Ruggisce ancora il bolide sospeso tra la vita e la Mors

Nella sua forma più pura e non adulterata, la potenza può essere molte cose: carisma, agilità, impatto, velocità, dinamismo. Ma in un certo senso trasversale, essa coinvolge sempre una specifica caratteristica, al di sopra di ogni altra. Sto parlando della la massa ovvero, forza diviso accelerazione, ovvero quanto le regole immutabili della termodinamica possono essere piegate all’implacabile volontà dell’uomo, al fine di raggiungere lo scopo ideale di partenza. Spesso a discapito della presunta ragionevolezza e qualche volta, finendo per pagare il prezzo più alto. Era il 1901, durante la prestigiosa gara europea della Parigi-Berlino, quando il progettista e pilota francese poco più che ventenne Charles-Henri Brasier, al volante di una delle sue ultime creazioni, vide troppo tardi un bambino di 10 anni che stava attraversando la strada, coperto dall’automobile che stava superando in quel momento. Senza alcuna possibilità di frenare in tempo, svoltare bruscamente o gridare al malcapitato, lo investì uccidendolo tragicamente, un’esperienza che l’avrebbe segnato per il resto della sua esistenza. Ciononostante, la gara non venne fermata ed il pilota, riprendendo la gara dopo una pausa di circa mezz’ora, la portò a termine arrivando in quarta posizione. La profezia in latino, a quel punto, si era compiuta: Mors ianua vitae “la Morte è la porta per la vita” mentre lo slogan scelto per l’omonimo marchio automobilistico che prendeva il nome da due fratelli imprenditori, tra i primi a credere e investire nel mondo delle gare competitive, diventava orribile ed inaspettata verità.
Probabilmente non fu proprio quella l’ultima goccia valida per sigillare il vaso di Pandora, data la distanza cronologica da un tale necessario evento, eppure il sacrificio del piccolo Ernest Breyer valse a dare il proprio contributo a un cambiamento che per lungo tempo, la gente aveva atteso. E nel 1906, con la prova di Havana della Cuban Race di febbraio, poi seguìta a primavera dall’introduzione della nuova gara siciliana della Targa Florio, il Club Francese dell’Automobile (ACF) annunciò l’inizio della prima stagione internazionale del nuovo Grand Prix motoristico internazionale, un’iniziativa che avrebbe ben presto fatto la storia dei motori introducendo, inoltre, norme specifiche per la sicurezza di piloti e spettatori. A quei tempi, per inciso, nessun produttore doveva sottostare a particolari leggi e regolamenti, con il solo limite di un minimo di 10 modelli costruiti e il peso massimo di 1.300 Kg, mentre ogni altra soluzione ingegneristica veniva giudicata opportuna. Il che avrebbe portato negli anni successivi ciascun produttore, tra cui Itala, Renault, Rolls Royce e Darracq, a iscrivere una quantità di vetture totalmente diverse tra di loro, spesso guidate da quello stereotipo di “pilota gentiluomo” che nella generazione immediatamente successiva, sarebbe stato attratto dall’universo totalmente nuovo dell’aviazione a motore. In un vero e proprio vortice di soluzioni contrastanti, più o meno efficienti, risulta dunque assai difficile collegare oggi determinati nomi alla loro automobile, anche vista la penuria di testimonianze foto/videografiche in un’epoca in cui lo scritto, ancora, dominava l’informazione. Escluso il caso, certamente raro ma tutt’altro che inusitato, di un esempio che possa esser giunto ragionevolmente integro di questa particolare epoca tecnologica, come il veicolo perfettamente rimesso assieme dopo esser stato tirato fuori dal deposito dove era finito e messo in mostra in questo video, dal celebre restauratore Eddie Berrisford. Una creatura di un’altro tempo, quando ancora i dinosauri mordevano con gli pneumatici le lunghe strade della Terra…

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L’incontenibile cannuccia idrostatica del Prof. Pascal

Molto importante nello stile d’insegnamento statunitense è la cognizione che sapere un qualcosa, e testimoniarne l’evidenza, siano due valori culturali profondamente differenti. Così che il metodo scientifico, continuamente messo in discussione, si trova sottoposto a prove quotidiane, dinnanzi al pubblico della nuova generazione, in aule di scuola, laboratori universitari ed altri spazi architettonici finalizzati a tal scopo. Resta tuttavia evidente che ogni abitudine, inclusa simile tendenza, possa venire proporzionata sulla base del proprio ambiente operativo, raggiungendo e coinvolgendo le fervide menti in quantità determinata dalla grandezza del proprio palcoscenico ed il tipo di risorse a disposizione. Come nel caso della Prof.sa Katerina Visnjic di Princeton, che nel 2016 tra tutti i megafoni a disposizione, scelse d’impiegare il più imponente: quello di Internet, creando il canale di YouTube chiamato a tal proposito Physics4Life. Idealmente finalizzato, in linea di principio, a contenere un’ampia antologia di materiali ma la cui Alfa e Omega per ragioni inconoscibili sarebbe stata invece questa singola scenetta, il cui svolgimento e risultato, d’altra parte, appaiono chiari e al tempo stesso, poco meno che straordinari. Stiamo parlando, d’altra parte, di una delle più famose prove pratiche finalizzate alla scoperta di una legge naturale, per l’appunto nominata in base al nome del suo scopritore, il matematico francese appartenuto al secolo della scienza Blaise Pascal (1623-1662) a sua volta strettamente interconnesso all’immagine particolarmente strana e imprevista di un lunghissimo tubicino, fatto discendere dalla sommità di una torre, all’interno della prototipica botte costruita in doghe di legno. Nient’altro che un’esperimento, a conti fatti, ma del tipo migliore. Poiché quasi nessuno, senza una preparazione precedente, avrebbe potuto prevederne l’esito finale.
Osservate, ponderate, traete le vostre conclusioni: su questo gruppo di studenti iscritti all’università più prestigiosa e importante del New Jersey che, seguendo le istruzioni della loro guida in questo viaggio sorprendente di scoperta, approntano la configurazione già descritta con alcuni significativi gradi d’adattamento. A partire dalla sommità del dipartimento di fisica, il mini-grattacielo noto come Fine Hall, ove trova collocazione il punto d’origine della succitata, angusta e flessibile condotta (probabile tubicino in gomma trasparente) fino al bersaglio finale di una grossa ampolla in vetro, a sua volta inserita all’interno di un contenitore più grande poggiato attentamente al livello della strada. Questo per evitare che al verificarsi dell’effetto finale qualcuno possa rimanerne, assai spiacevolmente, bagnato. Quindi al trascorrere di qualche attimo di suspense, seguito dalla relativa apertura delle menti grazie alla descrizione del concetto di pressione idrostatica, con gesto solenne l’aiutante della Prof.sa Visnjic spinge uno stantuffo dal piano rialzato di 35-40 metri, dando inizio a una serie di conseguenze strettamente interconnesse tra loro. Prima tra tutte, la compressione del liquido nella cannuccia, tramite espulsione inevitabile di fino all’ultima bolla d’aria rimasta intrappolata al suo interno. Subito seguita, con rapidità fulminea, da un aumento di pressione pressoché immediato nell’ampolla al termine di quel sistema chiuso, immediatamente portata fino al limite massimo concesso dalla sua struttura. Fino all’irrimediabile esplosione in un migliaio di frammenti, causata dalla semplice pressione, neanche tanto forte, del pollice umano sovrastante. Il che richiede, senza il benché minimo dubbio, l’approccio ulteriore di una breve discussione esplicativa…

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Il malcapitato problema del Grande Arco marmoreo a La Défense

L’eco indistinguibile degli ultimi colpi di coda, di quella creatura gargantuesca che per lungo tempo abbiamo definito “civiltà” riecheggeranno nell’aere di un agglomerato ormai deserto di cemento, vetro e acciaio urbano. All’ombra della Torre, ormai coperta dalla ruggine e dai rampicanti, una promenade percorsa da leoni sfuggiti allo zoo, lupi e cani ritornati allo stato brado, ormai senza memoria di coloro che per tanti secoli, o millenni, protessero e accudirono i pelosi predecessori. Viene generalmente accettato, e addirittura giudicato comprensibile, che una volta privi di manutenzione pressoché continuativa i più importanti monumenti costruiti dall’uomo non possano sopravvivere, immutati, più di qualche decade, prima che l’usura degli elementi e inizi quel processo di disgregazione che li porterà a tornare, l’uno dopo l’altro, nel grande flusso imperturbabile della natura. Eppure esistono, persino in tutto questo, diversi gradi di resistenza: antiche arene o Colossei la cui pietra costitutiva, assembrata sulla base di cognizioni antiche e in qualche modo primordiali, destinati a erodersi, ma molto lentamente. Mentre molti frutti dell’odierna percezione modernista, ben più estremi nella concezione e nei traguardi raggiunti, paradossalmente avranno vita assai più breve, dopo la scomparsa di coloro che li avevano per qualche tempo utilizzati. Ciò che viene, d’altra parte, molto spesso giudicato inaccettabile, è che questo processo della decomposizione architettonica abbia inizio, sotto gli occhi di noi tutti, mentre l’edificio viene ancora utilizzato, quotidianamente, e a discapito di tutti quelli che vi passano accanto ogni giorno.
110 metri di altezza, per 110 di lunghezza e 110 di profondità: è il cubo traforato dell’architetto danese Johan Otto von Spreckelsen, completato nel 1989 a guisa di secondo Arco di Trionfo parigino, dedicato questa volta non ai trionfi militari, bensì quelli dei diritti civili e umanitari della nazione. Per il quale nel 2014, soli 25 anni dopo la sua inaugurazione, il governo francese ha deciso di stanziare 192 milioni di euro dedicati al suo restauro, un tipo d’iniziativa che sembrerebbe di per se implicare l’andamento non proprio ideale di uno o più fattori architettonici di concerto. Tutto questo per un semplice, drammatico, problematico errore: quello stesso splendido candore che in qualche modo caratterizza e rende straordinariamente memorabile l’edificio. Carrara: fonte di quello che potremmo definire il più pregiato e rinomato materiale in pietra naturale europea, frutto del calcare ricristallizzato nella calcite e dolomite, con lievi striature in grado di accrescere, piuttosto che inficiare, l’assoluta purezza del suo comparto visuale. Sostanza resistente per definizione, come dimostrato dalle plurime opere, basiliche o statue dimostratesi capaci di giungere intatte fino a noi, nonostante il trascorrere dei secoli di polvere e parziale abbandono. Ma tutto avviene per una ragione e caso vuole che un tale rapporto causa-effetto, in talune circostanze, possa risultare avverso a quello che potremmo definire l’intento dedicato alla nostra posterità. Primo colpevole, dunque, il clima di Parigi, apparentemente troppo umido e freddo, la cui escursione termica nel ciclo giorno notte potrebbe abbia contribuito a una tendenza irrimediabile verso la rovina delle svariate migliaia di pannelli ultra-sottili (4 cm ca.) che ricoprono, maestosamente, i quattro lati del notevole punto di riferimento cittadino. Assieme al poco desiderabile orientamento obliquo in comparazione agli assi cardinali, allo scopo di conformarsi parzialmente al celebre asse storico di Parigi pur lasciando spazio alla stazione sottostante della metropolitana, ma anche adatto ad esporre le intere facciate di sud-est e sud-ovest sul versante ove compaiono, in maniera più frequente, gli effetti peggiori di quello che potremmo scegliere di definire il “processo deleterio”. Consistente, per l’appunto, nel progressivo imbarcamento, con conseguente dissaldatura o granular debonding, della sottile pelle dell’edificio. Un qualcosa che non potremmo certo affatto trascurare, quando si considera la quantità di gente che ogni giorno, soprattutto quando le condizioni climatiche e sociali lo permettono, tende a transitare o sostare sulle grandi scalinate che permettono l’accesso all’Arco de La Défense.

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Il mistero dell’idrovolante più famoso nella storia dell’animazione giapponese

Da qualunque lato la si osservi si tratta di una storia semplice, quasi una fiaba per bambini. C’è un eroe creato dalle circostanze, con un difficile passato. C’è l’amore di una donna, lasciato in bilico fino all’ultima scena. C’è il rivale ma nessun “cattivo”, fatta eccezione in senso lato per l’ideologia dei tempi, destinata ad essere resa obsoleta dalla storia. Ciò che rende, invece, memorabile il lungometraggio Porco Rosso, tra le opere di uno Studio Ghibli/Hayao Miyazaki all’apice del loro fulgore internazionale (1992) è l’attenzione infusa nei dettagli maggiormente minuziosi di un’ambientazione tanto inusuale, specie nel suo ambiente mediatico d’appartenenza: il Mar Adriatico e le sue isole verso la fine degli anni ’20, quando la grande depressione stava per incombere sopra testa di un’economia portata fino al limite più estremo di sopportazione. Eppure per quanto i numerosi riferimenti alla storia dell’aviazione di quei tempi, in aggiunta alla resa sempre ineccepibile di ambienti e costumi appaiano garantiti dal consueto impianto di ricerca straordinariamente approfondito, appare certamente lecito interrogarsi in merito a cosa, esattamente, stesse pilotando nel film l’aviatore protagonista Marco Pagot, i cui lineamenti appaiono, in maniera programmatica, del tutto indistinguibili da quelli di un suino antropomorfizzato (in un esempio antologico dello stile d’illustrazione giapponese che prende il nome di kemono – ケモノ, bestialità). Velivolo che sembrerebbe possedere, nei fatti, il nome ed il cognome di un idrovolante realmente esistito, il Savoia S.21, benché ciò costituisca già nei fatti, una (probabilmente) voluta inesattezza: l’azienda recante il nome della casa reale d’Italia, che avrebbe continuato a utilizzare tale stile di nomenclatura ancora per parecchi anni, aveva infatti all’epoca di quel modello (1921) ancora il nome di SIAI (Società Idrovolanti Alta Italia). E tutto questo non è ancora nulla, quando ci si approccia effettivamente a una ricerca tecnologica sull’apparecchio: l’S-21 era infatti, contrariamente all’aereo pilotato dal maiale titolare, un biplano. E benché fosse a quanto pare dipinto di rosso esattamente come nell’opera d’ingegno giapponese, una caratteristica difficilmente apprezzabile nelle fotografie in bianco e nero coéve, le ulteriori somiglianze sembrerebbero fermarsi al posizionamento insolito del motore, tipico in quegli anni, nella configurazione cosiddetta “a castello” ovvero in alto sopra la carlinga, con una serie di supporti verticali paragonabili all’impianto di un’esposizione museale. Per trovare quindi l’effettivo ispiratore del maestro dei disegni animati occorre ripercorrere una la storia di una celebre serie di competizioni, e i leggendari piloti che furono in grado di parteciparvi, che erano iniziate nel 1913 presso il Principato di Monaco, grazie al finanziamento e l’entusiasmo del magnate della finanza francese Jacques Schneider. Il cui trofeo, simboleggiato da una coppa recante la scultura in stile Liberty di una serie di spiriti del vento e delle acque incluso il dio Nettuno, si sarebbe accompagnato per i successivi 18 anni al premio cospicuo di 1.000 sterline, per l’azienda che si fosse dimostrata la migliore nel superare un’ardua serie di prove tecnologiche. Inerentemente capaci di dimostrare un qualcosa di cui quest’uomo era convinto: che il futuro dell’aviazione avrebbe tratto giovamento, senz’alcun dubbio, dai vasti mari e gli altri specchi d’acqua di questa Terra. Perché la natura ci aveva donato la miglior pista di atterraggio e decollo immaginabile, e sarebbe stato semplicemente una sciocchezza, mancare di utilizzarla…

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