Tapirage, l’arte che usava le rane per cambiare il colore dei pappagalli

Nel folklore di molte popolazioni indigene del Brasile e il resto dell’America Meridionale, ricorre una storia. Del mostro antropofago e distruttore di villaggi, che al residuo diradarsi delle nebbie dovute al miracolo della creazione, camminava minacciosamente sulla Terra, per distruggere e perseguitare l’umanità. Almeno finché i nostri antichi alleati per nascita, gli uccelli, non si misero assieme per contrastarlo, beccando e torturando le sue carni finché di esso non rimasero soltanto gli organi e le ossa. In un banchetto che avrebbe condotto a conseguenze inaspettate: perché la bestia senza nome (oppure, a seconda dei punti di vista, dotata di un numero eccessivo di nomi) possedeva anche il dono di una pelliccia dagli innumerevoli colori, che per la mimesi magica che governa simili processi naturali, si trasferì alle piume dei suoi aguzzini. Così i più veloci e scaltri tra i volatili, come i pappagalli e gli uccelli del paradiso, trangugiando quel pasto furono immediatamente trasformati nell’espressione del variopinto caleidoscopio volatile che ammiriamo tutt’ora. Mentre corvi, merli e tordi, ritardando la loro venuta, dovettero rinunciare a una simile catarsi, potendo contare solamente sulle proprie ali per distinguersi dal popolo legato alla dura lex della gravità.
Per questo l’etnia indios dei Tupi, divisa in innumerevoli tribù cannibali e perennemente in guerra tra di loro nelle giungle dell’Amazzonia, aveva sempre ammirato gli psittacidi come una manifestazione del princìpio divino sulla Terra, cercando per quanto possibile di assomigliarli. Grazie all’applicazione tecnica dell’ars plumaria, quel vasto corpus di conoscenze per lo più ben custodite ed oggi largamente dimenticate, che permettevano di assemblare i prestigiosi copricapi e mantelli indossati, a turno, da sciamani, guerrieri e capi villaggio, con il duplice obiettivo di affascinare il prossimo e incutere timore nei propri nemici. Eppure anche nella ricerca di un simile obiettivo così prossimo alla sacralità, la mentalità dell’uomo è ad un tal punto tesa verso la realizzazione di un’ideale superiore da portare a pretendere sempre il livello ulteriore, l’assoluta perfezione dei dettagli anche a discapito della ragionevolezza ereditata dai suoi avi. Così nacque, per quanto ci è dato di capire in questo campo tutt’altro che approfondito, la misteriosa tecnica del tapirage, come venne chiamato dal primo scopritore francofono Charles-Marie de la Condamine ( 1701-1774) a partire dal termine in lingua galibi tapiré (rosso). Un sistema al tempo stesso crudele ma estremamente efficace, o almeno così si dice, la cui cognizione raggiunse il Settentrione e l’Occidente grazie alla scoperta e classificazione di una particolare specie di rane. Quelle che la cognizione generalista tende ad associare ai veleniferi batraci della punta di freccia (poison dart frog) benché possiedano una secrezione della propria pelle sensibilmente meno letale, appartenendo nei fatti al genere Dendrobates, piuttosto che il comparabilmente più temibile Phyllobates. Ed in particolare ad una specie tanto vistosa e comune da poter venire considerata come un’antonomasia di questa genìa non più lunga di 5 cm, che il celebre naturalista del XVII secolo Georges Cuvier scelse di chiamare, per l’appunto, D. tinctorius. Alla presa di coscienza di uno spietato e crudele segreto, prototipo dei sacrifici compiuti verso la ricerca di quel principio umanamente irrinunciabile della bellezza ad ogni costo…

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Lo sguardo spassionato della volpe che conosce i segreti dell’ecologia tibetana

Per molti anni i critici, filologi, storici e semplici visitatori hanno discusso in merito all’antica questione: a cosa stava pensando esattamente, per lo meno nelle intenzioni dell’autore, la signora in abiti fluenti del Louvre? Colei che dentro un quadro realizzato da un attento scienziato (in proporzioni sorprendentemente piccole, o almeno così si dice) osserva con un mero accenno di un sorriso l’obiettivo della fotocamera ante-litteram, anticipando di parecchi anni l’efficacia comunicativa del profilo personalizzato per Twitter o Facebook. E sebbene sia difficile pensare che Leonardo, all’epoca del Rinascimento italiano, avesse anche una nozione vaga di cosa fosse esattamente, e dove si trovasse il Tibet, è indubbio un certo grado di somiglianza transitoria tra la Gioconda ed una delle abitanti maggiormente rappresentative, sebbene meno conosciute di questo luogo. Vulpes ferrilata è una cugina asiatica del genere di canide, basso, aerodinamico e furbesco, che tanti problemi arrecò agli altri animali della fiabe d’Esopo e i suoi successori. Che almeno al primo tentativo di descriverla, non sembrerebbe presentare un aspetto particolarmente distintivo: naso a punta, orecchie ritte sulla testa, corpo rossiccio nella parte superiore e bianco in quella inferiore, coda ragionevolmente folta che la segue nel suo cammino. Ma è man mano che i contorni si fanno più chiari, e l’animale più vicino, che le sue caratteristiche iniziano a prevalere: le dimensioni piccole, incapaci di superare i 3-4 Kg di peso; la testa squadrata e dalle proporzioni esagerate, quasi si trattasse di un cartone animato; le zampe troppo corte e infine, quello sguardo strano che ricorda la reazione di un pubblico di sconosciuti a una barzelletta raccontata male. Vagamente supponente, certamente carico di sottintesi, gli occhi sottili e la sua bocca ripiegata verso l’alto, in un contegno estremamente dignitoso ma così tremendamente “poco serio”. In altri termini la versione sottilmente diversa di un qualcosa di familiare, che potremmo aspettarci di vedere nei disegni di un naturalista inesperto o in forma tangibile, dall’altro lato del sottile velo tra universi paralleli.
Sarebbe certamente errato, tuttavia, presumere che tale astuta predatrice sia in qualsiasi modo meno attenta o abile delle parenti europee, data la mera necessità per sopravvivere di catturare, con trasporto e reiterata convinzione, ogni cosa piccola, pelosa e commestibile che si aggiri poco cautamente in mezzo all’erba alta della prateria. Il che vorrebbe riferirsi, nella stragrande maggioranza dei casi, al singolo & sfortunato caso dell’Ochotona curzoniae anche detto Pika del plateau (tibetano) roditore dal peso di 140 grammi che potremmo definire l’anello mai mancante tra il coniglio e la marmotta, il cui principale scopo nella vita sembrerebbe essere talvolta, per sua massima sfortuna, quello di moltiplicarsi e offrire la sua carne per il sostegno biologico di un’ampio ventaglio di predatori. Così non c’è alcun dubbio che la volpe delle sabbie, come viene a volta definita con un termine non mutualmente esclusivo, sia perfettamente in grado di riconoscere l’ingresso delle tane sotterranee di una simile preda, scavando e catturandola ogni qual volta se ne presenti la necessità. Benché preferisca, quando possibile e come dimostrato nel breve spezzone dal documentario rilevante della BBC (ce ne sempre uno, spesso con commento del riconoscibile Sir Attenborough) fare affidamento per la caccia su uno stratagemma decisamente più scaltro e funzionale…

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Sfera magica delle mie brame, come riescono a fluttuare le fontane?

“Io Galileo Galilei sodetto ho giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; et in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiuratione.” Eppur… Sentite queste mie parole… Essa poteva muoversi, volendo! Dietro un Obelisco, in fondo alla diritta strada che conduce all’alto Stadio, ove si compiono i destini d’ardue contese, un grosso globo planetario bianco come l’osso, 42 tonnellate di perfetto marmo in equilibrio sopra un plinto grandangolare. In una vasca spesso vuota in questi giorni, circondata dai mosaici di acquatiche o mitologiche creature. É una delle opere più affascinanti nel Foro Italico (o foro mussoliniano) a Roma, firmata dagli architetti Paniconi & Pediconi nel 1935, i quali tralasciarono di dargli un nome e che detiene, ancora oggi, il record mondiale di singola sfera di marmo più grande al mondo. Ma se le dimensioni contano, e su questo non c’è dubbio alcuno, tale arredo può essere considerato ad oggi una visione al tempo stesso profetica e altrettanto priva di quella caratteristica capace, più di ogni altra, di attirare l’attenzione degli spettatori. Poiché allora non riuscirono a vedere, tra le pieghe inarrivabili del cosmo, l’effettivo instradamento dell’acqua che sarebbe servito per donargli la vita.
Peccato. Perché in fondo la parte difficile, di procurarsi un blocco sufficientemente grande, per poi lavorarlo con la massima attenzione ricavandone la forma geometrica dell’assoluta perfezione, era già stata portata a termine in maniera. E tutto quello che serviva, come il fulmine caduto nel laboratorio del Dr. Frankenstein, sarebbe stato un appropriato ugello, collocato ad arte in posizione centrale sotto il logico sostegno della situazione. Il concetto linguisticamente pleonastico di sfera kugel (dal tedesco che vuol dire sfera, creando quindi l’espressione “sfera-sfera”) nasce infatti dal bisogno percepito, per quanto mai del tutto analizzato, di poter disporre di un’enorme cosa tonda che galleggia, per così dire, sopra un sottile velo d’acqua, roteando in modo regolare almeno finché qualcuno, in un’esempio affascinante d’opera d’arte interattiva, non l’afferri con le proprie mani per deviarne il corso predeterminato. Applicando la forza trascurabile di un bambino! Amata particolarmente in luoghi pubblici, centri commerciali, musei americani della scienza e qualche volta piazze cittadine, la kugel in senso moderno nasce dunque svariate decadi più tardi, nel 1986 ad opera della compagnia tedesca Kusser Granitwerke, benché sia possibile che qualcuno avesse costruito privatamente oggetti simili in precedenza, su scala più ridotta. Il concetto di una sfera rotolante interattiva, che non cade e non si blocca pur avendo un peso complessivo di parecchie tonnellate non sarebbe stato possibile prima dell’invenzione delle macchine di taglio CNC, dato il bassissimo margine di tolleranza possibile tra l’oggetto e la sua base, affinché tutto funzioni correttamente e sia del tutto scongiurato il verificarsi d’indescrivibili incidenti. La prima kugel famosa avrebbe trovato collocazione, quindi, nel 1984 presso la città di Zurigo, durante la mostra Phenomena ideata dal celebre divulgatore scientifico Dr.Georg Müller, per poi diffondersi a letterale macchia d’olio nelle diverse nazioni della Terra senza mai diventare, a dire il vero, eccessivamente comuni. Tanto che la pagina rilevante di Wikipedia, ad oggi, tenta d’elencarne la totale quantità esistente non superando le poche dozzine d’elementi, realizzati in ogni sorta di materiale come il marmo, il granito e in rari casi (e su scala più ridotta) persino pietre semi-preziose, quali l’onice e la malachite. Leggenda vuole, tuttavia, che tali sfere rotolanti possano essere MOLTE di più…

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Il volo al rallentatore degli insetti come non l’avete mai visto prima d’ora

L’espressione pratica di un cardine sommerso tra i molti aspetti del senso comune: “Chi ha provato il volo camminerà guardando il cielo, perché là è stato e là vuole tornare.” Affermò Leonardo da Vinci, come corollario dei disegni nei suoi codici dedicati alla tecnologia futura dei trasporti. Svariati secoli sarebbero dovuti passare, tuttavia, affinché il sogno avesse modo di essere portato a compimento, con diversi fallimenti significativi e molto spesso, causa di terrena sofferenza. Questo perché l’ingegnere tipo, con il naso rivolto verso l’alto, tentava d’imprimere nella sua mente la potenza, leggerezza e splendida leggiadrìa degli uccelli, tentanto di riprodurne le caratteristiche a una scala superiore. Ma il delicato rapporto tra peso, potenza e aerodinamica non può essere adattato in scala, così come 10 lupi non riescono a cacciare un bufalo che raggiunge circa un quarto della loro massa complessiva. Altrimenti, come potremmo spiegare gli effettivi risultati raggiunti dagli insetti, i più piccoli tra gli esseri capaci di sfidare (e vincere!) la forza gravitazionale della Terra, attraverso movimenti scattosi e sconclusionati, spesso imprecisi e qualche volta, addirittura, surreali…
Una visione forse non conforme allo stereotipo della questione, che riesce tuttavia ad essere particolarmente chiara una volta che ci si approccia all’ultima creazione di Adrian Smith, ricercatore presso l’Università della North Carolina che ha così scelto di puntare l’obiettivo di una telecamera con alta velocità di aggiornamento contro “I primi 10 esseri” che gli è capitato di trovare. Perché è chiaro, dall’osservazione del presente video, che se dalle nostre parti mettere circondare col retino una luce notturna a ultravioletti ci regala mosche, falene o zanzare, all’altro capo dell’Atlantico può regalarti l’occasione di conoscere qualcosa d’inusitato. A cominciare dal fuori programma, usato per rompere il ghiaccio e dare inizio alla sequenza, in cui un’ostinata e non meglio definita pteroforida (appartenente al gruppo informale delle “falene piuma”) si solleva in volo solamente con lo sprona della testa di un pennello, mostrando qualche problema a controllare l’assetto delle sue quattro ali ricoperte di una fitta peluria. La situazione inizia quindi a farsi più controllata con l’ingresso nella scena di una lucciola Photinus pyralis, tipica del Nuovo Mondo, che con piglio quasi marziali alza le sue elitre, elementi del carapace che proteggono le ali, scoprendo quest’ultime poco prima d’iniziare delicatamente a fluttuare. Ed è qui che iniziano le sorprese, di una carrellata estremamente interessante di creature scelte proprio perché mai documentate prima per immagini finalizzate a questo particolare ambito d’approfondimento: il coleottero infatti, dopo aver alzato le zampe anteriori con un gesto che ricorda quello di Superman, inizia a battere in maniera ritmica non solo gli arti aerodinamici finalizzati al volo, ma anche le loro stesse coperture, contribuendo in qualche modo alla perturbazione che produce la sua portanza, in maniera matematicamente difficile da prevedere. Le sorprese continuano, quindi, con la falena dipinta dei licheni (Hypoprepia fucosa) un’erebide descritta per la prima volta nel 1831, benché nessuno si fosse mai preoccupato di notare l’intrigante maniera in cui le ali si flettono durante il volo, piegandosi e invertendo totalmente l’angolo di attacco, mentre l’insetto calibra attentamente l’inclinazione e l’obiettivo finale del suo tragitto. “Sembra quasi di stare guardando un effetto speciale fatto al computer o un modellino animato di cera” afferma a questo punto ammirato il Dr. Smith, quasi rendendosi conto all’improvviso delle vette artistiche raggiunte quasi accidentalmente, mentre tentava, assai candidamente, di proporre al pubblico un qualcosa che nessuno aveva mai tentato prima di allora…

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