La cangiante coppa nanotecnologica creata all’epoca di Diocleziano Augusto

Il 13 luglio del 1978, lo scienziato russo Anatoli Petrovich Bugorski stava cercando di risolvere dall’interno un problema tecnico dell’acceleratore di particelle dell’Istituto per la fisica dell’Energia di Protvino, il sincrotrone U-70, quando a causa di un malfunzionamento del sistema di sicurezza, quest’ultimo si avviò di nuovo. Nel giro di un battito di ciglia, l’enorme potenziale subatomico del raggio di protoni fece quindi il giro completo dell’edificio, attraversando il centro esatto del suo cervello. Ciononostante, a parte lievi ustioni della pelle, l’allora trentaseienne non sembrò riportare alcun tipo di conseguenze, riuscendo a completare la propria specializzazione e intraprendendo una lunga e proficua carriera nel suo settore accademico d’appartenenza. Egli avrebbe sempre ricordato, tuttavia, “l’intensa e sconvolgente luce” sperimentata nel momento in cui chiunque, senza particolari pregiudizi, avrebbe potuto collocare l’attimo finale della sua esistenza. Tra tutti i fenomeni interconnessi all’universo quantistico di ciò che possiamo osservare soltanto attraverso fenomeni terzi, dopo tutto, la radiazione percepibile dai nostri occhi è quello di cui sappiamo apprezzare maggiormente la presenza. E non è neanche troppo difficile, a conti fatti, influenzarne il comportamento tramite l’applicazione di particolari… Espedienti.
Quanto indietro possiamo risalire nella storia, dunque, per trovare un esempio valido a corroborare questo dato relativamente privo di contesto? Il Medioevo, il Rinascimento, il Secolo della Scienza? Successivamente alla seconda guerra mondiale, senz’altro? Un po’ prima. Come scoprirete se soltanto entrando nelle vaste e qualche volta misteriose sale del British Museum, doveste scegliere di andare a fermarvi dinnanzi a uno dei più celebri manufatti facenti parte delle sue collezioni, un oggetto noto alla storia con il nome già sentito della coppa di Licurgo. Frutto di una conoscenza specifica che aveva raggiunto i massimi vertici all’epoca della sua presunta costruzione, l’inizio del IV secolo d.C, ma anche, secondo alcuni, di un fortunato e quasi certamente irripetibile incidente. Osservate, dunque, un tale orpello stravagante posto all’interno della propria teca protettiva: recipiente alto 16 cm di vetro, finemente molato ed intagliato al fine di raffigurare un celebre episodio mitologico, sopra cui l’allestimento museale spesso prevede un riflettore mobile, capace di far splendere la luce sopra e poi di lato, sopra e di lato. Perché ogni volta che si compierà quel ciclo, sotto l’occhio affascinato degli spettatori, la figura tormentata del re di Tracia, ivi imprigionata assieme a quella dei suoi divini persecutori, cambierà colore dal rosso al verde, rosso al verde in modo totalmente innaturale. Un effetto straordinario a vedersi e che persino oggi, con i nostri margini di tolleranza tecnica & industriale davvero risicati, ci troveremmo in momentanea difficoltà nel replicare.
Per lungo tempo, d’altra parte, i filologi si erano interrogati sui resoconti coévi di un simile manufatto, considerato largamente leggendario, finché nel 1845, uno scrittore francese menzionò di averlo visto in possesso di un suo connazionale, poco prima che la famiglia Rothschild l’acquistasse ed in seguito prestasse al Victoria & Albert Musem. Finché quasi un secolo dopo, nel 1958, Lord Victor Rothschild avrebbe deciso di venderla al British per la cifra al tempo significativa di 20.000 sterline, dove si trova tutt’ora. A prova sempiterna che almeno sotto certi punti di vista, gli Antichi Romani possedevano quel tipo di conoscenza che in molti, fino a poco tempo fa, saremmo stati pronti a definire perduta.

Apparentemente semplice nella propria configurazione geometrica modulare, la coppa diatreta era un oggetto dotato di un prestigio notevole nella Roma della tetrarchia di Diocleziano, continuando ad essere impiegata come status symbol dai patrizi almeno fino alla fine del secolo successivo.

Dal punto di vista della classificazione, il prezioso reperto proveniente da Roma o Alessandria d’Egitto può essere inserito a pieno titolo nella categoria delle coppe diatrete, un tipo di suppellettile di lusso estremo collocato generalmente tra la metà del III e l’inizio del IV secolo, generalmente associato anche alla lavorazione tipica del vetro romano a cameo. Considerati il massimo traguardo raggiunto dalla lavorazione ad intaglio della loro epoca, questi recipienti creati da uno o due blocchi di vetro saldati assieme, a seconda della teoria presa in considerazione, presentavano nella maggior parte dei casi uno strato esterno formato da una vera e propria “gabbia” geometrica (da cui la definizione in lingua inglese di cage cup) frutto dell’impegno certosino di quello che probabilmente sarebbe stato per professione un esperto tagliatore di gemme. Il che basterebbe già a rendere, di per se, la coppa di Licurgo straordinariamente significativa, essendo questa l’unico oggetto della sua categoria con un soggetto figurativo ad essere giunto intatto fino a noi, probabilmente grazie all’eccezione archeologica che avrebbe visto questo fragile manufatto custodito da sempre con cura per oltre 16 secoli, all’interno di collezioni private di vario tipo. Ciò che da sempre colpisce maggiormente la fantasia degli studiosi, tuttavia, è la sua titolare qualità cangiante, capace di derivare a quanto è stato dimostrato in epoca contemporanea, dall’infinitesimale quantità di argento e d’oro contenuto all’interno del vetro con cui era stata fabbricata. Esattamente 330 parti per milione del primo e 40 del secondo, dissolte all’interno del vetro fuso in soluzione colloidale, capace di assumere per probabilità quantistica la forma di particelle non più grandi di singoli atomi isolati nel flusso, rinominato in funzione di ciò vetro dicroico (alias bicolore). Granuli capaci quindi d’indurre, una volta completato il processo di solidificazione, un fenomeno di diffrazione della luce noto come risonanza plasmonica di superficie, traducibile dai nostri occhi come variazione cromatica dal verde al rosso.
La maniera in cui gli artigiani romani, dunque, avrebbero potuto realizzare un simile artificio resta per lo più misteriosa, benché in molti sospettino la coppa possa essere stata creata per un mero caso del destino, magari dovuto a residui della lavorazione dell’argento sugli strumenti (materiale spesso usato per simili oggetti) contenente come era la norma per l’industria metallurgica romana anche delle piccole tracce aurifere, a loro volta accidentali. Secondo altri, invece, la parte interna dell’oggetto sarebbe stata creata da una seconda officina specializzata rispetto a quella che si era occupata del bassorilievo intagliato, capace di creare l’impasto di vetro e metalli lavorando su ampie quantità, riuscendo quindi a diluire su multipli oggetti, oggi andati per lo più perduti, le infinitesimali quantità coinvolte.

Definita nel 1857 come “barbarica e debosciata” dallo storico dell’arte tedesco Gustav Friedrich Waagen, la coppa costituisce un importante finestra filologica sul gusto estetico generalmente interconnesso alla pratica dei baccanali ed a colui che unico, tra gli umani, avrebbe avuto il coraggio di sfidarla.

La stessa scelta del soggetto raffigurato, d’altra parte, costituisce un fattore certamente rilevante. Licurgo, re di Tracia e secondo alcune interpretazioni della leggenda il principale creatore dell’ordine sociale della città di Sparta, sarebbe stato un grande oppositore del tipo di attività sociali legate al culto di Dioniso, dio dell’estasi, dell’ebrezza e delle piante. Arrivando persino a vietare e il consumo di vino, perseguitando attivamente le Menadi o Baccanti, sacerdotesse possedute dallo spirito del dio. Nell’episodio della coppa dedicato a Bacco, sua versione frutto dell’interpretazione romana, il sovrano è dunque rappresentato nudo mentre aggredisce sessualmente o uccide Ambrosia, madre adottiva di Dioniso in forma umana, per ricevere immediatamente la sua giusta punizione, consistente nel gesto d’accusa arrecato con la verga divina, seguìto dall’assalto di un fauno lanciatore di macigni, una pantera ruggente (la cui testa è purtroppo andata danneggiata nella coppa) e i serpeggianti tentacoli di un rampicante, allusione al suo destino futuro di essere trasformato in un vegetale. Nella rappresentazione, innegabile e tremenda, di un trionfo dell’ebrezza sulla ragione, del vino sopra l’acqua e della festa sulla serietà sociale, capaci di lasciar presumere l’impiego ideale del cangiante recipiente.
Ciò che possiamo affermare con certezza, ad ogni modo, è che gli antichi utilizzatori delle bevande alcoliche contenute di preferenza nelle coppe diatrete possano aver visto luci ed ombre fuori dallo spettro del quotidiano, esattamente come i grandi bevitori della Vodka dalla gradazione più elevata dei nostri tempi. Ma niente di paragonabile, probabilmente, a quelle generate dal passaggio di un raggio protonico sovietico, nel centro esatto del proprio stesso cervello.

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