Inferno tra il fasciame: l’oscura vicenda britannica delle navi prigione

Così reazionaria, a tal punto improbabile sarebbe stata considerata, all’inizio dell’epoca moderna, l’idea che la prigionia potesse avere l’obiettivo di riabilitare un criminale alla vita civile che nessun tipo di esperienza conseguente dall’amministrazione della giustizia poteva essere meno che spietata, nella realizzazione terrena del concetto karmico di un’aldilà frazionato. Dove da ogni singolo peccato, ciascun errore commesso in vita, potesse conseguire lo squillante suono della frusta, metaforica o talvolta, perché no, letterale. Soprattutto in epoca di guerra! Quale altro ripetuto evento della storia umana, d’altra parte, ha mai portato ad un peggioramento graduale del senso di pietà ed empatia, che almeno in linea di principio dovremmo possedere tutti in egual misura? Vedi la maniera in cui, durante il conflitto anglo-spagnolo del 1739-42, lo scafo della nave di linea HMS Jersey venne pesantemente danneggiato trasformandola in una presenza inamovibile della baia di Wallabout, a New York. Ragion per cui allo scoppio della successiva ribellione delle colonie, più correntemente detta guerra rivoluzionaria americana, fu del tutto naturale trasformarla in ospedale galleggiante e successivamente, qualcosa di totalmente nuovo: un luogo pratico, facilmente gestibile, di mantenere imprigionati i soldati nemici. Prima che la situazione degenerasse nel Nuovo Mondo, dunque, l’idea piacque molto in patria. Tanto che il governo di Londra pensò bene di dare il mandato a un armatore privato, nel 1776, di trasformare tre dei suoi vascelli nello stesso tipo di strutture, finalizzate a rimuovere la pressione delle carceri causata dal rallentamento delle deportazioni attraverso l’Atlantico e verso le altre colonie di Sua Maestà. Si trattava della Justitia (260 tonnellate) la fregata francese catturata Censor (731 tonnellate) ed un mercantile armato destinato ad essere ribattezzato, anch’esso Justitia. L’idea venne dunque giudicata molto presto un successo, portando alla comparsa lungo il corso del Tamigi di una quantità notevole di scafi privati dell’alberatura e perciò ribattezzati con la definizione di hulks, saldamente ancorati e popolati da un gremito equipaggio di guardie e direttori carcerari, mentre ai livelli più bassi venivano stipate quantità enormi di detenuti. Una volta fatta accettare tale vista alla popolazione, dunque, la prassi risolveva una pluralità di problemi; in primo luogo semplificandone considerevolmente la sorveglianza, ma anche offrendo ai potenziali malviventi una visione molto chiara di quale avrebbe potuto essere, da un giorno all’altro, il loro destino. Soltanto parecchi anni dopo, quando le testimonianze di coloro che avevano trascorso mesi o anni della loro vita all’interno di questi battelli cominciarono ad essere pubblicate dai giornali, la popolazione comune iniziò a comprendere quali e quanti fossero i problemi impliciti di questo tipo di approccio al problema…

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L’esempio berlinese del palazzo che contiene un’autostrada metropolitana

Circostanze insolite portano generalmente a soluzioni o approcci poco ortodossi e non c’è stato in epoca moderna un luogo maggiormente fuori dalle situazioni urbani usuali, che l’enclave circondata dal muro di Berlino Ovest, resa in qualche inaspettato modo necessaria dalle consuetudini socio-politiche dello stato dei fatti al termine del secondo conflitto mondiale. Emblema della guerra fredda e simbolo della testardaggine degli uomini al comando, ma anche un luogo particolarmente ambìto residenza perché normativamente esente dalle incombenze ed i doveri civici di un fiero stato socialista, come la parte di Germania allineata con il Blocco Orientale. Il che avrebbe portato, anche al termine del lungo periodo delle defezioni dolorosamente contrastate a colpi di fucile dalle guardie di frontiera, ad uno stato di sovrappopolazione pressoché costante, con una quantità di alloggi disponibili semplicemente insufficienti agli oltre 2 milioni di persone in grado di chiamarla casa all’inizio degli anni ’70. Molte delle quali costrette dalle circostanze a vivere in condizioni disagiate, totalmente opposte a quelle che si sarebbero aspettati all’interno di una cosiddetta democrazia occidentale. Fu dunque nel 1971 che una grande compagnia di sviluppo edilizio privato, la Degewo, diede inizio ai lavori per costruire qualcosa di completamente nuovo: un complesso residenziale composto da due massicci edifici, dislocato come il soffitto di una caverna sopra una delle principali strade di scorrimento del quartiere Rheingauviertel. Coinvolgendo direttamente diversi architetti di larga fama, tra cui Georg Heinrichs , Gerhard Krebs e Klaus Krebs, i quali molto prima delle fine dovettero ritrovarsi a fare i conti con la problematica più comune: i loro committenti avevano esaurito i soldi ed il progetto si era trovato in un impasse procedurale entro un periodo di cinque anni. Inoltre le oltre 250.000 tonnellate usate per costruirlo, inaspettatamente, stavano iniziando sprofondare. Una problematica urgente che avrebbe necessitato l’immediato coinvolgimento del governo in qualità d’investitore, il quale finanziata l’immissione di potenti sbarre d’acciaio nelle fondamenta, avrebbe decretato che una parte significativa dei nuovi palazzi fosse assegnata in qualità di case popolari. Fu dunque proprio questo, il sentiero percorribile che avrebbe condotto l’Autobahnüberbauung Schlangenbader Straße (Complesso Autostradale sulla Via del Serpente) al suo tardivo ma riuscito coronamento nel 1980. Non che nessuno, in seguito, avrebbe continuato a definirlo in questa ponderosa maniera, preferendogli il tipico berlinismo di Schlange o Snake, ovvero molto più semplicemente e metaforicamente, “Il Serpente”. Questo anche per la sua lunghezza di 600 metri sufficiente a renderlo uno dei complessi di appartamenti contigui più vasti di tutta Europa e conseguentemente, del mondo intero. Offrendo un sentiero di possibile risoluzione, per il problema universale di riuscire a restituire all’uomo, i considerevoli spazi urbani attualmente necessari per gli spostamenti degli autoveicoli dal un lato all’altro del centro abitato…

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Cinghiali non eguaglierebbero l’impatto paesaggistico dei pècari sui golf club dell’Arizona

Come l’astronomico frangente di un eclissi planetaria, in cui un corpo celeste attraversa la traiettoria del Sole portando a variazioni inaspettate del tranquillizzante ciclo diurno-notturno, l’invasione di campo da parte di qualcuno può essere sostanzialmente una questione di punti di vista. Chi ha mai detto, in tale ambito, che la coltivazione di significative quantità d’erba all’interno di un clima arido, con conseguente dispendio di quantità d’acqua sproporzionate all’opportunità di far rotolare meglio un certo tipo di palline, dovesse essere un sacrosanto diritto dei cittadini di un particolare stato americano? Ogni cosa, o umano intento di plasmare il mondo a propria immagine, è la derivazione inevitabile del suo contesto. E non è inaudito che fattori trasversali possano riuscire a rovinare la giornata di coloro che si trovano a gestirne l’amministrazione nel quotidiano. Risveglio del presidente del country club Seven Canyons, non lontano da Flagstaff, a nord di Phoenix: una tranquillissima giornata di bel tempo ed ottime speranze per il futuro. Finché non giunge voce, dai primi addetti alla manutenzione, che l’impensabile è riuscito a verificarsi. Dozzine d’entità luciferine, riconoscibili dall’impronta dello zoccolo fesso degli inferi sepolti, hanno oltrepassato le staccionate. E grufolando come belve dell’Apocalisse, hanno rimestato, sollevato, ribaltato le preziose zolle che costituiscono il sangue pulsante dei links. Mentre il timido suggerimento, praticamente automatico da queste parti, di puntare le armi dei fucili all’indirizzo degli intrusi, già si scontra con la problematica realtà dei fatti normativi e vigenti. Poiché i presunti cinghiali o razorbacks (maiali ferali) erano, in realtà, qualcosa di ben diverso. Ovvero gli appartenenti a quella serie di specie a rischio protette da estensive norme contro chiunque abbia l’intento di restringerne il passaggio oppure, Dio non voglia, farne fuori gli esemplari problematici dal proprio soggettivo punto di vista. Non si spara contro il pécari altrimenti detto skunk-pig. Una creatura proveniente dal meridione oltre il muro che sa bene come mettersi a marcare il territorio, conoscendo in modo approfondito l’intero codice delle leggi della foresta. Tranne quella, molto più recente, della proprietà privata ed il rispetto per le attività di giardinaggio e pratica sportiva di eleganti passatempi all’aria aperta. Una mancanza senz’altro comune ad altri tipi di creature dalle dimensioni medio-grandi, che grugniscono alla luna la canzone inconfondibile del proprio popolo necessariamente invadente. Per tutti coloro che credevano, proprio malgrado, di aver posseduto il sacrosanto mandato dell’irrigazione divina. Per poi affrettarsi a rivendicare, come spesso capita, l’accesso e proprietà esclusiva di quanto avevano ri-tinteggiato di verde, dietro il pagamento di tasse opportunamente commisurate al Guadagno…

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La testa del gigante che sorveglia le ossa del castello di Kaliningrado

Nel sistema iconografico dell’animazione fantascientifica giapponese, la squadra degli eroi decolla dall’astronave in orbita dentro la testa dei propri robot antropomorfi, per combattere le presenze indesiderate. Nella Russia sovietica, la presenza indesiderata pratica il base jumping direttamente dalla testa del robot, per girare un video pronto alla pubblicazione online. E meno male che aveva il paracadute! Questo gioco delle inversioni d’altra parte, inventato possibilmente negli anni ’30 dall’autore di musical statunitense Cole Porter, è da sempre stato utilizzato al fine d’identificare le ironiche contraddizioni di uno stato di sorveglianza. Del tipo che parrebbe voler pubblicizzare se stesso la figura della Дом Советов o “Casa dei Soviet”, il massiccio edificio che fu approvato negli anni ’70 per poi restare eternamente incompleto, venendo associato dai locali al quasi-mezzo busto di un colosso sepolto, con le balconate quadrate simili ad occhi per scrutare le tribolazioni dei cittadini sottostanti. 50 metri di cemento brutalista o “futuribile” per dare forma ad un progetto dichiaratamente ispirato al Congresso nazionale di Brasilia, di suo conto disegnato dal celebre architetto sudamericano Oscar Niemeyer. Laddove l’autore di quello che sarebbe diventato il principale avamposto del blocco orientale nel contesto geografico mitteleuropeo, il suo collega vincitore dell’appalto Yulian Lvovich Shvartsbreim, aveva palesemente deciso di premere l’acceleratore con enfasi sul tema del modernismo post-bellico impersonale ed oggettivista, finendo per creare qualcosa di drammaticamente rappresentativo della propria epoca, eccezionalmente alla moda ed al tempo stesso, facilmente discutibile con il senno di poi. L’idea di ispirarsi più o meno direttamente ad una città costruita dal nulla in epoca contemporanea, nel frattempo, sembrò da subito perfettamente calzante, data la condizione derelitta in cui si trovava ancora il centro storico della strategicamente rilevante exclave lituano-polacca, già due volte di troppo coinvolta nei bombardamenti e le battaglie della seconda guerra mondiale. Il che aveva portato, tra le altre cose, al grave danneggiamento del magnifico castello dei Cavalieri Teutonici del XIII secolo della loro omonima Königsberg, demolito infine tra il 1969-70 piuttosto che restaurato a caro prezzo, con la scusa probabilmente scelta ad arte che potesse costituire un simbolo del fascismo storico di questi luoghi (benché gli fosse antecedente di circa 6 secoli, ma tant’è).
Quale miglior luogo, dunque, per edificare un nuovo grattacielo amministrativo dell’altezza di 28 piani, dove i rappresentanti del Partito giunti da Mosca potessero risiedere ed esercitare il proprio potere, in quella che potremmo definire unicamente come una monumentale, ponderosa ed abitabile allegoria…

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