Il puntuale fenomeno del mare che prende fuoco l’ultima notte di luglio in Giappone

Che cosa rende un territorio esterno, attraverso lo scorrere della storia, parte inscindibile di una nazione? Uniformità culturale, assenza di barriere paesaggistiche, il fiorire prolungato di un vantaggioso interscambio commerciale. O come nel caso della più meridionale tra le quattro isole principali del Giappone, la rabbia incontenibile di un singolo uomo. Yamato Takeru no Mikoto, il principe figlio del dodicesimo Imperatore, Keikō (regno: 71-130 d.C.) facente parte di quella prima dinastia che come diretta discendenza della Dea del Sole Amaterasu, si vide attribuire una storia sospesa tra leggenda e realtà, oltre a una statura e una forza sovrumane. Il cui culmine narrativo, paragonato da taluni filologi al ciclo arturiano, viene raggiunto quando in giovane età Takeru uccise durante una lite uno dei suoi circa 90 fratelli, venendo immediatamente bandito dal padre fino a vita natural durante. Ma non prima che la principessa Yamatohime-no-mikoto, sacra fanciulla dell’antico santuario di Ise, avendo pietà di lui gli facesse dono della potente spada, che il Dio della Tempesta Susanoo in persona aveva estratto dalla coda del grande serpente Orochi, identificata con il nome tutt’ora celebre di Kusanagi-no-Tsurugi (草薙の剣). Oggetto in grado di controllare i venti e far tremare gli eserciti, tanto che una volta sbarcato sull’isola e circondato dai suoi nemici, l’infuriato principe conquistò valli e montagne, città fortificate e gli alti bastioni di numerosi signori della guerra. Prima che stanco di combattere, morisse all’età di soli 42 anni, creando un vuoto di potere considerevolmente significativo. E fu allora che l’Imperatore Keikō nel suo 43° anno di regno, ancora dotato del vigore di un giovane essendo destinato a viverne 143, salì su un’imbarcazione per attraversare lo stretto mare di Yatsushiro, allo scopo d’iniziare la campagna che gli avrebbe permesso di conquistare l’attuale prefettura di Kumamoto. E fu allora, nelle tenebre nebbiose di un’improbabile circostanza di mezza estate, che ebbe l’occasione di vederlo.
Dapprima due bagliori che si profilano all’orizzonte, le oyabi (親火) o “luci progenitrici”, simili a lanterne sospese nell’aria tersa notturna, sospese come i segnali sulla prua della nave di un pescatore. Ma dopo il tempo appena necessario a chiedersi se potesse trattarsi effettivamente di questo, l’imprescindibile tendenza a sollevarsi in alto e moltiplicarsi, diventando progressivamente dozzine, quindi centinaia e persino migliaia d’intensi fuochi privi di una possibile derivazione umana.
E fu così che una volta sbarcato in Kyushu con le sue armate, come narrato nelle cronache pseudo-storiche del Kojiki e del Nihon Shoki, l’Imperatore avrebbe chiesto ai nobili locali (gozoku) che cosa gli fosse capitato di vedere, ottenendo l’unica approssimativa risposta che dovesse trattarsi di una qualche shiranu hi (不知火) ovvero letteralmente, “fiamma sconosciuta”. Nome col quale sarebbe stato a partire da quel fatidico giorno identificato lo strano fenomeno, fino alla traslitterazione moderna di Shiranui, che avrebbe continuato fino a verificarsi unicamente nella data specifica dell’ultima luna di kajitsu (29-30 luglio) sfuggendo insistentemente ad ogni possibile spiegazione di tipo scientifico degna di essere definita completamente soddisfacente.

Una delle possibili spiegazioni scientifiche per lo Shiranui è quella dei pilastri di luce (light pillars) creati dalla rifrazione delle particelle di ghiaccio sospese nel cielo notturno, capaci di riflettere la luce proveniente da terra verso gli osservatori umani. Ciò non spiegherebbe, tuttavia, la cadenza rigorosamente annuale del suo avvistamento.

Non che siano mancati i tentativi, attraverso gli anni. Attribuendo l’inspiegabile lucore, secondo l’opera di diversi studiosi, a fenomeni di natura ottica come il riflesso delle stelle notturne o quello del fuoco di distanti vulcani sottomarini, oppure biologici, come meduse splendenti o ancora improvvise fioriture dell’alga dinoflaggellata Noctiluca scintillans, ricca della sostanza fluorescente nota con il termine di luciferina. Particolarmente interessante la complicata ricerca condotta nel 1916 da oltre 50 persone con due imbarcazioni ed i cui risultati sarebbero successivamente stati ripresi dal Prof. della Scuola Tecnica Superiore di Kumamoto Machika Miyanishi, secondo cui la particolare ciclicità del fenomeno potrebbe derivare dalla radiazione termica generata nelle notti più calde dell’anno sulle secche fangose del mare di Yatsushiro, soggette a variazioni di marea stagionali particolarmente intense e significative. Ciò detto, nella sapienza popolare, le luci spettrali dello Shiranui sarebbero sempre rimaste legate allo spirito dei marinai morti in mare e le lanterne accese, a loro beneficio, dal dio drago Watatsumi (海神) sommerso fratello di Amaterasu e Susanoo, che era solito allontanarle tanto più qualcuno tentasse di avvicinarsi ad esse. Tanto che fino all’epoca dell’Imperatore Taishō (1912-1926) sarebbe stato vietato ai pescatori locali d’imbarcarsi prima dell’alba nel periodo della fine di luglio, per un serie di giorni che avrebbero finito per diventare una festa locale dedicata alla commemorazione delle antiche storie. Occasione, tra l’altro, per la rievocazione storica mostrata in apertura, annualmente posta in essere dalla cittadina costiera di Ujo.
Un’altra spiegazione di tipo meno approfondito ma certamente applicabile in qualche misura sarebbe quindi giunta da Tairi Yamashita, professore dell’Università di Kumamoto, secondo cui lo Shiranui risulterebbe da “La particolare distribuzione delle masse d’aria con diverse densità che vengono distribuite generando il fenomeno della rifrazione, secondo specifici parametri ripetibili in diverse condizioni.” Condizioni che a quanto sembra, risulterebbero tutt’altro che rare nelle notti giapponesi, vista l’elevatissima quantità di luci inspiegabili disseminate attraverso il territorio. Tra cui gli onibi (鬼火) “fuochi fatui” o come vengono detti in inglese will’o’the’wisp, emessi in condizioni favorevoli dal processo di decomposizione dei cadaveri a causa del fosforo presente all’interno degli organismi viventi, ma anche le osabi (筬火) letterali palle di fuoco che apparivano in corrispondenza di un particolare laghetto nella prefettura di Nobeoka; o ancora il Gongorōbi (権五郎火) spettro di un giocatore d’azzardo ucciso in maniera particolarmente violenta presso Sanjo, nella prefettura di Arata. E ancora altri fuochi fluttuanti di natura miscellanea come il Nobi (野火, distretto di Nagaoka) il Jōsenbi (地黄煎火, prefettura di Shiga) e così via a seguire, per una letterale costellazione di fenomeni, tanto spesso attribuiti all’opera di divinità animiste (Kami – 神) o spiriti dispettosi (yōkai – 妖怪). Tra cui figurano particolarmente celebri le “volpi di fuoco” Kitsunebi (狐火) un tempo comuni animali, vissuti abbastanza a lungo da guadagnare l’intelligenza e l’immortalità, avendo scelto di dedicarle a trarre in inganno gli umani facendogli perdere la strada, grazie all’attrazione allettate di una lanterna accesa di notte ai margini del sentiero. Nell’accezione solenne che viene celebrata annualmente nella festa di Kyoto e relativa parata di Kitsune-no-Gyoretsu (狐の行列) culminante con l’arrivo dei figuranti in maschera fino al tempio di Oji Inari, dea volpina del riso e del raccolto. La cui continuativa benevolenza, nei confronti degli umani, potrebbe essere interpretata come un tentativo di scusarsi per i dispetti compiuti dai suoi baffuti messaggeri.

Molte sono le tradizionali parate e rievocazioni dell’antica capitale imperiale di Kyoto, importante polo religioso e culturale del popolo giapponese. Ed altrettanto numerose le creature sovrannaturali che percorrerebbero ancora, secondo alcuni, i suoi vicoli più tenebrosi.

Come innumerevoli altri aspetti della cultura tradizionale, il Giappone moderno ha quindi incorporato e trasformato il mito del fuoco sconosciuto, sviluppando un’evidente propensione ad impiegare il termine Shiranui come nome proprio di un’ampia varietà di personaggi di fantasia. Generalmente dotati del potere, sovrannaturale o scientifico, di evocare le fiamme durante i conflitti delle loro narrative fantastiche, come nel caso della ninja armata di ventagli Mai Shiranui nella lunga serie di videogiochi picchiaduristici King of Fighters (1994 a seguire) o l’archetipo del samurai fantasma omonimo, facente parte del gioco di carte e franchise multimediale Yu-Gi-Oh! (1996 a seguire). O ancora il lupo bianco dell’elegante opera interattiva Ōkami, creata nel 2006 per Playstation 2 dalla notevole riunione di menti creative dello studio Clover, con successiva pubblicazione ad opera dello studio multinazionale Capcom. E ce ne sarebbero molti altri…
Perché una fiamma che si accende per ragioni inspiegabili è particolarmente difficile da offuscare. E come le storie di coloro che in qualche modo ne descrissero l’antica magnificenza, sembra generare i presupposti d’ulteriori magnifiche leggende. Andando ben oltre i meri confini geografici di quella particolare regione, in bilico tra gli Universi, entro cui riuscì a palesarsi nella sfera sensoriale degli umani.

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