Il ghiaccio shintoista che si spezza sotto il peso di un dio

Facevano all’incirca -3 gradi alle 8:35 di mattina dello scorso 4 febbraio, quando l’intero comitato di sacerdoti, funzionari pubblici e abitanti delle vicine cittadine di Chino e Suwa, si stava preparando all’ennesima giornata di freddo intenso, nell’attesa di poter testimoniare non tanto l’occorrenza di un evento, quanto la sua prevista e reiterata mancanza dal calendario. Le acque ghiacciate del lago Suwa giacevano immobili ed opache, impedendo di capire se fosse possibile poggiarvi sopra i piedi senza affondarvi dentro. Anche quest’anno, tutti pensavano che le divine strade dell’omiwatari avrebbero mancato di formarsi, lasciando presagire altri 12 mesi di raccolti deludenti, sfortuna e mancanza di progressi economici e sociali. D’altra parte, in un’epoca di mutamenti climatici in cui l’uomo aveva perso il contatto diretto con la natura, questa era la vita. E sempre meno persone credevano nelle antiche storie. Se non che, qualcuno all’improvviso gridò “Silenzio! Ascoltate, gente…” Persino il vento sembrò smettere di soffiare. E proprio mentre il capannello di persone iniziava a cedere alla tentazione, sussurrando le ragioni della propria incertezza, un sibilo profondo inizia a diffondersi attraverso l’aria tersa della prefettura di Nagano, prima di aumentare di tono, assomigliando al tuono distante di un temporale estivo. Ed è allora, sotto gli occhi increduli dei più giovani, i quali non ricordavano una simile occorrenza dal 2006, che sopra la superficie piatta iniziò a formarsi una singolare increspatura. Proprio mentre il ghiaccio prendeva ad incrinarsi, quindi, il brusìo diffuso iniziò a spegnersi, per essere sostituito dall’enunciazione chiara, quanto spontanea, di un bambino: “Irasshaimase! (Benvenuto) Irasshaimaseee Takeminakatatomi-no-Mikoto!”
Secondo quanto scritto negli annali della fisica quantistica, l’assoluta totalità dei fenomeni studiati nel comportamento delle particelle subatomiche è impossibile da osservare direttamente. È per questo che una simile branca dello scibile costituisce in primo luogo una costellazione di teorie, conclusioni empiriche, corrispondenze causali intraviste dietro l’orizzonte degli eventi. Eppure non esiste una singola persona che, prendendo in considerazione i confini di una tale scienza, oserebbe definirla un vero e proprio atto di fede. La ragione è nel metodo scientifico. Ovvero trarre conclusioni sulla base di cognizioni certe, facilmente dimostrabili per chi ha lo sguardo attento verso simili dettagli. Il che del resto, è un po’ come la religione shintoista giapponese. Che potrebbe definirsi al tempo stesso la più incorporea, eppure anche la più materialista, di tutte le discipline filosofiche orientali. All’origine della quale ritroviamo la fantastica serie di gesti, guerre e scontri tra divinità superiori (Kami) e il contributo che esse diedero alla formazione dell’originaria civiltà di Yamato. Eppure, fatta eccezione per alcuni dei più importanti, ci troviamo di fronte ad entità del tutto prive di un aspetto umano. Ovvero spiriti invisibili, resi manifesti solamente per i ricettacoli in cui vivono, tronchi degli alberi, pietre, antichi oggetti e qualche volta, il passo lieve di un animale del bosco. Per questo, si usa dire che nello shintoismo non sia praticato in effetti alcun atto di fede. Trattandosi piuttosto di scrutare il mondo, attraverso una particolare lente che molti di noi possiedono. Soprattutto se hanno la fortuna di esser nati nella terra degli Dei.
Manca invece, quasi totalmente, il culto delle immagini che caratterizza la religione buddhista o quella monoteista cristiana: non vi sono santi, bodhisattva, dipinti o altre raffigurazioni sacre. Ogni stanza del jinja (santuario) ha una funzione specifica. Così come ciascun oggetto usato per gli atti di venerazione, le ricorrenze o le preghiere portate innanzi dai comuni cittadini, sempre bene accetti al di là dell’alto portale ligneo all’ingresso del suolo purificato (il torii). Ed è per questo che, come la stragrande maggioranza delle altre religioni animiste, il culto dei Kami prevede un’ampio catalogo di interpretazioni dei segni e dei presagi, dimostratosi capaci di influenzare, attraverso la storia antica e recente, il corso d’opera e le scelte dei potenti. Nessuno dei quali è comparabile, per il prestigio, la risonanza mediatica e l’effetto sulla morale pubblica, di quello dell’omiwatari (passaggio divino) del grande lago, sacro secondo gli antropologi ben prima della formazione di un sistema di credenze uniformate al resto del paese. Per la presenze di un particolare tipo di spiriti, chiamati Mishaguji…

I preti shintoisti del tempio di Suwa Daimyōjin confrontano l’omiwatari del 2018 con le registrazioni antiche e recenti. Come per il sangue di San Gennaro, esistono precise specifiche affinché il miracolo possa considerarsi effettivamente riuscito.

Dal punto di vista meteorologico, lo spezzarsi occasionale del ghiaccio del lago Suwa presenta un’origine assolutamente chiara: esso è l’effetto non evidente della presenza di sorgenti di acqua calda sul fondale, appartenenti alla stesso catalogo geologico che permette l’esistenza dei numerosi celebri onsen (bagni termali) della regione. La superficie della stessa quindi, portata a congelamento durante la notte, si ritrova riscaldata eccessivamente nelle ore immediatamente successive all’alba, per una serie di giorni finché non prende letteralmente a spezzarsi. In passato, quando le temperature della prefettura di Nagano erano più fredde, nel corso di un anno potevano formarsi più di una singola omiwatari, con la possibilità d’interpretare i passaggi a seconda dell’intersecarsi e l’interazione tra le diverse crepe. Le quali sarebbero, secondo la leggenda, il segno del passaggio di Takeminakatatomi-no-Mikoto, o in breve, Takeminakata. Divinità maschile venerata nel tempio locale di Suwa Daimyōjin maggiore, uno dei più antichi, ed importanti di tutto il Giappone. Mentre dall’altra parte delle acque sorge lo Shimosha, luogo dedicato alla sua sposa ed amata, Yasakatome-no-Kami. Ed ecco perché ogni anno, al sopraggiungere dell’inverno, lui attraversa le acque ghiacciate del lago, per andarla a trovare e rivivere con lei l’epoca di un sentimento eterno. Non a caso, proprio il verificarsi del passaggio del dio viene considerato come il momento in cui il ghiaccio del lago è sufficientemente spesso da poggiarvi sopra i piedi, consentendo agli innamorati umani di ripercorrere quasi esattamente i suoi passi.
Divinità tutelare del raccolto, nella sua accezione tradizionale di Myōjin (divinità splendente) il nume tutelare del tempio di Suwa iniziò ad essere venerato, attraverso i secoli, anche dalla casta guerriera dei samurai. La ragione va ricercata nel ruolo che tale entità riveste nei fatti narrati tra le pagine del Kojiki (Antiche Cose Scritte) retrospettiva sulla storia mistica del Giappone compilato nell’VIII secolo per il volere dell’Imperatore Tenmu. Dove il dio, come la stragrande maggioranza degli altri figli della coppia celeste di Izanami ed Izanagi, giocò un ruolo di importante nel conflitto tra i Kami del Cielo e della Terra, che avrebbe in ultima analisi giustificato il predominio dei primi sui secondi, e con esso reso legittimo il potere della discendenza terrena di Amaterasu, dea del Sole, che continua tutt’ora grazie al sovrano spirituale che regna oltre la sacra porta del Mikado (palazzo imperiale). Si narra, a tal proposito, che nell’ora della battaglia Takeminakata fu affrontato da niente meno che Takemikazuchi, dio del fulmine, il quale finse di stringergli la mano trasformandola all’ultimo momento in una spada, che l’altro afferrò con forza iniziando a tirare. I due presero a strattonarsi, quindi, in quello che viene definito il primo incontro di sumo della storia, in un confronto che vide vincere l’avversario celeste, costringendo Takeminakata a trovare rifugio presso il lago Suwa, dove implorò ed ottenne di avere salva la vita. Naturalmente, quest’ultima parte viene omessa negli annali del tempio, dove si parla piuttosto di una ritirata strategica, seguita da un esilio volontario per meditare e dedicarsi al buon governo dei suoi devoti. Nonostante tale episodio, e forse proprio in funzione della stima che la cultura giapponese ha sempre saputo dimostrare verso le figure di chi subisce una grave sconfitta, le storie di questo dio non finirono in quell’occasione, ma aumentarono piuttosto di frequenza ed intensità. Tra le imprese del nume di Suwa, ad esempio, si può citare il suo confronto successivo contro il dio malefico dio Moreya, che tentò di scacciarlo impiegando un’arma simile a un disco di ferro, alla quale il Myōjin contrappose la semplice flessibilità di un ramo di glicine, capace di spezzare il suo impeto e scongiurare il tentativo d’invasione. Per poi piantare quel ramo, dando origine alla foresta sacra di Fujisuwa.
Un altro significativo miracolo si verificò durante il regno dell’imperatore Kanmu (737–806) quando un capo degli emishi noto come Abe no Takamaru si ribellò contro il potere costituito, costringendo il sovrano a nominare il primo Sei-i Taishōgun (grande comandante contro i barbari) Sakanoue no Tamuramaro. Il quale, prima di marciare fino al territorio dei ribelli, si fermò per pregare a Suwa, apparentemente senza ricevere alcun tipo di risposta. Se non che con il procedere della marcia, alla sua compagnia d’armigeri giunse ad unirsi un cavaliere misterioso, destinato a rivelare successivamente la sua identità misteriosa in battaglia. Quando, caricando le posizioni fortificate di Takamaru, l’uomo si moltiplicò in cinque guerrieri identici, al fianco dei quali si manifestarono 20 assistenti sul campo, anch’essi armati. La piccola compagnia sovrannaturale, quindi, sbaragliò completamente il nemico, decapitando il ribello e riportando al Taishōgun la sua testa nel tempo di un battito di ciglia. Poco prima che Takeminakata, rivelata la sua identità, salisse di nuovo in sella, per poi prendere il volo e galoppare via verso il sole al tramonto.

Il tempio di Suwa ha una storia estremamente lunga e significativa. Tra i devoti che si fermarono a pregare tra le sue mura, molti signori appartenenti al clan degli Hojo, che ricevettero l’onore di aver scacciato le invasioni mongole (1274, 1281) grazie all’invocazione del vento divino kamikaze.

Ci sono stati molti altri casi, nella storia del Giappone, in cui l’invisibile mano di un Kami sembra aver guidato una scelta particolarmente illuminata, o la risoluzione di un difficile problema. Questa forza inconoscibile per quanto estremamente personalizzata, spesso dotata di un nome, un’identità. Sebbene nessuno possa effettivamente dire di aver mai visto il suo volto.
Esiste un concetto secondo cui l’etica del lavoro giapponese, assieme alla propensione di una simile cultura a mettere tutti se stessi nella propria vita professionale, sarebbe una diretta conseguenza di questo senso costante di essere giudicati, e guidati da un potere superiore. Assieme all’assenza di un aldilà nel senso classico, sostituito piuttosto dalla possibilità di permanere nel mondo fisico come spiriti guida familiari. Ovvero non tanto la possibilità, quanto la certezza, di essere fatti della stessa sostanza degli Dei. Ed è in quest’ottica che persino un fenomeno dall’origine chiara come quello dell’omiwatari, può trasformarsi in un miracolo nell’aspettativa ed il volere delle persone. Poiché l’effetto non dipende dalla causa. Ma i due si fondono, in una gestalt di possibili esiti e conseguenze tutt’altro che evidenti.

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