fucina sotto l’isola di Lemnos, ogni sorta di stupenda meraviglia: il carro del Sole, l’arco di Apollo, i sandali di Ermes, addirittura lo scudo del grande Zeus, ovvero la mitica Egida in grado di scatenare di tempeste. E inoltre riforniva di armamenti, fin dall’epoca della guerra di Troia, i principali semi-dei e tutti gli altri eroi dei piccoli e insignificanti umani. Era un genio e un fenomenale inventore, in grado di costruire, secondo alcune tradizioni, figure antropomorfe nel metallo e nella pietra, in grado di muoversi e parlare, veri e propri robot dei primordi, anticipatori dell’androide asimoviano. Ma anche un bruto sregolato, che venne cacciato dall’Olimpo dopo aver tentato di stuprare la sapiente Atena, precipitando lungo una catena fin dentro le viscere del mondo. Si parla sempre del creatore e dei suoi maggiori successi e fallimenti, dimenticandosi le umili origini del suo mestiere. Prima del primo fabbro dell’intero universo, non esistevano nemmeno gli strumenti del mestiere: nessun incudine o tenaglia, soltanto il fuoco eterno e periglioso. Persino il martello, con cui battere insistentemente il canto ritmico della tecnologia, era soltanto un aleatorio sogno nella mente dei sapienti.

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L’impresa interminabile del Corgi rotativo

Corgi Carousel

È il cane, soprattutto, che può risolverci un problema. Quello che da sempre assilla il mondo dell’industria tecnologica moderna: energia infinita, pulita, senza controindicazioni. Funziona, pressapoco, come una turbina. Si prende il rossiccio rappresentante della razza inglese Corgi, nella variante ultra-intelligente del Pembroke. Una scelta che ha radici nel profondo: un gran danese, certamente, correrebbe più lontano. Ma sarebbe presto stanco per la mole. Un robusto cane da pastore tedesco, o il volenteroso Labrador, non passerebbero agilmente sotto le maniglie di metallo. Un bel problema! E qualsiasi cane piccolo, come un Chihuahua, oppure il Jack Russell Terrier, avrebbero una resa deludente. Solamente lui, con le sue zampe corte ma possenti…
Ergo, elettricità infinita. Basterà collegare un alternatore magnetico al mozzo centrale della ruota. Una turbina, però attentamente camuffata. Altrimenti, che noia. Deve sembrare, fra le innumerevoli possibilità, esattamente, niente meno che un enorme carillon; l’effetto è veramente straordinario. La resa, senza pari. Poiché il tempo vola quando ci si diverte, il compatto corridore inizierà a girare. Per lunghi minuti, forse quasi un’ora. Giorni, mesi, anni e secoli infiniti. Ovviamente, occorrerà avere almeno due o tre cani per ciascun impianto, affinché possano darsi il cambio quando è l’ora di mangiare. Quindi, tanto meglio cominciare la spassosa procedura d’indottrinamento. Nell’originale video di Carter Grebbien, risalente al 2011, tutto partiva da una fortunata contingenza. Il padre del giovane, restauratore di reperti metropolitani, aveva acquisito in qualche maniera misteriosa una giostrina da giardino. Di quelle tipiche dei parchi per bambini, senza nessun tipo di motore, spinta innanzi unicamente dalla forza centrifuga e dai muscoli dei conducenti. Per metterla lì, davanti casa. E che passeggeri! Dopo un breve periodo di adattamento, oltre al ragazzo sopra c’è salito Meatball (Polpetta) questo fulmine peloso. Perché in breve tempo, dentro di lui si era risvegliato un vecchio istinto. Le origini del Corgi, dopo tutto, non sono estremamente chiare.
Esistono dei manoscritti gallesi, risalenti all’undicesimo secolo, in cui si parla di un minuto cane da pastore, ben distinto dai suoi colleghi del profondo sud. Del suo naso a punta e delle orecchie triangolari, della macchia bianca sulla schiena. Dovuta, secondo le leggende al tocco delle fate. Servitrici del re occulto del crepuscolo lunare.

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La forca e la feluca, la spada e il mare

Messina spada

Sopra l’onde turbolente gridano i gabbiani mentre sotto, silenziosamente, si agita la pinna di un temibile guerriero. Le conchiglie giacciono dimenticate, filtrando l’acque di quel dolce plankton che le nutre. Tutto scorre fin dall’epoca delle quadrate vele, strumento degli antichi marinai. Così facevano i Fenici. Ne cantò l’insigne Omero. E i nonni dei nostri trisavoli, allo stesso modo, muovevano quei lunghi remi. Solo il motore nautico poteva cambiarla e l’ha cambiata, la caccia messinese al pesce spada. Una praxis che si rimescola e dà nuove genesi dal brodo cosmico del tempo: Panta Rei, dicevano i filosofi, osservando la tendenza divergente delle opposte cose, perennemente sottoposte ad infinite mutazioni. Questo non significa che il vasto mare sia del tutto privo di strettoie, angoli ciechi, passaggi dalle insidie occulte, intramontabili e perverse. Dove convergono le anime perdute.
Ogni anno, tra maggio ed agosto, decine di migliaia di creature argentate si avventurano tra Scilla e Cariddi, in cerca di una valida compagna. Sono costoro gli Xiphias gladius, imponenti abitatori di ogni mare temperato del pianeta, con la coda a mezzaluna, la pinna in forma di falce e il naso lungo, aculeato, non dissimile ad un’arma penetrante. Come una lancia, il fioretto degli abissi. Uno strumento che li nobilita e caratterizza, ma che allo stesso tempo, fin dall’alba delle umane civiltà, li rende magnifici e desiderati. Condizione rara per una bestia, nonché di sicuro, tutt’altro che vantaggiosa. Giacché non è per niente insolito, nel corso della loro spedizione, d’incontrare una maestosa ombra, udendo in lontananza un rombo e le parole in greco di un’antico incantesimo di mistiche poesie. Finché d’un tratto, al solenne grido “Viva San Marco” non appare innanzi ai loro grandi occhi il simbolo supremo della Fine: un’asta lunga, con tre più corte nell’estremità anteriore. Il ferro del piscatore, approssimazione ragionevole della fiocina del baleniere. Se pure di Achab ce n’è solo uno, questo non significa che la balena bianca sia insostituibile, nei nostri piatti. Anzi! Già Archestrato di Gela, poeta siceliota del IV secolo, definiva questa carne come cibo degli Dei. Cartesio affermava, raccomandandola agli stomaci delicati, che “[…] Si squaglia in bocca come un’alga e suscita pensieri sia casti che d’amore allo stesso tempo”. E se ancora oggi abbiamo il privilegio di gustarla, in tanti piatti tradizionali ed altre specialità della Sicilia, il merito anche di questa tecnica ereditata dai nostri avi. Basata soprattutto sulla calma e l’abbandono, un apparente tipo di disinteresse che conduce alla vittoria.
Oggi, la caccia si svolge a questo modo: la barca veloce, della tipologia snella ed elegante che viene definita feluca, viene bardata di due interessanti, quanto originali strutture. La prima è un’antenna metallica, alta anche 25 metri, sopra la quale trova posto una vedetta. La seconda è una lunga passerella, leggera e rastremata, al termine della quale sta in agguato un coraggioso cacciatore. Il ragionamento è molto semplice: se tu vedi il pesce, puoi colpirlo. Se lui non ti vede, resta fermo. Che l’uomo possa precedere la propria barca di una distanza equivalente allo scafo stesso, alla natura non potrà essere mai chiaro; a questo modo, dunque, egli scaglia la sua lancia triforcuta verso il basso. E colpisce, molto spesso, proprio quello che voleva. Il seguito è fin troppo chiaro. Trapassato dalle punte a senso unico, da cui è impossibile fuggire, il pesce tenta invano di salvarsi. Più e più volte si inabissa, venendo per ciascuna ritirato in alto. Finché alla fine, con un ultimo colpo di coda, soccombe. Tratto al di fuori del suo ambiente con gli onori normalmente riservati ad un eroe sconfitto, lo spada viene adagiato sopra il ponte dell’imbarcazione. Qui, almeno secondo l’antica usanza, i suoi catturatori tracceranno in prossimità della branchia destra il doppio segno perpendicolare della “caddata dà cruci”, prima di coprire il pesce con un telo, per proteggerlo dal sole. O dagli sguardi lucubranti. Questa antica tecnica di pesca, così lontana dal sentire pratico dei nostri tempi, viene considerata preferibile all’uso delle reti a strascico e degli altri metodi moderni. Prima di tutto, perché non danneggia i preziosi fondali sopra cui si svolge, gemme inestimabili del Mediterraneo. E secondariamente, in quanto lascia alla vittima un piccolo barlume di speranza. Che gli possa in qualche modo, nel momento della verità, scansarsi un po’ di lato. Evitare il proiettile, per nuotare innanzi verso l’orizzonte.

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