Nella quotidiana ricerca personale di specie ritenute ormai estinte, come nel caso degli UFO che talvolta giungerebbero a visitare la Terra, poter classificare la portata degli eventi è un’opportunità importante. Così che ogni singolo incontro con la “creatura”, per lo meno in via ideale, finisce per appartenere ad una di tre classi successivamente più memorabili ed evidenti. A partire dal primo tipo, consistente nell’avvistamento da lontano: soltanto una forma indistinta, come una sagoma tra gli alberi, che potrebbe essere o non esser l’ideale soggetto della propria ossessione, prima di sparire nuovamente nella foresta. Un dubbio che diviene maggiormente labile, nel caso del secondo tipo, a seguito del quale segni assai tangibili del suo passaggio diventano la prova di quell’impressione o speranza: feci, marchi territoriali, ciuffi di pelo, persino tane abbandonate. Ma fu di sicuro un chiaro esempio d’incontro ravvicinato, quello fatto appartenere convenzionalmente al terzo gruppo di episodi inter-specie, quello sperimentato direttamente da Lizzie Noble e Simon McKeown, due ricercatori volontari dell’organizzazione ecologica Fundación ProAves, il 4 maggio del 2011 alle ore 21:30, non troppo lontano dalla Riserva Naturale di El Dorado presso il distretto colombiano di Santa Magdalena. Episodio avvenuto tra l’altro, contrariamente alle legittime aspettative, non presso i recessi più remoti ed oscuri della locale foresta pluviale pedemontana bensì ai margini di questa, proprio di fronte al ristorante degli alloggi costruiti dalla Fondazione. Dove una forma impossibilmente riconoscibile, oscillando lievemente, prese a risalire uno scalino alla volta del foyer, per poi mettersi quietamente in mostra sopra la struttura della balaustra normalmente adibita all’utilizzo umano: essere chiaramente topesco dalla lunghezza di almeno 50 cm, con lunghi baffi e la coda nettamente divisa tra i colori bianco e nero, mentre il resto del manto appariva di un color marrone/rosso-scuro. Ma sarebbe stata l’alta cresta sopra la sua testa, tra due orecchie stranamente frastagliate per caratteristica biologicamente innata, a permettere l’istantaneo riconoscimento. Come un membro a pieno titolo di una specie mancata all’appello per un periodo di oltre un secolo, avendo portato ormai da tempo alla dichiarazione della sua probabile scomparsa dal novero delle specie viventi. “Possibile che sia… Il topo crestato di Santa Marta, anche detto S. rufodorsalis?” esclamò con tono interrogativo quindi McKeown, mentre con estremo sangue freddo e professionalità la sua collega Noble già si era applicata nel porlo al centro dell’inquadratura con la fotocamera che, per fortuna, aveva lì con se. I due avrebbero descritto quindi in svariate interviste, per filo e per segno, i sentimenti che li avevano attraversati a seguito di quel momento: sorpresa, entusiasmo, incredulità ed infine gioia, per essere stati il tramite alla registrazione di un così lieto evento il cui ultimo verificarsi era databile soltanto al 1913, grazie alla cattura di seconda mano registrata dal ricercatore americano Melbourne Armstrong Carriker. Ed il primo, registrato nei diari del collezionista di animali impagliati e conchiglie Herbert Huntingdon Smith, ulteriori 15 anni prima di quella data. Perciò immaginate voi cosa potesse significare poter finalmente dimostrare al mondo come almeno un singolo esemplare di una delle chimere più lungamente ed inutilmente inseguite nell’intero circondario di una regione non più vasta di 100 Km quadrati, dopo un così lungo tempo, viveva ancora! E come si usa dire a proposito dei proverbiali masticatori di formaggio: “Dove c’è n’é uno…”
Benché resti opportuno a questo punto specificare come, in merito a creature tanto eccezionalmente rare ma anche il suo intero genus d’appartenenza in realtà piuttosto conosciuto, ben poco del senso comune trovi un’applicazione logica e continuativa nel tempo. Trattandosi di creature straordinariamente adattate alla vita arboricola nel mezzo della giungla, per cui la costante battaglia con i predatori diviene il ritmo in grado di scandire le proprie difficili e certamente lunghissime giornate…
Questa stessa definizione per antonomasia di “topo”, benché calzante dal punto di vista morfologico soprattutto nel caso delle specie più piccole ed agili di questo gruppo di creature molto diversificato e rigorosamente notturno, può effettivamente servire a trarre in inganno, se è vero che l’intero genere d’appartenenza Echimyidae risulta maggiormente imparentato ai porcellini d’India, i cincillà, il degu cileno (Octodon degus) e molte varietà di porcospini americani, da cui prendono in prestito almeno in parte la particolare strategia difensiva. Grazie al possesso, nel caso di molte varietà esclusa (a quanto sappiamo) quella del topo crestato degli alberi, di una grande quantità di aculei lunghi e piatti nascosti tra il proprio pelo dorsale, con l’evidente intenzione di riservare una sgradevole sorpresa a eventuali ocelot, jaguarundi o le varie tipologie di serpenti costantemente inclini a trasformare tali esseri in un rapido pasto per energizzare la propria giornata. Strumento difensivo dell’ultima spiaggia, in alternativa e prima di ricorrere al quale, molti roditori di questa genia sono soliti lasciarsi dietro come esca e approccio alla distrazione la propria stessa coda, nella maniera delle lucertole ma senza possedere anche la loro capacità di rigenerarla. Ragion per cui si tratta, per forza di cose, di uno strumento difensivo utilizzabile soltanto una volta nel corso della propria vita. E che finisce, molto spesso, per essere impiegato se è vero che la maggior parte dei topi corazzati dell’America Latina (Hoplomys gymnurus) e i loro vicini ratti arboricoli di Tome (Proechimys semispinosus) entrambi non più grandi di 25-30 cm vengono osservati nella maggior parte dei casi come ormai privi di quell’arto accessorio, finendo per assomigliare alla versione straordinariamente agile e circospetta di un piccolo cane Bobtail. Ciò detto la particolare conformazione fisica del loro parente rarissimo e crestato, sulla base della conformazione fisica e la già citata assenza di spine, potrebbe trovarsi più efficientemente paragonato alle due specie più frequentemente studiate dei Diplomys caniceps e D. labilis naturalmente più inclini, come esemplificato da una conformazione fisica più tozza e vagamente simile a quella di una marmotta, a ricavare le proprie tane negli incavi più bassi degli alberi o persino sottoterra, grazie allo sfruttamento di buche create ed abbandonate da altri possibili abitatori del sottobosco centro e sud-americano. Menzione a parte merita nel frattempo il più meridionale topo arboricolo peruviano o Makalata rhipidura, le cui dimensioni inferiori paragonabili a quelle di uno scoiattolo europeo gli permettono di muoversi agilmente verso le più remote cime degli alberi e talvolta, penetrare anche all’interno delle abitazioni umane.
Il che porrebbe nei fatti il crestato rosso ritrovato dai naturalisti di Santa Marta all’estremo opposto dello spettro, se è vero come l’esemplare fotografato dai sopra accennati 60 cm fosse chiaramente identificato come giovanile, vista la natura discontinua della sua colorazione ed i ciuffi di pelo radi attorno al collo, permettendo di confermare in via definitiva la lunghezza in grado di raggiungere e superare anche sensibilmente il metro, coda esclusa. Davvero niente male, per colui che abita di preferenza luoghi in bilico ed il più possibile lontani dal terreno, potendo fare affidamento per la sua sopravvivenza soltanto sul proprio senso d’equilibrio geneticamente innato. E un comparto d’unghie acuminate certamente capace di costituire, inevitabilmente, l’invida di chicchessia…
Ciascuna registrazione di un incontro con animali ritenuti a rischio critico d’estinzione, come si ritiene probabile nel caso del Santamartamys rufodorsalis benché manchino sondaggi realmente validi ed approfonditi, dovrebbe essere prontamente registrato e accompagnato da precisa documentazione di data, ora e luogo. Il che appare tanto maggiormente semplice, grazie agli strumenti digitali dei moderni obiettivi fotografici, inevitabilmente predisposti alla registrazione puntuale di ogni dettaglio collaterale a un’occasione ed incontro, inclusa addirittura la geolocalizzazione mediante impiego di tecnologia GPS. Questione che non spiega, d’altra parte, perché tanto difficile sia risultata fino ad ora la paragonabile registrazione di un paventato ancorché desiderabile incontro con creature di provenienza extra-terrestre. Se è vero che per lunghi anni o addirittura secoli, i temuti omini verdi dai grandi occhi d’insetto si sono prodigati nel visitare, studiare e stuzzicare la spesso inconsapevole razza umana, che in ogni circostanza applicabile appariva armata dei più sfocati, inefficienti, pessimi strumenti di fotografia e registrazione videografica. Non che il fotoritocco, di suo conto, sia letteralmente incapace di fare la sua parte. Benché in un ampio ventaglio di casi, appare del tutto inevitabile, l’importanza maggiore sembri essere stata data al mantenimento di un senso latente di mistero. Perché non tutte le creature incluso l’uomo, a quanto pare, sono dotate di mentalità scientifiche ed inclini a una precisa metodologia operante.