Fin dall’epoca remota, il piccolo ponte ha segnato il punto in cui lo strapiombo cessava d’influenzare la viabilità. Un arco di pietra non più lungo di 15-20 metri e largo all’incirca una carreggiata e mezzo, sostanzialmente dimenticato dall’ente francese per la viabilità. Certo, perché mai prevedere il doppio senso? È talmente corta, questa struttura, che un automobilista potrà facilmente controllare se la via è libera prima di afferrare saldamente lo sterzo e impegnare l’area percorribile, delimitata da un basso muretto facente funzioni di una sorta d’inefficiente guard rail. Ad esempio, immaginate una motrice gialla con semirimorchio, o in altri termini, il tipico camion semi-articolato sul modello europeo. Che trasporta tronchi in quantità sufficiente a costruire una manciata di granai. O una singola longhouse vichinga, magari edificata per la scena più importante di un grande film. Chi si sognerebbe mai di pretendere la precedenza, dinnanzi a un simile mezzo imponente… Anzi, diciamo la più probabile verità: tutti gli spettatori accidentali se ne andrebbero via fischiettando il motivetto del ponte sul fiume Kwai. Perché se la geometria non è un’opinione, e nessuno potrebbe mai definirla tale, il mezzo in questione tale ponte non potrà riuscire ad attraversarlo. Due possibili esiti si profilano sull’immediato: 1 – Manovrare per quasi un’ora, raddrizzando progressivamente il rimorchio nella speranza di riuscire a piegare la realtà, finendo in ultima analisi per sfinire se stessi e chi ti aspetta dall’altro lato. Oppure 2 – Un guidatore troppo poco prudente, che rifiutando di considerare il problema, si mette follemente di traverso e rischia di finire dritto nel burrone. Apparirà dunque più che mai chiara, la posta in gioco mantenuta incandescente dal qui presente, spericolato autotrasportatore.
Se non che, nel momento della sovrana e ultima verità, un fremito sembra percorrere lo spaziotempo. E succede qualcosa che richiede un secondo sguardo chiarificatore: le 12 ruote del rimorchio posteriore, impossibilmente, sembrano essersi messe di traverso. Esatto: le ruote di dietro hanno sterzato. Pochi secondi trascorrono mentre la motrice s’inoltra sulla stretta lingua transitabile nel vuoto ed il rimorchio, impossibilmente, la segue. Sembra di assistere alla scena di un bambino che solleva il suo giocattolo, posizionandolo nella maniera più corretta alla sua visione corretta d’impiego. Non è una mistica magia surreale, ma l’impiego di un effettivo strumento tecnologico, stranamente poco diffuso nonostante la sua lampante utilità. Il rimorchio sterzante, o per meglio dire il carrello, a tre, sei o dodici assi, che viene usato sui carichi eccezionalmente lu-uuunghi per permetterne la consegna in qualsivoglia tipo di situazione. Pensateci, è un’idea geniale: il tipico scenario urbano non permette la navigazione dei giganteggianti autotreni senza finire per incontrare un’auto parcheggiata in doppia fila, un autobus in senso contrario o altre insuperabili amenità. Il che significa, in effetti, che tutte le consegne devono essere effettuate da piccoli furgoni, poco più che automobili, ciascuno dei quali produce emissioni velenifere e contribuisce all’inquinamento dell’atmosfera. Immaginate adesso, che cosa succederebbe se i veicoli pesanti fossero dotati di un sistema che gli permette d’inserirsi nei più stretti viottoli, senza sradicare e portarsi dietro un semaforo o due. Esistono naturalmente, diverse tipologie di simili apparati: la prima e più semplice, prevede un telecomando a mano che tramite la pressione di una levetta analogica, permette all’impiegato preposto di direzionare il retro del veicolo nella maniera più pregna ed efficace. Nei modelli più recenti, sarà invece lo stesso guidatore, tramite un sistema di telecamere, a gestire l’impresa dalla comodità della sua cabina. Discorso a parte meritano poi gli approcci computerizzati, in cui il rimorchio non farà altro che seguire, in assoluta autonomia, il preciso tragitto percorso dalla sua motrice. Esistono inoltre svariati tipi di approcci propulsivi, tra cui sistemi idraulici, elettrici e persino cinghie di trasmissione, che al momento di praticare la magia possono sfruttare ed incanalare passivamente l’energia delle (numerose) ruote anteriori. È un approccio infallibile a un problema universale: nel momento in cui il rimorchio acquisisce la capacità di manovrare in maniera indipendente, esso non è più una peso per così dire morto, bensì il secondo occupante di un vero e proprio convoglio, più o meno pensante, ma pur sempre pronto a fare tutto quello che gli si chiede. Ed a quel punto, non c’è un solo piccolo ponte francese che sia ancora in grado di costituire un problema.
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Quanto tempo ci voleva per vestirsi all’epoca di Maria Antonietta?
Esiste un detto anglosassone che recita, letteralmente: “La bellezza non va più a fondo della pelle” (Beauty is just skin deep) che si fonda sull’utilizzo del termine beauty il quale, rispetto al nostro equivalente, ha ben poche connotazioni astratte e in genere, si riferisce soltanto all’aspetto visuale della questione. Un’individuo dal carattere degno d’encomio, in inglese, è più solita ricevere l’appellativo di good person, il che gli permette al tempo stesso di essere deep, ovvero profondo. Questo non ha mai voluto dire, del resto, che al di sopra dell’involucro dell’organismo umano fosse impossibile arricchire se stessi, costruendo in altezza, piuttosto che all’interno dello spazio metaforico dell’io pensante. Portando in tal modo, attraverso i secoli, alla nascita del concetto stesso di moda. Poiché condividere se stessi, la propria figura esteriore e dare un significato evidente alla propria venuta nel contesto sociale, significa condividere dei valori che sono tanto variabili quanto arbitrari, frutto dell’influenza dei pochi e il beneplacito dei molti….Disposti a far tutto, pur di apparire in qualche modo memorabili.
In questa intrigante ricostruzione offertaci da Pauline Rushton, curatrice del dipartimento costumi del Museo Nazionale di Liverpool, Inghilterra, viene mostrato il complesso ed elaborato processo di vestizione di una donna di buona famiglia verso la metà del XVIII secolo, quando l’estetica roboante del tardo Barocco stava già lasciando il passo alle forme più organiche e naturalistiche del Rococò, ma le corti d’Europa sembravano ancora fermamente intenzionate a rendere complessa la vita di chi aspirava, un giorno, a farne parte. Il punto di vista dello scenario mostrato è in effetti esplicitamente British, come reso esplicito dall’opera d’arte ispiratrice della sequenza: il dipinto facente parte della collezione della galleria noto col titolo di “Mrs Paine & Co” in cui due giovani londinesi suonano il clavicembalo sotto lo sguardo rapito di un’anziana signora. C’è una storia interessante dietro a quest’opera datata 1765, del pittore Joshua Reynolds, che l’usò per pagare un architetto dei lavori effettuati sulla sua abitazione: per molti anni la figura della probabile nonna delle fanciulle era stata cancellata tramite l’applicazione di un’ulteriore strato di pittura, prima di essere riscoperta in epoca moderna. Chissà poi perché? L’abito mostrato nel nostro video, ad ogni modo, è una fedele ricostruzione di quello indossato dalla figura in primo piano nella scena. Il che lo colloca in un ambiente che interpretava l’estetica francese soltanto in maniera indiretta, rientrando piuttosto nella corrente che oggi prende il nome di Colonial Dress. Proprio così: stiamo parlando della stessa visione, in materia di abiti femminilio, che di lì a poco sarebbe stata esportata al nascente Nuovo Mondo, e che oltre un secolo e mezzo a venire sarebbe rimasta un punto cardine delle gentildonne del cosiddetto Sud (Alabama, Kentucky, Mississippi, Louisiana… Dritti fino alla Georgia di Via col Vento, ambientato parecchie generazioni dopo). Ma non abbiate dubbi sul fatto che tutto questo, a conti fatti, incidesse in alcun modo sull’impressionante complessità della sua composizione, tale da richiedere, regolarmente, l’assistenza di una o persino due domestiche
Questa procedura di vestizione, così curiosamente simile a quella di un cavaliere che si avvia in battaglia, ne è la prova diretta ed inconfutabile: la scena inizia, per ovvie ragioni, con l’attrice che già indossa lo shift, una lunga sottoveste che costituisce, essenzialmente, l’unica biancheria femminile di quell’Era. Questo per varie ragioni: intanto perché i drawers (una sorta di rudimentali mutande) indossati sotto i calzoni dagli uomini erano visti come eccessivamente mascolini e inadatti alla conformazione fisica delle donne, e poi perché in effetti, sarebbe stato pressoché impossibile slacciarli per andare in bagno sotto i letterali chilogrammi di stoffa che stanno per essere sovrapposti al primo di questi strati. Seguivano quindi degli alti calzini, generalmente di lana, che venivano assicurati al di sopra del ginocchio con dei nastri legati manualmente, talvolta spostati più in basso, quando la signora prevedeva di camminare o danzare nel corso della giornata. A questo punto, si aggiungeva la prima delle petticoat, le sottogonne. Per dare il via a una lunga sequela di aggiunte che dal punto di vista di noi moderni, non può che apparire ai confini del surreale…
L’agghiacciante battaglia dei ratti di Hanoi
Sapete qual’è stato il problema fondamentale del colonialismo? Che non ha importanza quanto una potenza occidentale pensasse di stare “aiutando” un popolo tecnologicamente disagiato, o di fornire assistenza nella stabilizzazione di un potenziale conflitto politico all’orizzonte; ogni singolo gesto, ciascuna infrastruttura edificata costituiva essenzialmente un’imposizione, mirata alla manifestazione di un’immagine ideale che non faceva mai parte, e come avrebbe potuto… dell’ordine naturale della Storia. Così a guardarla, la splendente capitale dell’Indocina francese all’inizio del secolo scorso, vi sarebbe sembrata l’immagine della salute: la zona vecchia delle 36 strade risalente all’epoca della dinastia Nguyễn, con i suoi templi e mercati, i grandi palazzi bianchi del quartiere europeo, la scuola di medicina, un sistema di strade ampie e dall’altro grado di razionalità. Ma al di sotto di questa patina d’equilibrio, oltre i petali del grande fiore, dietro lo stelo, e in mezzo alla terra, già germogliavano i semi del più terribile disordine che la mente europea potesse anche soltanto provare ad immaginare. Nessuno dimenticherà l’orrore, alla presa di coscienza della verità… Che per i circa 150.000 abitanti visibili, accorsi dalle campagne per beneficiare dell’opulenza e i servizi edificati dagli stranieri, ce n’erano all’incirca sei volte tanti, appartenenti alla vecchia guardia, ovvero operanti al di fuori dell’ordine costituito. Esseri striscianti oppure volanti, brulicanti, creature dell’ombra e dell’umidità tropicale, che qui abitavano molto prima degli umani. E che milioni di anni dopo la loro inevitabile scomparsa, saranno di nuovo i signori dell’intero Sistema Solare.
Costituisce una pesante verità di ogni epoca, il fatto che al di sotto di determinate latitudini, la convivenza in grandi comunità di tipo urbano tende a diventare più complessa. Questo perché all’equatore sussistono determinate condizioni climatiche ed ambientali, per cui insetti, rettili velenosi, germi e portatori di germi prosperano più che mai, moltiplicandosi molto più di quanto sia possibile farlo per noi presunti padroni del fuoco e degli elementi, i quali a ben poco servono, quando contrai il colera, il tifo o la peste bubbonica, finendo a patire tra le lenzuola mentre già esse iniziano a trasformarsi in sudario. Ecco esattamente cosa aveva in mente il radicale Paul Dormer, funzionario politico e futuro primo ed unico presidente della Francia ad essere assassinato con un colpo d’arma da fuoco (caspita, quale onore!) quando era giunto in questo luogo ameno nel 1897, in qualità di Governatore Generale dell’Indocina, con un preciso progetto di miglioramento: rendere Hanoi, un po’ come Parigi. Non nel senso della cultura e delle dinamiche sociali, proposito in cui chiunque avrebbe fallito, ma per quanto concerneva l’ordine costituito: sotto il suo rigido ma giusto governo, sarebbero stati completati il ponte di Long Bien, la ferrovia, imposte tariffe sull’importazione dell’oppio e sarebbero stati incrementati i commerci con l’Europa. E poi, si sarebbe portato a coronamento il progetto per le moderne fogne cittadine, un vero punto d’orgoglio in quell’epoca, soprattutto nei remoti territori dell’Asia meridionale. Una cosa… Buona, giusto?
Più o meno. Il problema, semmai, era una questione di disparità civile laddove in effetti, sarebbe stato meglio ricercare l’equanimità. Perché nelle zone abitate dall’elite europea, patria operativa di funzionari, commercianti e ricchi industriali, il sistema dell’acqua corrente e dello smaltimento funzionava in entrambi i sensi e secondo i migliori crismi della tecnica disponibili allora. Mentre per quanto concerneva tutto il resto del centro abitato, era stato giudicato sufficiente un semplice sistema di drenaggio che scaricava nel Petit Lac, il lago sacro legata alla leggenda di un antico guerriero (vedi la fine di questo precedente articolo per la storia della sua tartaruga). Il che significava che nei periodi di molta pioggia, il reflusso fuori dai tombini era qualcosa di assolutamente indescrivibile, che riportava tutto quanto era stato inviato a perdersi sotto gli occhi degli abitanti, assieme a qualcosa di nuovo ed ancor peggiore: migliaia di esseri pelosi e squittenti, che correndo per le strade, andavano a nascondersi nelle intercapedini dell’inconsapevole società. Ora, la popolazione degli occidentali era naturalmente propensa ad ignorare questa spiacevole situazione, considerandola un male endemico di questo luogo essenzialmente incivile, associandola alle condizioni “poco salubri” dello stile di vita vietnamita. Se non che proprio i meravigliosi chilometri di fogne, fresche ed umide, giunsero a costituire un’autostrada da sogno per i roditori, dando luogo alla loro comparsa sempre più frequente nella splendente ville européenne, e persino qualche primo timido caso di peste bubbonica, possibile anticipo di un disastro privo di precedenti. Fu così che il governatore Dormer, dopo attenta pianificazione, assunse una quantità imprecisata di sterminatori tra la popolazione locale. Era il 1902, quando ebbe inizio la grande battaglia dei ratti di Hanoi.
Dietro il forte più famoso dei mari europei
Saldamente impresso nella memoria dei bambini degli anni ’90, quando ancora la Tv francese veniva trasmessa in chiaro fino alla nostra penisola del Mediterraneo, l’imprendibile fortino ha una forma perfettamente riconoscibile. Tondeggiante, compatto, con innumerevoli feritoie da ciascuna delle quali, un tempo, sarebbero emersi altrettanti cannoni. Ma basta gettare uno sguardo sulle foto satellitari di Google Maps, per scoprire come oltre 20 anni di inquadrature, in effetti, non tendessero mai a mostrare l’intera storia della faccenda. Perché dietro la costruzione a pianta ovale come una sorta di piccolo Circo Massimo, se vista da terra, ovvero sul lato ovest, c’è una struttura vistosamente quadrata, usata dalla produzione per approdare in sicurezza, portare i macchinari e il materiale necessari a realizzare quello che potrebbe essere descritto come il primo dei reality show. Stiamo parlando in parole povere di un jackup, la prima e più semplice delle piattaforme marittime, un tempo impiegata per l’estrazione delle risorse energetiche del mare: nient’altro che uno scafo con quattro zampe estensibili, che possono essere posizionate saldamente sul vicino oppure distante fondale. E quindi regolate, affinché la sovrastruttura del battello possa essere elevata a piacimento in base alle necessità, come quella di raggiungere, per l’appunto, un punto d’approdo concepito per l’impiego di antichi e possenti galeoni. E non è certo questo l’unico segreto ignoto al senso comune, tra i molti associati al possente Fort [de] Boyard…
È una problematica realtà sempre presente nella mente di un buon generale, il fatto che la costruzione di un arsenale rappresenti una risorsa bellica di primaria importanza, ma anche un punto debole per il paese che dovrà sfruttarne le risorse in battaglia. Così ogni deposito bellico della storia di Francia, e soprattutto così quello di Rochefort, il principale punto di riarmo, protezione e rifugio per l’intera flotta dei mari occidentali, dall’epoca del Re Sole fino alla sua chiusura nei tempi moderni, quasi tre secoli dopo nel 1926. Un luogo apparentemente arbitrario sulla costa dell’Atlantico, nella regione della Nuova Aquitania, fra le città di La Rochelle e Royan. Ma che costituiva, fin da principio, la base di un piano che l’avrebbe reso del tutto inaccessibile agli eterni nemici inglesi, a patto che il principale sogno architettonico dell’epoca potesse finalmente realizzarsi, grazie alla collaborazione di due grandi ingegneri, Benjamin Descombes e Sébastien Le Prestre de Vauban. Già rinomato progettista di resistenti fortificazioni marittime, il primo, e la singola più importante figura tecnica alla corte di Francia, il secondo, inventore tra le altre cose del concetto stesso di assedio scientifico, e delle sole fortificazioni “alla moderna” che potessero sperare di resistergli per la maggiore gloria del Re. L’idea dunque prevedeva la costruzione di due forti con batterie di cannoni, sulle isole d’Aix e d’Oléron, dinnanzi al punto d’approdo, se non che, col procedere dei lavori, fu d’un tratto segnalato un fondamentale problema: il tratto di 5 Km tra l’una e l’altra era sufficientemente largo perché un’intera flottiglia britannica, assumendo una formazione in colonna, potesse passare indisturbata e raggiungere l’arsenale di Rochefort. E la fortunata conformazione geografica di questo luogo sarebbe risultata del tutto inutile, agli occhi di ogni parte coinvolta, se non fosse stato per la trovata ingegnosa dello stesso Descombes: sfruttare una secca presente nel fondale tra le due terre emerse, nota ai naviganti col nome di loin Boyard, per costruire le fondamenta del singolo forte più incredibile che il mondo avesse mai visto. Un castello essenziale, come la torretta di un gigantesco sommergibile, che gettasse la sua ombra sul mare. Se non che il grande Vauban, a questo punto, espresse la sua opinione, facilmente riassumibile con la citazione diretta: “Sire, sarebbe più facile afferrare la Luna coi denti che costruire in un tale luogo…” Troppo friabile risultava essere, a suo parere, il terreno sottostante, e un’impresa al inumana trasportare i materiali fino alla loro ultima destinazione. Era semplicemente impossibile che nell’attuale ordine delle cose, costruito sulla suprema ragionevolezza e la fiducia del re nei confronti dei suoi nobili consiglieri, si potesse approdare all’effettiva messa in opera di un simile, illogica meraviglia. Il progetto, nonostante le premesse, venne dunque dolorosamente abbandonato.



