La torre in rovina che costituiva il perno al centro della ruota di un grande Impero

Ci sono molti vantaggi logistici nella costruzione di una città dalla pianta perfettamente circolare, dalla viabilità alla collettiva vicinanza ad una serie di edifici particolarmente rilevanti, frequentemente collocati al punto d’incontro dei raggi che convergono dalla circonferenza esterna. Simili soluzioni urbanistiche, d’altronde, tendevano ad avere un marcato significato simbolico, benché nei tempi antichi fosse difficile per l’uomo comune assumere un punto di vista sopraelevato simile a quello degli uccelli, tale da apprezzare l’ingegno estetico manifestato dai progettisti originali di un sito tanto attentamente pianificato. A meno che, questione a conti fatti interconnessa strettamente a tali contingenze, potessero salire in cima ad una torre, un punto di vantaggio artificiale in grado di elevare lo spirito ed il corpo dei visitatori inclini ad ammirare un panorama frutto di tali specifici ed approfonditi accorgimenti. Di un luogo come Gor nel distretto di Firuzabad, nello sharestan di Fars situato nella parte meridionale dell’odierno Iran, famosa per l’enorme monolite noto come il Minar o Minareto un tempo alto più di 30 metri, considerato possibilmente la prima torre di una tale dimensione costruita da una civiltà mediorientale. È importante notare, tuttavia, come un tale disposizione tanto caratteristica ed il centrale edificio non siano sempre stati indissolubilmente associati a questo luogo, un tempo assai diverso prima che la sua originale iterazione venisse totalmente raso al suolo da un potente nemico. La città sarebbe infatti entrata a pieno titolo nella grande narrazione della Storia attorno al IV secolo a. C, quando venne faticosamente conquistata da Alessandro Magno tramite l’impiego di un lungo stratagemma. Ne parlarono gli storici coévi di entrambe le culture, con magniloquenti descrizione della perseveranza del condottiero macedone, il quale risultando impossibilitato a superare le alte mura dell’insediamento appartenente all’Impero Achemenide (550-330 a.C.) parzialmente circondato da invalicabili massicci montuosi, fece costruire dal suo esercito una diga sovrastante gli avversari asserragliati, che rimase in posizione per un periodo di ben 4 anni. Finché ritenendo di aver costituito un bacino idrico sufficientemente vasto, Alessandro non rimosse l’ostruzione, causando un’inondazione devastante che rimosse totalmente Gor dalle vie commerciali della sua Era e quelle immediatamente successive. Di Gor, o per meglio dire quello che ne rimaneva, non troviamo alcuna testimonianza per almeno cinque secoli, finché verso la fine del successivo impero Partico o Arsacide (247 a.C.-224 d.C.) costituito dalla tribù nomade scitico-iranica dei Parni, il figlio di uno scià provinciale, l’uomo che sarebbe passato alla storia come Ardashir o Artaserse I, non decise di averne avuto abbastanza, e spodestando suo fratello maggiore Sapore alla morte del padre Papak, non indossò autonomamente la corona del ripristinato regno di Istakhr. Ribellandosi al potere centrale e battendo il proprio conio, un gesto in grado di suscitare più di qualsiasi altro l’ira dei dominatori partici, che mossero immediatamente guerra contro la sua nazione. Per una campagna che si sarebbe rivelata maggiormente ardua, dal punto di vista pratico, di quanto avessero mai potuto immaginare…

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Nuovi archi micidiali creati dal guerriero post-apocalittico della Cambogia

La differenza tra colui che pratica una disciplina di tiro per sport e tutti quelli che ne richiedono l’impiego per semplice sopravvivenza, è che i secondi cercheranno ogni possibile vantaggio a loro possibile disposizione, per incrementare la probabile riuscita di ogni singolo colpo vibrato, ciascuna freccia scagliata all’indirizzo dell’obiettivo di turno. Il che include, oltre alla preparazione fisica e mentale, la ricerca di strumenti figli del contesto ma non propriamente “legittimi” per quanto concerne la loro collocazione tra il novero dell’arcieria contemporanea o proveniente da qualsiasi tradizione pregressa. Contesto come quello del distante meridione asiatico, dove l’utilizzo delle due ruote costituisce un pilastro letterale degli spostamenti umani da un luogo all’altro, con conseguente produzione collaterale di una grande quantità di biciclette vecchie, abbandonate o dismesse. Veicoli giunti ormai ben oltre l’ultima stagione della propria vita operativa, costituendo unicamente un cumulo di materiali che potrebbero in teoria, un giorno, andare incontro al riutilizzo frutto delle istituzioni civili. Eppure, nel frattempo, c’è qualcuno che parrebbe aver già dato inizio a un tale fuoco dell’ingegneria applicata. E il nome d’arte di costui è Cambo, chiaramente adattato da quello del suo paese di provenienza, benché un doppio richiamo sia possibilmente intenzionale al più bellicoso ed attrezzato dei personaggi portati al cinema da Sylvester Stallone. Con un gusto estetico espresso dai suoi video che potremmo idealmente ricondurre a quel tipo di cinematografia anni ’80 e ’90, in cui l’ingegno del protagonista tendeva ad andare di pari passo con un fisico atletico e l’assoluta mancanza di prudenza quando ci si trova in situazioni a dir poco distanti dal nostro vivere quotidiano. Come alle prese con mostri alieni, robot venuti dal futuro e perché no la necessità di procacciarsi il cibo, in un luogo in cui la porta del supermercato non è necessariamente facile da raggiungere per tutti, né dal punto di logistico che quello concettuale. Ma come c’insegnavano già l’Iliade e l’Odissea, ci sono almeno due modi per affrontare le possibili difficoltà che si dipanano lungo il corso dell’esistenza. Ed è soltanto il secondo, a permettere la creazione di un cavallo di legno abbastanza capiente da contenere una mezza dozzina di eroi!
Equino d’ebano piuttosto che, volendo, anche un tipico implemento d’offesa ricavato dall’alluminio, laddove l’offesa prevede di trafiggere creature acquatiche con dardi acuminati, grazie all’impiego di un sistema particolarmente innovativo e personalizzato. Che il titolo dei video sull’argomento non esita a definire double bow (arco doppio) benché si tratti di un’espressione piuttosto rara nel settore, in genere riferita unicamente a un’arma piuttosto rara del tardo Medioevo, consistente in una versione ad X dotata di doppia coppia di flettenti piatti, concepita al fine di lanciare una coppia di frecce in rapida successione. Laddove il tipo di strumenti impiegati dal nostro amico d’Oriente appaiono piuttosto simili ad un’altrettanto rara concezione di uno degli attrezzi più antichi della Terra, collocabile potenzialmente in un contesto di tipo nord-americano e tra i nativi delle tribù della confederazione Wabanaki, situati principalmente nel territorio dell’attuale stato del Maine e parte del Canada meridionale. I quali, non potendo disporre di legno sufficientemente flessibile in tali territori al fine di creare archi del tipo a noi maggiormente familiare, avevano pensato ad un approccio molto pratico per la risoluzione di quel problema…

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L’effimera precarietà di chi tocca l’acqua con le ruote dell’aeroplano

Gli occhi lievemente lucidi e del tutto spalancati per l’ingente quantità di birra che aveva appena finito di trangugiare, il gioviale Oscar avvicinò le mani al fuoco, mentre assumeva un’espressione a metà tra il diabolico e l’entusiasta. Rivolgendo uno sguardo al suo pubblico eterogeneo, rivolse un breve cenno all’indirizzo della Luna, prima d’iniziare ancora una volta la disanima del suo racconto: “È la verità, vi dico. L’ho visto personalmente la scorsa estate, mentre mi trovavo sulle sponde del lago Santa Lucia. Con i coccodrilli che spalancavano la bocca spaventati, mentre un’intero stormo di fenicotteri tentava di eclissarsi alla velocità massima consentita dalle loro ali. La ragione di tutto questo? Un piccolo Piper giallo assolutamente privo di galleggianti, in prossimità dell’orizzonte, che si era progressivamente avvicinato all’acqua fino ad innalzare un’onda simile a quella del motoscafo. Un’eventualità apparentemente impossibile, finché non mi resi conto di quello che stava effettivamente succedendo: il pilota era letteralmente “atterrato” sull’acqua, che per buona misura era diventata rigida come la pista di un aeroporto! Strizzando gli occhi, allora, la vidi: la coppia di pneumatici anteriori del carrello d’atterraggio, parzialmente immersi sotto il pelo della superficie trasparente. Costui li stava, a tutti gli effetti, lavando…” Ci furono alcuni secondi di silenzio nell’accampamento di quell’affiatato gruppo d’amici, uniti da una passione di lunga data per il buon cibo e la storia dell’aviazione. Quindi una serpeggiante risata, progressivamente, si trasformò in un sonoro schiamazzo mentre i più vicini facevano a turno dargli pacche sulle spalle. Tutti conoscevano Oscar e la portata spesso improbabile delle sue storie. Senza nulla togliere alla chiara finalità di far divertire il prossimo, espresso con ogni singola fibra del suo modo di fare. Eppure una persona, in prossimità della tenda più vicina, lo stava scrutando con espressione intensa al candido risvolto di quei momenti. Circa una mezz’ora dopo, con la festa scemata e già diversi membri della congrega recatosi a riposare all’interno dei propri sacchi a pelo, Scully Levin lo avrebbe preso da parte, rivolgendogli una raffica di domande particolarmente impegnative. “Quanto credi che andasse veloce? L’aereo era parallelo al suolo? Aveva abbassato i flap? L’assetto ti sembrava stabile o veniva corretto di continuo?” Quasi come se veramente, la mattina successiva, l’esperto pilota tra i più vecchi membri del gruppo avesse maturato l’intenzione di tentare la stessa impresa.
Le cronache non riportano, in effetti, l’esatta data di questi eventi né l’orario in cui lo spericolato utilizzatore di velivoli avrebbe dato corpo al suo sogno di rendere un potenziale volo pindarico, tangibile ed impressionante verità. Appare ragionevole pensare d’altra parte che Levin abbia vissuto quest’esperienza attorno all’anno 2006, quando chiamando a se il gruppo affiatato della propria squadriglia acrobatica, i Flying Lions a bordo dei loro iconici Harvard col motore ad elica, decise di mettere in pratica la manovra dinnanzi a un pubblico riunito sulla sommità della diga Klipdrif, in prossimità di Potchefstroom. Siamo, come potrete forse aver già capito, nella parte settentrionale del Nord Africa, dove il pubblico apprezzamento per le più ineccepibili imprese compiute con mezzi volanti a motore è tale da aver permesso nelle ultime decadi la proliferazione di una notevole quantità di stormi privati ed autogestiti, estremamente competitivi nel contesto degli show di settore. Ed ogni novità possibile viene accolta, in genere, con considerevole entusiasmo collettivo…

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Come corrono le auto di legno fatte in casa sopra il ciglio di un burrone in Ecuador

Alla velocità di almeno 35 Km/h, la sferragliante automobilina sembra perdere momentaneamente il controllo, scivolando inesorabilmente verso la banchina. Per un attimo i secondi sembrano fermarsi, poco prima dell’impatto contro un fuoristrada parcheggiato, per l’appunto, a lato dell’asfalto ruvido e impietoso. Il colpo è abbastanza forte da spostarlo, incredibilmente, mentre i due occupanti si rialzano del tutto illesi. Un miracolo? Superflua, persino sopravvalutata è la presenza di un motore dentro la struttura del veicolo… Poiché quello che davvero conta non è il rombo di quel meccanismo, ma il sibilo dell’aria stessa. Metafora evidente del concetto transizionale del viaggio, spostamento dal principio Alfa fino al termine della sequenza. Nell’implicita misura progressivamente prolungata, tanto spesso fatta il fondamento della percezione umana! Quando prati, alberi e auto parcheggiate si susseguono veloci ai margini del campo visivo e parimenti nello spazio che si trova in mezzo, tra la mente e le sinapsi del cervello stesso. Sostituendosi a problemi, pensieri ed indesiderabili rimorsi. Questo è il merito collaterale, d’altra parte, della “zona” ovvero il “terzo luogo”, il recesso dove si trascendono i pressanti limiti dell’essere umano. Per riuscire a diventare, almeno temporaneamente, spiriti del tutto liberi e gloriosamente disconnessi dalla quotidianità. Tramite una serie di aspetti del tutto arbitrari, e che ne dite dei seguenti? Punto primo: il gioco. Punto secondo: la competizione. Punto terzo: il pericolo. Così come perseguito, tramite l’evoluzione progressiva, nell’odierna iterazione dell’attività “sportiva” maggiormente amata in uno dei paesi più montuosi dell’intero continente sudamericano. L’unico vero cappello del serpente andino, dove l’altitudine media delle città supera agevolmente i 2.000 metri, tra alcuni dei paesaggi più appassionanti immaginabili nel grande cerchio geografico del mondo. Un presupposto certamente valido, nonché innegabilmente utile, per l’idea alla base di una simile avventura alla velocità di una cascata. Che si concretizza annualmente, tra ottobre e novembre, nelle feste patronali e della fondazione di siffatte comunità montane, secondo una pregiata tradizione assai diffusa, ineccepibile nel proprio tracotante laicismo e le attuabili presenti applicazioni iterative. D’altra parte non può certo scomparire, ciò che ha la caratteristica di essere davvero entusiasmante. Nella specifica maniera chiaramente dimostrata in questo video on-board, frutto del desiderio di condividere di uno dei partecipanti alla notevole Fiesta de Alausí, dedicata al personaggio di San Marcial (Marziale) vescovo missionario del III secolo d.C, battezzato e convertitosi direttamente grazie all’intervento di Pietro. Che una volta usciti tutti dalla porta della chiesa, comporta questo: la rutilante, roboante, incombente carovana di corridori, impegnati nella prestigiosa carrera (corsa) delle coches de madera (auto di legno) finalizzata a determinare, una volta per tutte, chi sia il più rapido tra gli abitanti del paese nel riuscire a raggiungere la linea del traguardo. Mentre osserva e mantiente attuali, nello schema dei suoi gesti, una serie di regolamenti tutt’altro che improvvisati…

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