I virtuosi della pala da neve sui tetti dei samurai

Col progredire dello stato di torpore che comunemente segue al tramonto, l’oscurità della notte iniziò a farsi gradualmente più silenziosa. Eppure il vento, che soffiava intensamente dal profilo distante del monte Zubakuro, non sembrava essere calato d’intensità. Al lento muoversi di una luce in cielo, affermazione esistenziale di un aeroplano solitario, si aggiunse improvvisamente il serpeggiare di un milione di particelle. Le quali, muovendosi in alternanza, sembravano accompagnate da un senso incrollabile di nostalgia. “Rendi quella donna / senza cuore, o vento di montagna (yama-oroshi 山颪) / del tempio di Hatsuse, / ancor più crudele! – Questo non è / lo scopo della mia preghiera, eppure…” Sussurrai. In breve tempo, il colore dominante del paesaggio iniziò a farsi pallido e uniforme, mentre il bagliore della luna veniva riflesso da ogni possibile angolazione. A quel punto apparve chiaro che la strada asfaltata per il Ryokan di Yamada era ormai del tutto scomparsa, sotto uno strato compatto e candido, inarrestabile quanto l’erba di primavera. L’inverno, come previsto, era arrivato nella parte centrale dell’isola di Honshu. Ben presto, le finestre del primo piano avrebbero sostituito le porte, mentre il familiare scintillìo della doppia impugnatura di metallo sarebbe tornato attuale, come sui campi di battaglia di molte generazioni fà. E il nome poetico di questo luogo, “paese della neve” (yukiguni – 雪国) avrebbe trovato la sua attesa quanto imprescindibile riconferma stagionale.
Esiste un concetto largamente diffuso per cui i paesi più freddi, ovviamente, debbano essere i più nevosi. Il che trova una logica riconferma in molti luoghi segnati sugli atlanti benché, ce lo insegna l’esperienza, non debba essere necessariamente né sempre vero. Vedi, ad esempio, alcune regioni centro-settentrionali del grande Giappone, dove una particolare confluenza di fattori cospira nel generare un particolare macro-clima, definito per antonomasia nordamericana il cosiddetto effetto lago. I cui effetti risultano estremamente noti a tutti coloro che vivono nella regione del Superiore, il Michigan, lo Huron, l’Erie e l’Ontario, enormi masse d’acqua sopra cui si generano flussi ventosi e carichi di neve, tali da ricoprire completamente persino il più popoloso contesto urbano. Perciò immaginate adesso, soltanto per un attimo, l’effetto di un flusso d’aria che tragga l’origine dall’area di Vladivostok in Siberia, per attraversare con pressante inerzia la vasta distesa del Mare antistante. Il quale, essendo costituito da acqua salata e relativamente calda, non riesce a gelarsi, ma genera condensa, portata immancabilmente a salire per l’effetto della bassa pressione. Quindi questa massa gelida e carica di precipitazioni potenziali raggiunge il cosiddetto paese degli Dei, dove gli stessi rilievi sopra cui trovavano posto gli antichi spiriti fungono da barriera. In attesa che giunga il momento propizio, per scendere a valle e far conoscere alla gente del posto il significato ultimo della parola “bianco”.
Esiste un’espressione in giapponese che, come capita spesso per questo idioma, implica un doppio senso nella sua omofonia: spalare la neve (yuki-oroshi 雪おろし) richiamando il già citato yama-oroshi o vento invernale, con una parte verbale sillabica che riesce a implicare di nuovo il concetto di “buttare giù” qualcosa. Stavolta, tuttavia, da molto meno alto rispetto agli svettanti picchi delle montagne distanti. È l’eterno problema dei tetti delle case, purtroppo incapaci di sostenere pesi al di sopra delle 20, 25 tonnellate di panna montata…

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In un video la classifica dei migliori tipi d’incrocio stradale

Chi ha detto che giocare ai videogiochi non possa contribuire, in qualche maniera trasversale, al bene collettivo della società? Come in questa iniziativa dell’utente di YouTube Euverus, nonché membro della community informale del gestionale urbanistico Cities: Skylines (erede del vecchio SimCity) che applicando svariate modifiche fatte in casa alla logica di funzionamento dello stesso, ha realizzato una delle classifiche divulgative più complete in materia d’ingegneria stradale, molto più completa di quella offerta da una comune enciclopedia. Questo perché qualsiasi progetto simile, con l’aiuto Internet, tende a seguire la strada operativa di un cosiddetto wiki, l’approccio collaborativo che vede l’opera di molti convergere, come il flusso automobilistico di uno svincolo, nel grande flusso che conduce alla meta finale. Sicuramente ci sarebbero svariati appunti da muovere, all’effettivo merito simulativo di tutto questo, anche visto il modo in cui il suddetto passatempo informatico si preoccupa di simulare l’apparato circolatorio del grande organismo normalmente chiamato “città”: automobiline che si sovrappongono a vicenda, talvolta, mancando di occupare specifiche corsie, o che mancano di comprendere il funzionamento di una rotatoria, fermandosi a ogni svolta anche in assenza di un semaforo. Ma come per chi tenta di anticipare le partite di campionato usando l’A.I. di Fifa o Pes, si può almeno affermare che le condizioni siano le stesse per ciascuno dei concorrenti “virtuali”. E poi, nel caso specifico, il vero merito risiede altrove. Non credo in effetti che tra i tre milioni e mezzo di persone che hanno visualizzato la sua creazione a partire da dicembre dell’anno scorso, molti conoscessero la differenza tra un interscambio sovrapposto o a diamante, oppure la varietà di approcci possibili al concetto d’incrocio a flusso continuo. E chi può dire che qualcuno di abbastanza giovane, improvvisamente affascinato da questo mondo, non abbia scelto proprio un simile momento per intraprendere la carriera universitaria che potrebbe condurlo un giorno ad aiutarci nell’ora di punta, croce irrisolvibile dei pendolari!
I diversi incroci sono stati ordinati dall’autore, dunque, a partire dal meno efficiente in assoluto, una letterale equivalenza sottodimensionata della famosa enorme piazza Meskal di Addis Abeba, in cui centinaia se non migliaia d’auto vengono costrette ogni ora ad uno smistamento autogestito senza nessun tipo di semaforo o regola di contesto, in un costante rischio d’incidente miracolosamente sventato. Un letterale caso di realtà che simula la fantasia, visto il modo in cui le automobiline del gioco si ritrovino ben presto in un incastro collettivo persino peggiore del previsto. E le cose migliorano, con un punteggio di traffic flow aumentato da 191 (flusso d’auto… Al minuto? Non viene specificato) mediante l’aggiunta di semafori fino alla cifra di 303, ma è soltanto col diamante di quattro slip lanes (corsie ausiliarie o vie di fuga) che le cose iniziano a farsi decisamente più interessanti, totalizzando 465. C’è quindi un significativo peggioramento con il passaggio alle rotatorie, visto il già menzionato errore di programmazione compiuto in merito dagli autori del gioco, il quale purtroppo non sembra ancora aver trovato una soluzione pienamente funzionale da parte del suo pubblico di appassionati. Ma anche questo, dopo tutto, ha senso nel contesto del mondo reale…

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L’invenzione norvegese dell’unico skilift per ciclisti al mondo

Quando s’inizia ad andare a lavoro in una grande città, avvengono alcuni cambiamenti negli schemi mentali di chi guida che lo portano, per la prima volta, ad invidiare concetti e situazioni del tutto nuove. È impossibile dimenticare ad esempio la prima volta in cui, bloccati temporaneamente a un semaforo, ci si ritrova affiancati da colui o colei che può definirsi tanto eccezionalmente fortunato/a, da poter vivere il proprio pendolarismo a bordo di un velocipede a pedali. Chiusi nella propria letterale capsula di metallo, dietro un parabrezza raffreddato con l’aria condizionata, rivolgere il proprio sguardo verso chi, di suo conto, possiede ancora il coraggio e il diritto di affrontare il clima, le intemperie, quel salutare sforzo dei muscoli finalizzato a raggiungere una meta (assai meno) distante. Un’eventualità che appare tanto più probabile, quanto maggiormente ridotta è la dimensione dell’agglomerato urbano in cui si trascorrono i lunghi anni della propria vita, nel sempiterno rispetto di una curva probabilistica che non può che diminuire col progressivo aumentare di due fondamentali “D”: la Distanza ed il Dislivello.
Così per chi vive a Trondheim nel Trondelag, regione relativamente popolosa della Norvegia, un’estensione di “appena” 341 Km e circa 187.000 abitanti assicurano a una percentuale relativamente elevata di potersi recare spostare facendo ricorso esclusivamente ai pedali e la propria energia muscolare. Tranne che per un piccolo, importante problema: le pendici dell’alto monte Storeya, che gettando le proprie radici verso la parte occidentale del centro abitato, garantiscono un sollevamento discontinuo del territorio fino al di là del tortuoso fiume Nidelva. Il che colloca, esattamente in corrispondenza del Ponte Vecchio (Gamble Bybro) una ripida salita che conduce, tra tutte le mete possibili, alle porte del quartiere Bakklandet dove si trova l’Università. Cinque metri più in alto di dove si era partiti. Ora quando si è studenti o insegnanti in un centro abitato di dimensioni medio-piccole, molto spesso la bicicletta diventa un mezzo talmente pratico e conveniente da risultare praticamente obbligato. Se non fosse per quel singolo tratto di strada il quale, ogni giorno, portava i percorritori a raggiungere l’obiettivo con un residuo senso d’affanno e latente sfinimento.
Fortuna volle tuttavia che, nei primi anni ’90, questo stesso tragitto facesse anche parte dell’esperienza personale di Jarle Wanvik, fondatore e presidente della società ingegneristica Design Management AS, il quale aveva un’idea e a conti fatti, il coraggio di arrivare a vederla realizzata. Ragione per cui, stanco per l’ennesima sudata primaverile o estiva (dopo tutto, da queste parti possono fare FINO A 18-20 gradi!) decise di andare dal sindaco o il suo assessore di turno, proponendo ciò che aveva prodotto l’ultima volta che si era seduto al tavolo da disegno: una sorta di nastro trasportatore da seppellire sotto il cemento cittadino, finalizzato a far muovere un lungo susseguirsi di piccoli vagoni. Alcuni dei quali dotati, ad intervalli regolari, di quello che poteva essere soltanto un appoggio per piedi umani. Nasceva così la prima versione di Trampe, ascensore per biciclette, dispositivo capace non tanto di abbreviare le distanze di un quotidiano tragitto, quanto di eliminare, letteralmente, l’ostacolo che riusciva in qualche modo a tagliarlo in due. A patto di aver richiesto al comune l’apposita scheda perforata, dal costo che possiamo soltanto presumere assai ragionevole visto che dal 2013, come parte di una manovra inclusiva e democratica, è stato completamente ridotto a zero.

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L’importante missione dei furetti nei tubi

Su Internet è particolarmente facile esprimere un giudizio prima di avere sufficienti dati a disposizione, condannando qualcuno per un gesto apparentemente crudele che presenta in realtà uno scopo nobile, persino benefico nei confronti della piccola “vittima” designata. Del resto farebbe anche una certa impressione, all’inizio di questo video prodotto da Barcroft Media, vedere James McKay che solleva uno dei suoi animaletti addestrati, facendolo oscillare su e giù mentre lo tiene per la parte anteriore del corpo, per poi prenderne il fondoschiena e sollevarlo all’altezza della testa, piegando di fatto quella flessibile spina dorsale a 90 gradi. Se non fosse per la qualifica ed il lavoro di costui: fondatore e istruttore capo della Scuola per Furetti Nazionale, una prestigiosa istituzione nel paese di Oxford, Cambridge e la regina Elisabetta. La storia degli inglesi con questo simpatico animale, discendenza addomesticata della puzzola selvatica così come il cane lo è del lupo, è comunque piuttosto antica, risalendo quasi all’epoca nebulosa in cui, secondo gli studi archeologici, l’uomo primitivo scelse di ricorrere all’aiuto di uno dei più scaltri, svelti e potenzialmente mansueti carnivori delle boscose lande della Preistoria. Letterali millenni trascorsi a catturare conigli, estirpare topi e spaventare la volpe all’interno della sua tana, aspettandosi in cambio… Che cosa? Qualche dono di tipo alimentare, rigorosamente a base di carne (queste creature non digeriscono facilmente frutta o verdura) una cuccia sicura e l’affetto del proprio padrone umano, manifestato spesso attraverso manipolazioni soltanto in apparenza “violente”, come quelle dimostrate nello spezzone soprastante, in realtà assai gradite come approccio anti-stress per il vorace mammifero strisciante. Finché raggiunta l’epoca odierna, il ventaglio di possibilità d’impiego si è ampliato, piuttosto che diminuire.
La scena è di quelle capaci di tormentare il sonno di chiunque si occupi di ristrutturazioni, specialmente in case dall’importanza storica pregressa. L’elettricista che, giunto sulla scena del cantiere, sfodera il suo flessibile passacavi per tentare di far raggiungere alla linea l’altro capo di una canalina pre-esistente. Poiché non sarebbe affatto possibile, né in alcun modo proficuo, pensare di rompere il pavimento, il muro o altre parti del prezioso patrimonio architettonico circostante. Così giunto a metà dell’opera, costui che si alza, con una scrollata di spalle: “Impossibile. Ci sono troppe curve a 90°. Non può… Passare…”. Al che si ode nell’incubo la colonna sonora del film Ghostbusters, con il suo ritornello che fa: “Chi chiamerai, chi chiamerai?” Un quesito difficile. A meno di vivere, per l’appunto, presso la city di Londra & dintorni, dove risulta possibile segnalare la propria esigenza all’istituto di studio superiore dall’odore muschiato, l’unico luogo in cui il furetto viene visto come una risorsa, ancora prima che un amico e compagno di giochi per tutti gli amanti degli animali. A venirvi a trovare sarà dunque, idealmente, lo stesso McKay con uno dei suoi striscianti tesorini, scelto tra quelli che si sono dimostrati capaci di completare il “percorso”. Un arzigogolato susseguirsi di gomiti, tratti longilinei, saliti e discese creato in PVC nel giardino della scuola, dedicato ad accrescere uno degli istinti più atavici del Mustela putorius furo, il cui nome scientifico significa in italiano, per l’appunto, “faina puzzolente ladra”. Che nonostante le apparenze non è un trinomio denigratorio, bensì una precisa descrizione delle propensioni innate di una simile creatura, la cui tendenza a prelevare piccoli oggetti (chiavi di casa, monete, telefoni cellulari…) per trasportarli all’interno della sua tana è fin troppo nota, così come l’indole naturalmente curiosa ed inquisitiva. Ragione per cui, una volta messo l’appuntito musetto all’ingresso di un tunnel appena poco più largo di lui, si può essere certi di una cosa soltanto: che il furetto farà di tutto per percorrerlo fino all’estremità opposta. Senza nessun tipo di carico oppure, ed è questo il bello, avendo ricevuto l’orpello di un piccolo gilet di trascinamento, al quale sarà stato legato, con sublime aspettativa, un lungo filo utile a tirare il cavo. E c’è di sicuro una ragione se il Telegraph, già nel 2010, definiva i furetti come il ponte metaforico che dovrà colmare il digital divide, lo scarto tra i servizi digitali disponibili in città e nelle zone rurali, in massima parte non ancora raggiunte dalla banda larga cablata, ovvero le fibre ottiche di ultima generazione. Finché la gente non si troverà a udire quel lieve scalpitìo, di affilati artigli all’interno del condotto, mentre il padrone all’altro capo del passaggio fa il possibile per attirare l’attenzione del suo fidato beniamino. Con risultati, il più delle volte, niente meno che eccelsi…

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