Gli enormi otri d’argento che accompagnarono un maharaja nel suo viaggio oltre l’Oceano Indiano

Nella pagina saliente del Guinness dei Primati, figurano alla voce “oggetto d’argento più grande del mondo”: due recipienti identici in metallo sterling del peso unitario di 345 Kg e l’altezza di 1,6 metri, custoditi in delle teche di vetro all’interno del padiglione per gli ospiti del palazzo cittadino di Jaipur, dove attraggono l’attenzione dei visitatori fin dall’epoca della loro creazione, risalente ad oltre un paio di secoli addietro. Soltanto approcciandosi alla targa commemorativa o tramite opportune ricerche filologiche, sarà perciò possibile scoprire la storia di questi eccezionali manufatti, costruiti in una quantità originale di tre pezzi, prima che uno di essi finisse irrimediabilmente sul fondale del Mar Rosso, in un momento in cui sembrava non esserci altra scelta veramente utile a salvarsi la vita.
Nel mondo mistico e talvolta imperscrutabile dell’India pre-moderna, particolari scelte in materia religiosa potevano influenzare il destino di un’intera nazione. Così Kaim Singh, secondogenito di un funzionario minore dello stato feudale del regno di Amber, nella metà del XIX secolo decise di diventare un discepolo del guru Brahmachari Giridhari Sharan, sant’uomo che sarebbe diventato, nel giro di pochi anni, la guida dello stesso sovrano di entrambi, Ram Singh II. Un’occasione per i due di conoscersi e stabilire un rapporto d’amicizia estremamente solido, finché il capo di stato, grande patrono delle arti e riformatore delle forze armate, trovandosi malato e prossimo alla morte all’età di soli 47 anni non lo chiamò al suo capezzale. Per adottarlo in extremis e renderlo, di fatto, il solo ed unico erede del potere supremo. Poco sapeva tuttavia di quello che sarebbe capitato di lì a un paio di decadi quando costui, avendo ormai da tempo assunto il nome dinastico di Madho Singh II, si sarebbe trovato di fronte a un catartico e importante dilemma, ancora una volta collegato a questioni relative al mondo superno: tradire tutto ciò che era sempre stato fino quel momento dal punto di vista spirituale, ignorando una fondamentale e caratterizzante regola dell’Induismo? Piuttosto che mancare all’importante dovere di presenziare all’incoronazione del nuovo Imperatore di tutte le Indie, niente meno che il re d’Inghilterra Edoardo VII, recentemente succeduto alla madre Vittoria dopo il suo decesso all’età di 81 anni?
Risulta opportuno considerare a tal proposito, dunque, la reputazione che a questo punto si era costruito Kaim/Madho Singh, di un saggio ed assennato amministratore fortemente rispettoso dell’autorità coloniale inglese, pur continuando a dare spazio a cerimonie e attività legate agli dei ancestrali della sua gente. Costruttore di scuole, università e ospedali, nonché finanziatore principale del Fondo contro le carestie di Jaipur (il nome contemporaneo di Amber nonché della sua capitale) nel quale aveva investito una cifra di 133.000 sterline, equivalenti a 15 milioni con l’inflazione attuale. Questo perché egli era anche diventato dal momento della sua inaspettata salita al trono, come potrete facilmente immaginare, favolosamente ricco, ad un livello tale da poter tentare di risolvere anche le problematiche che sembravano impossibili, facendo ricorso a soluzioni totalmente prive di precedenti. Persino quella del divieto per tutti gli induisti, spaventoso e terribile, a sfidare Varuna, l’antico garante dell’ordine cosmico nonché sire supremo del vasto Mare Oceano…

Inutile notare come gettare fuori bordo un oggetto dal peso di oltre 1.500 chilogrammi fosse un passaggio piuttosto naturale in mezzo a una tempesta per mare, nella semplice speranza di salvarsi la vita. Anche senza ricorrere a particolari motivazioni di tipo spirituale.

Guardatevi dunque, qualunque sia la vostra casta e relativo status sociale, dal commettere il peccato imperdonabile del Kala pani (let. “acqua nera”) ovvero salire a bordo di un’imbarcazione, per compiere irresponsabilmente un tragitto di significativa entità oltre le coste della grande madre India, trovandosi incapaci di assolvere ai riti di preghiera in maniera adeguata, nonché interrompendo l’essenziale contatto ininterrotto con le acque del fiume sacro, il Gange. Tanto che chiunque si trovasse, fin da tempo immemore, a dover lasciare il proprio paese avrebbe fatto bene a mantenere tale gesto il più possibile lontano dalla cognizione pubblica, pena la perdita di qualsiasi ruolo istituzionale o addirittura l’esilio dalla propria stessa famiglia, senza alcuna possibilità d’appello ulteriore. Immaginate dunque il profondo disagio vissuto dal maharaja Madho Singh II, quando si rese conto di essere stato invitato all’incoronazione inglese, per un’importante visita di stato in risposta a quella effettuata dallo stesso Edoardo VII, allora Principe del Galles, presso la propria capitale di Jaipur. Occasione durante la quale l’intero centro cittadino ed il palazzo reale erano stati colorati con vivaci stucchi rosa, assumendo la tonalità iconica destinata a rimanere inscindibile dall’aspetto stesso di tale industriosa metropoli, oggi ospitante 4 milioni e mezzo di persone. Questo, almeno, finché non gli venne in mente di consultare il sacerdote supremo a corte, il quale elaborò per lui un sofisticato approccio alternativo alla questione.
Pretesto, idea, azione: tre passaggi culminanti col conseguimento di un obiettivo inalienabile, trovando nuovi utilizzi per le notevoli risorse della propria carica all’interno di un sistema di governo assolutista. Il sovrano supremo di Amber aveva ricevuto, tra i tesori della propria eredità, i tre colossali vasi d’argento di cui sopra, realizzati secondo i resoconti dalla fusione di 1.500 monete d’argento l’uno, al fine di permettere ai propri precessori disporre di una quantità approssimativa di 10.200 litri di acqua del Gange senza dover mettere piede fuori dalle proprie svettanti mura. Un’occasione ineccepibile, per questo, di poter continuare a far lo stesso anche una volta lasciate le sacre coste indiane, contribuendo a salvaguardare la santità inerente di un devoto come Madho Singh II. Il che costituiva, d’altra parte, soltanto l’inizio: la stessa nave incaricata di trasportarlo, infatti, non doveva aver mai servito dal momento del suo varo carne bovina a bordo, un precetto destinato ad essere garantito mediante la destinazione a tal fine del nuovo transatlantico britannico Olympia, per i cui servigi esclusivi il maharaja investì l’equivalente all’epoca di 750 milioni di rupie indiane. Egli avrebbe inoltre fatto cospargere la terra d’India sotto il proprio letto, avendo inoltre cura di aver fatto costruire un’intero tempio in una cabina dedicato alla divinità della famiglia reale, Gopalji, cui recarsi ogni giorno al fine di effettuare le opportune venerazioni assieme all’essenziale sacerdote d’ordinanza. Un piano, quanto pare, del tutto privo di debolezze se non che poche settimane dopo la partenza, mentre il vascello stava attraversando il Mar Rosso per avvicinarsi al canale di Suez, l’intera spedizione si trovò coinvolta in una pericolosa tempesta tropicale. Chiaramente, di fronte alla trasgressione di una figura politicamente tanto rilevante, il sommo Varuna aveva deciso di scaraventare il sovrano ed il suo seguito sul fondo del mare! Al che l’unica scelta possibile fu quella, frettolosamente elaborata dal sacerdote, di gettare in mare uno dei tre otri d’argento pieni d’acqua del Gange, per poter placare la sua terribile furia. Una volta compiuto l’imprescindibile gesto, come previsto, il mare tornò presto ad una situazione di calma, permettendo a Madho Singh di continuare il proprio lungo viaggio fino alle acque del Tamigi.

Per quanto riguarda il destino del terzo vaso d’argento, mancante per ovvie ragioni dalla collezione del palazzo di Jaipur, pare che il sacerdote dell’Olympia avesse registrato il punto esatto in cui venne scaraventato oltre la murata del transatlantico. Possibilmente nella (complicata) idea futura di tornare a recuperarlo.

Si racconta perciò di come, successivamente all’approdo dell’Olympia presso il porto di Londra, il maharaja avesse fatto costruire un vero e proprio accampamento di tende, dove ricevette gli altri capi di stato e i molti dignitari giunti per salutarlo, occasione in cui vedevano e restavano del tutto senza parole di fronte all’imponenza colossale dei due vasi superstiti, oggetti di uno sfarzo ed un valore semplicemente impossibili da calcolare. Finché al termine della cerimonia d’incoronazione, terminato il proprio dovere istituzionale e trascorso del tempo con l’importante nuovo sovrano d’Inghilterra e dell’India nel suo complesso, il suo rispettoso ma potente suddito feudale di Jaipur non tornò a fare i bagagli, riuscendo questa volta a ritornare in patria senza ulteriori incidenti.
Ed il resto, come si dice, è Storia ma di un tipo che può essere guardata molto da vicino, e persino toccata con mano (per lo meno in linea teorica) sotto il tetto del Sarvato Bhadra, o padiglione aperto per gli ospiti, del palazzo di Jaipur, da cui ancora oggi si è soliti far volare gli aquiloni durante l’annuale festa del raccolto dell’odierno stato del Rajasthan, corrispondente all’antico regno di Amber/Jaipur. Il temibile tabù del Kala pani, di contro, avrebbe continuato a rimanere in forza fin quasi all’epoca moderna, con non pochi problemi per chiunque avesse intenzione di far imbarcare soldati o altre figure professionali indiane verso destinazioni lontane, incluso lo stesso Madho Singh, che collaborò più volte a diverse campagne militari inglesi inclusa quella in Africa durante la grande guerra, fino alla fine del suo regno nel 1922. Un timore reverenziale almeno in parte contrastato nella stessa maniera che lui stesso, anni prima, aveva inaugurato: il trasporto a bordo delle navi di capienti otri contenente l’acqua taumaturgica del fiume Gange, o quanto meno una sua ragionevole equivalenza. Una necessità finalmente superata, a tutti gli effetti, soltanto nell’anno 1997 quando il supremo sacerdote Vishnunarayanan Namboothiri, vedendosi castigato dal resto del clero induista al suo ritorno da una conferenza a Londra, riuscì a mantenere la propria carica soltanto grazie a un plebiscito popolare e il cambiamento di regole semplicemente insostenibili nell’odierna civiltà globalizzata. Un notevole risparmio di fatica per gli addetti al carico e scarico delle navi, per non parlare dell’argento di posate, riserve pecuniarie ed altri beni inerentemente adatti al cosiddetto “riciclo creativo”. Con buona pace del silente, qualche volta riottoso ma pur sempre supremo dio Varuna.

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