L’artista che libera la maschera nascosta nel midollo di un cipresso giapponese

Riesci a sentirmi, non è vero? Percepisci il mio bisogno di assumere una forma tangibile, per poter raccontare la mia storia? Sono la consorte imperiale del palazzo di Chikuzen. Ma tu puoi chiamarmi, più semplicemente, Ko-omote (小面). La “maschera di una giovane donna” questo diventò il mio nome, attraverso le plurime generazioni drammaturgiche trascorse nella storia del vasto Giappone. In un’epoca remota dei nostri trascorsi, dissi al giardiniere di mio marito che sarei andato ad incontrarlo dietro al pozzo, se soltanto avesse suonato il tamburo che avevo precedentemente nascosto nel cavo di un albero di alloro. Ma lo strumento era fatto con l’intreccio tessile della saia. Ed a causa di ciò, non poteva suonare. Quando se ne rese conto, egli saltò nel pozzo per togliersi la vita. Come credi che mi senta, adesso… In seguito, naturalmente, ebbi modo di reincarnarmi: presi il nome di Rokujo e diventai l’amante del Principe Splendente, l’uomo più magnifico dell’intera corte imperiale Heian. Ma quando sua moglie restò incinta di un erede, egli mi abbandonò senza troppe cerimonie. Per questo la perseguitai durante il sonno in forma di hannya (般若 – spirito vendicativo) necessitando di essere esorcizzata prima che portassi anche lei al suicidio. Di sicuro non è priva di una tragica complicità la vita di una giovane donna, all’interno delle storie che costituiscono il patrimonio letterario del teatro Nō! (能 – “abilità”)
Il che vuol dire d’altra parte vivere più intensamente, dal momento stesso in cui veniamo appese al volto di un attore per salire su quel palcoscenico che rappresenta il megafono di quei racconti. Poiché quest’arte performativa antica e intrisa di una fama leggendaria, fin dall’epoca della sua genesi remota, rappresenta una questione tipica dal mondo dagli uomini e portato in scena solamente da loro. Laddove il nostro tocco, al giorno d’oggi, può iniziare ad essere determinante almeno da un punto di vista. Quello che consiste nel creare, con perizia imprescindibile, l’aspetto esteriore più d’ogni altro necessario sopra il palcoscenico di tale contingenza ripetuta: le maschere dei personaggi, siano questi benevoli, malefici o funzionali in altro modo all’economia del dramma. Così come ci mostra l’artigiana Mitsue Nakamura, già protagonista di un articolo redatto per il New York Times lo scorso marzo, all’opera nel suo laboratorio dov’è solita scolpire, un colpo alla volta, i volti riconoscibili di un metodo performativo rievocato con cadenza persistente, che aspira almeno in apparenza all’eternità. Non c’è una singola forma di teatro più antica, d’altra parte, praticata ancora oggi con la stessa assidua concentrazione, fin dalla remota accettazione del giovane Zeami Motokiyo presso la corte del terzo shogun di epoca Muromachi, Ashikaga Yoshimitsu (1358-1408) che ne aveva fatto il proprio consulente artistico ed, oggi siamo inclini a desumere, amante. Permettendogli, assieme al padre Kan’ami Kiyotsugu di ridefinire ed adattare l’ampio canone creativo delle danze, rappresentazioni sacre e lazzi popolari in una forma di esibizione più codificata ed attenta, così calibrata per le aspettative di una classe nobile tra le più colte ad essere mai esistite in questo paese dell’Estremo Oriente. Da cui un complesso stile, precise movenze. Ed il metodo così caratteristico, di controllare e veicolare le espressioni del volto..

La faccia realizzata in questo caso dall’esperto fabbricante Tatsuya Arai è quella di Okina (翁) “l’anziano”. Divinità benevola e frequente Deus ex machina delle vicende, la cui bocca articolata si richiama alle più antiche maschere del teatro Sarugaku (猿楽) antecedente al XIV secolo.

Chiunque giudichi una maschera intagliata da un singolo blocco di cipresso (檜 – hinoki) come immobile o priva di sfumature non si è d’altra parte mai trovato al suo cospetto mentre si agita sul palcoscenico (舞台 – butai) innanzi al volto di un abile attore protagonista (仕手 – shite) capace di sfruttarne le caratteristiche frutto di lunghi secoli di perfezionamento procedurale. Poiché ogni maschera come quella creata dall’esperta Nakamura, praticante di quest’arte fin dai remoti anni ’80, rappresenta la realizzazione di un sofisticato tipo d’illusione ottica. In cui la forma della bocca, l’orientamento degli occhi ed altri sottili dettagli nelle linee e nelle rughe del suo volto vengono accentuati o messi in secondo piano in base all’inclinazione con cui viene tenuta. Perciò se il figurante guarda verso l’alto, essa sembrerà felice o in qualche modo ispirata. Mentre scrutando nella direzione opposta, evocherà un sentimento di tristezza, rabbia ed introspezione. Così è possibile affermare che il teatro Nō possa rappresentare una forma drammaturgica tutt’altro che inespressiva, contrariamente a quanto si potrebbe essere inclini a credere, benché ciò rappresenti soltanto uno dei molti accorgimenti messi in opera da un esperto fabbricante delle sue maschere (能面 – nō-men o 面 – omote). Le quali sono il frutto di un intaglio a mano libera tramite l’impiego del particolare scalpello che prende il nome di tō – 刀 (let. “spada da samurai”) affondato più e più volte nel ruvido blocco di legno, fino all’ottenimento della forma generale desiderata. Punto in cui le cose iniziano a farsi difficili, soprattutto per il desiderio, tipicamente perseguito dai creatori di tali oggetti, finalizzato a donargli un aspetto antico e venerabile, così come desiderato dalla maggior parte di coloro che li visitano con l’intenzione di effettuare un acquisto. Così che lei, come da prassi del suo settore, impiega una miscela di polvere di conchiglie dopo aver verniciato il volto della maschera, al fine di dotarla di un’estetica consumata capace di aumentarne esponenzialmente il valore. Nessuno che non appartenga a tale ambiente, d’altra parte, potrebbe commentare o comprendere il complesso tipo di legame che deve crearsi tra un maschera ed il suo shite, ogni qual volta egli la indossa innanzi ad uno specchio prima di entrare in scena. Così come racconta di aver fatto per anni la stessa Nakamura al fine di riuscire a completare adeguatamente i suoi progetti, guardando in alto e in basso in modo ritmico, prima di giungere alla sicurezza dei suoi gesti frutto di lunghi anni di successi e crescenti quotazioni tra i possibili mecenati della sua arte.

Progetto per lungo tempo appannaggio dei soli uomini, probabilmente a partire dall’epoca Muromachi e non prima di allora, l’intaglio delle maschere del Nō sta diventando in questi ultimi tempi maggiormente inclusivo. Come dimostrato anche dalla giovane Keiko Udaka, qui alle prese con soggetti di diversa natura.

Mantenuto in vita da un periodo più lungo dello stesso teatro Shakespeariano, il Nō giapponese rappresenta una visione dall’alto grado di specificità di quale possa essere l’appropriata metodologia per mettere in scena il sentimento e le peripezie vissute dall’umanità. Così come testimoniato dalle oltre 2.000 opere divise in 5 generi, richiedenti una totalità di 450 maschere all’interno di 60 categorie differenti. Il che non significa, d’altronde, che non sia possibile incrementare ulteriormente il catalogo, come dimostrato dalla stessa Nakamura ed altre giovani creatrici del settore, maggiormente inclini rispetto ai loro colleghi uomini a creare opere fatte per essere indossate anche fuori dal palcoscenico del butai, offrendo l’opportunità di veicolare sentimenti o suggestioni del tutto prive di precedenti. Nella maniera che non sarebbe mai stato possibile immaginare, prima della rinascita di questa forma drammaturgica a seguito del suo periodo di accantonamento, per gli ideali modernisti e riformatori del periodo della Restaurazione Meiji (1868-1889). Poiché non c’è mai un rapporto di conflitto percepito, tra antico e moderno, oltre le coste dell’arcipelago più celebrato dell’Estremo Oriente. Per la sua capacità inerente di riuscire a trasformare un gesto semplice in qualcosa di eccezionalmente raffinato ed antico. Senza per questo lasciare che possa cristallizzarsi, in forme dal poco utilizzo pratico e significato ormai desueto. Non era forse proprio questo, più di ogni altro, il mestiere imprescindibile di un vero samurai?

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