Donkey Kong, in stop motion sopra un telo

GuizDP

Se guardi King Kong al contrario, diventa la storia di un gorilla gigante che salva una donna dalla cima dell’Empire State Building, viene portato in giro per il paese in tournee e infine, per gratitudine, caricato sopra una barca e traghettato verso un’isola del Pacifico, suo habitat naturale. Se ci provi con l’equivalente ludico uscito dalla mente di Shigeru Miyamoto, colui che negli anni ’80 creò Super Mario, le cose diventano più complicate. Ci sono la scimmia, la donna e il grattacielo (ancora in costruzione) mancano le implicazioni conflittuali e la morale ecologica di fondo, così moderna e attuale. Si trattava pur sempre di una storia d’amore. Una, però, narrata con fiamme o barili rotolanti, al ritmo cadenzato di *kajingle* o *twingle* colonna sonora improvvisata e tutt’altro che casuale. Il gioco trovò la sua origine da un bisogno. Quello, da parte di Nintendo, di riciclare una grande quantità di cabinati arcade rimasti invenduti dopo il fallimento commerciale Radar Scope, un ben più consueto sparatutto spaziale. Il successo del prodotto sostitutivo, ovvero lo storico Donkey Kong, fu enorme, specie in seguito all’uscita dei sequel e anche successivamente, grazie alla conversione casalinga per il NES (1983) la console giapponese che, solitaria e splendida, riemerse dal grande crash dell’industria, avvenuto in quegli anni a causa della bassa qualità di molti giochi americani. Il NES, o come lo chiamavano qui da noi “Il Nintendo” aveva dal canto suo il grande problema dell’efficienza costruttiva, tutt’altro che puntuale. In particolare, molti ricorderanno il continuo bisogno di soffiare, prima d’iniziare. Il meccanismo di carica con la molla per le cartucce dei giochi, a volte, non consentiva una perfetta lettura dei contatti metallici, specie quando questi ultimi fossero sia pur lievemente ossidati e/o ricoperti dalla polvere. Il processo di avvio era in realtà pressocché randomico (diciamo che su 3 o 4 tentativi, l’ultimo avrebbe funzionato) ma un colpetto d’aria polmonare sembrava che aiutasse, il più delle volte. E pensare che ci sarebbe bastato un telo nero, qualche pezzetto di plastica e una piccola dose di fantasia! Almeno così è, a giudicare dall’ultimo video di GuizDP, youtuber esperto di ogni branca del geekdom digitale interattivo e

Tutto inizió nella sala giochi. La narrazione era semplice ma funzionale, e trovava il suo svolgimento attraverso quelle che potrebbero definirsi le prime scene animate del mondo dei videogame. Il rossovestito idraulico del Regno dei Funghi, a quei tempi, faceva il falegname e usava farsi chiamare Jumpman. Aveva una fidanzata, Pauline, e un migliore amico, il suo animale domestico prediletto: tutti lo chiamavano Donkey Kong (scimmia-asino). Lui era instabile e permaloso, tanto che un giorno si ribellò, prese Pauline sotto braccio e scappò via. Chissá poi perché! Il giocatore di allora, richiamato da quell’orecchiabile sonorità, doveva scalare un ferroso cantiere edilizio e salvare la donna dalla scimmia, nei panni dell’intraprendente eroe della situazione. Il dramma, specie se confrontato con le alternative di allora, era palpabile e coinvolgente. Niente astronavi, alieni cubettosi o pacpalline mangia-palline, al posto loro soltanto quel grande sentimento che fu alla base del dolce stil novo, lo stesso di cui era solito parlare il Petrarca e che sublimò intere generazioni di nobili cavalieri.
Il punto forte, poi, era il dialogo. Non tra i personaggi, s’intende, ma fra la macchina e il suo utilizzatore, tramite un linguaggio fatto di squilli, pressioni di tasti e lampeggiamenti numerici, più elaborato che mai prima d’allora. Miyamoto, come certi autori del mondo del cinema, ha uno stile fondamentalmente riconoscibile, che nasce da una profonda comprensione del suo media elettivo. Ovvero, secondo lui qualsiasi gioco, ridotto ai minimi termini, non è che una serie di gesti da effettuare in sequenza, sulla base di quello che avviene a schermo. La narrazione, la grafica, tutto il resto vengono dopo. Ad esempio Pikmin, la sua ultima e più sofisticata creatura, è di una complessità visuale fuorviante, che si traduce in estrema chiarezza e semplicità procedurale. Cento e più personaggi che si muovono su schermo contemporaneamente, in ogni direzione, controllati attraverso uno stick analogico, tre tasti e un puntatore. Ci sono giochi d’azione tridimensionali con un protagonista soltanto, come Ninja Gaiden o Devil May Cry, che richiedono a chi li affronta una maggiore quantità o varietà di input. Ed anche questo è bello, ovviamente, per ragioni del tutto differenti.
Però la semplicità dei controlli ci riporta con la mente ad un’epoca diversa, in cui l’obiettivo era nei metodi, piuttosto che nel contesto. Quando saltare un barile bastava a salvare il mondo e non serviva una storia narrata per filo e per segno. Quella la facevamo noi, giocando.

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