Londra e il culto mai cessato del biciclo dall’enorme ruota

Corsi e ricorsi, arbitrari punti situati lungo il moto circolare delle Ere, che a intervalli sorprendentemente regolari tornano a ripresentarsi sulla strada del progresso umano. Così mode, sport, divertimenti, dopo un tempo di ricarica nel dimenticatoio della società, riemergono dall’erba fitta, sporgendo come fossero la cima di una quercia dalle molte ramificazioni strutturali. É mai possibile, di contro, che qui vinca la stabilità rispetto all’onda distruttiva del progresso, continuando a mantenere quella porta spalancata, affinché gli appassionati di un particolare campo non abbiano il bisogno di mutare le proprie predisposizioni e preferenze personali? Soltanto se alla corsa circolare del trascorrere del tempo riuscissimo a far corrispondere le rotazioni a un ritmo equivalente di una seconda ruota, più piccola ma non per importanza, che per oltre un secolo ha seguito il movimento di costoro che, per una ragione oppur l’altra, hanno scelto di custodirne l’eredità.
Penny e farthing (in italiano, “fardino”) due monete contrapposte, l’una grande il quadruplo dell’altra che talvolta risultava fabbricata, per l’appunto, dal taglio e la fusione del più basico e diffuso conio degli inglesi. Parole che s’incontrano, piuttosto, nella tecnica veicolare di un famoso mezzo di trasporto, storiograficamente associato all’utilizzo da parte del tipico gentleman di quel paese, con tanto di tuba, scarpe con le ghette e fluenti code di un’elegante abito da sera. Benché il biciclo, come viene per antonomasia detto in lingua italiana questa peculiare alternativa al concetto di bicicletta, sia in effetti un’invenzione francese ed in particolare del meccanico parigino Eugène Meyer nel 1869, stanco di sobbalzare dolorosamente sul rudimentale velocipede dotato di pedali ma privo di sospensioni di quell’epoca, che oltre la Manica erano soliti chiamare non a caso boneshaker (let. “scuoti-ossa”). Così che creando per primo il concetto di una ruota che mantiene la sua forma grazie alla tensione di una serie di raggi, ed in funzione di ciò può essere adattata a dimensioni superiori senza un esponenziale aumento di peso, egli ben pensò d’incrementare fino al limite la differenza nelle proporzioni della prima e la seconda delle due interfacce con l’accidentato manto stradale, portando ad almeno un paio d’immediati miglioramenti. Primo, sollecitazioni notevolmente ridotte anche in assenza di un vero sistema di sospensioni o pneumatici ad aria, ancora ben lungi dall’essere stati inventati. E secondo, quasi accidentalmente, un aumento impressionante di velocità. In assenza di un sistema di trasmissione a catena, infatti, il valore energetico di una pedalata era una concreta risultanza dell’effettiva circonferenza influenzata da una tale spinta, arrivando a veicolare un concetto di movimento proporzionale all’effettiva quadratura di un tale cerchio in metallo. Così come di metallo era l’intero veicolo, per la prima volta, permettendo strutture molto più essenziali ed in conseguenza di ciò, leggere. Mentre la maxi-ruota veniva realizzata spesso su misura in base alla lunghezza delle gambe del suo conduttore, massimizzando il potenziale del suo sforzo di muscoli risolutivo. C’è davvero da sorprendersi, dunque, se una tale serie d’ingegnose soluzioni, ancora oggi riesce a mantenere la capacità di affascinare un pubblico di appassionati sostenitori e praticanti?

Richard Thoday, appassionato e campione inglese di ciclismo storico racconta alle telecamere di Great Big Story l’entusiasmo del grande pubblico di Londra per tali veicoli, che spesso attraggono su di se un’attenzione comparabile a quella di una supercar dal marchio rinomato.

La moderna pratica del biciclo trova il sostegno di alcuni club e federazioni europee, oltre ad annuali gare presso il territorio degli Stati Uniti ed Australia, benché il suo polo operativo per autenticità, rigore ed effettivo mantenimento di pezzi d’epoca si trova concentrato presso la capitale d’Inghilterra, noto polo delle tradizioni mantenute in alta considerazione da un eterogeneo pubblico d’appassionati. Basti prendere atto, a tal proposito, dell’entusiasmo proiettato dalle testate web locali al conseguimento del nuovo record di distanza percorsa in un periodo di un’ora: 21,92 miglia all’anno 2018 contro le 21,10 registrate nel remoto 1891, registrate dal celebre ciclista Mark Beaumont, presso quello stesso velodromo di Herne Hill dove tanto a lungo, nei contesti più vari, quella stessa disciplina era stata messa in pratica con entusiasmo senza età (vedi video all’inizio dell’articolo). Mentre nel contesto sportivo della prestigiosa maratona ciclistica di Londra IG Nocturne non può mancare, ogni anno a gennaio, almeno una competizione dedicata alle desuete biciclette dalle antiche proporzioni ineguali. Tutto questo anche grazie alla popolarità ininterrotta del locale Penny Farthing Club, dove prerequisiti al diritto di voto da parte dei soci restano il possesso e la capacità d’impiego di un biciclo e l’attenzione nel chiamarlo con il suo vero nome d’epoca ovvero “ordinaria”, valida a distinguerlo dalla bicicletta “di sicurezza” che l’avrebbe progressivamente surclassata nel mercato generalista a partire dalla metà degli anni ’80 del XIX secolo. Questo perché la penny farthing, contrariamente a quanto lo stereotipo acquisito potrebbe indurci a pensare, è in realtà un mezzo estremamente rapido e pericoloso, dotato di un rapporto comparabile a quello di una due-ruote da corsa del mondo contemporaneo ma priva, di contro, delle moderne sospensioni e sicurezze strutturali future. Così che l’hobby del ciclismo, finché strettamente associato a tali arnesi, restò adatto unicamente a giovani e spericolati atleti, mentre gli anziani e i bambini continuavano a pedalare unicamente a bordo di tricicli o quadricicli. Per non parlare delle donne che del resto, secondo la morale vittoriana, non avrebbero mai potuto mettersi a cavallo di alcun tipo di soluzione veicolare, sia tecnologica che naturale. Particolarmente problematico, a tal proposito, era il baricentro molto alto del biciclo, che poteva indurre ad un improvviso capovolgimento in avanti causa un arresto rapido della marcia o l’urto contro ostacoli di vario tipo, incidente spesso conduttivo al blocco delle gambe contro il manubrio portando ad urtare direttamente la testa contro il terreno, un’esperienza spesso spiacevole quando non addirittura letale. Non molto risolutivo si rivelò essere, del resto, la soluzione americana che voleva la ruota posteriore come quella più grande, conduttiva ad un’inverso processo d’incidente durante le salite eccessivamente ripide. Ragion per cui iniziarono ad essere impiegati da entrambi i lati dell’Atlantico i caratteristici manubri a forma di “baffo” che avrebbero permesso, idealmente, di saltare oltre in caso d’imprevisti o in modo preventivo appoggiare i piedi stessi all’altezza delle mani durante una discesa, nella speranza di riuscire a salvarsi nel verificarsi dell’ipotesi peggiore. Il rudimentale freno a cucchiaio incluso nel biciclo era di contro concepito per un uso occasionale soltanto in caso d’emergenza, visto come l’assenza di un sistema di trasmissione avrebbe permesso semplicemente di frapporre le proprie gambe al moto dei pedali e in conseguenza di ciò, fermarsi. Unico tratto positivo: l’altezza dal suolo creava una situazione d’equilibrio affine al concetto di pendolo inverso, che permetteva di rimanere in sella anche a velocità molto ridotte e per periodi particolarmente lunghi.

Le velocità raggiungibili da un biciclo non sono molto distanti da quelle di una moderna bicicletta da corsa benché l’impossibilità di mettere rapidamente i piedi a terra comporti, inerentemente, un grado di rischio molto maggiore.

Salire a bordo, dopo tutto, non è difficile: tutto quello che serve è spingere in avanti la bicicletta, ponendo avanti il piede sull’apposito predellino. É il fermarsi senza cadere a terra, per quanto ci è dato di capire, a richiedere un certo periodo di pratica benché come sappiamo molto bene, la paura di fallire non sia conduttiva a validi processi di scoperta e accrescimento delle proprie competenze personali.
La concezione della penny farthing come principale mezzo di trasporto muscolare rispetto all’emergente bici “di sicurezza” avrebbe quindi iniziato a scomparire attorno nel 1885 con l’introduzione della Rover Safety Bicycle, che tornava ad impiegare una ruota posteriore di grandezza equivalente come nella scuoti-ossa ma dotata per la prima volta di sospensioni e catena per la trasmissione e accrescimento del moto dei pedali, aumentandone notevolmente la velocità. Mentre il definitivo colpo di grazia sarebbe giunto nel 1888, quando John Dunlop pensò, per primo, di usare una ruota piena d’aria per ammortizzare il triciclo di suo figlio, intuizione destinata a cambiare l’intero mondo dei trasporti, non soltanto muscolari.
Chi rifiuta seppur temporaneamente il progresso, tuttavia, non andrebbe considerato ingrato o miope nei confronti dei giganti che ci hanno preceduto. Bensì desideroso di rivivere quell’epoca, ormai quasi dimenticata, in cui il bisogno evidente era ancora il timoniere maestro dell’invenzione. Piuttosto che la voglia di guadagno che come l’intaglio di una ruota, torna sempre a comandare sui processi e i desideri di noialtri. Impotenti passeggeri del cosmico biciclo.

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