I diabolici acrobati del grattacielo abbandonato

Sathorn Freerunning

A 185 metri dal suolo e dalla gente che passeggia inconsapevole, in bilico sopra una balaustra su cui cresce l’erba, diventa facile dimenticare i propri presupposti di residua umanità. O almeno così sembra essere per loro. Jason e Shaun del team Farang, gli ultimi visitatori di un luogo che ancora riesce ad attirare, suo malgrado, l’attenzione delle telecamere internazionali: il grattacielo fantasma del Sathorn Unique, un monumento spropositato alla terribile crisi economica thailandese della seconda metà degli anni ’90, nonché derelitto simbolo residuo del pontenziale splendore post-moderno di Bangkok. 47 piani di munifica presenza a gettar l’ombra sopra il fiume Chao Phraya, impreziositi da un’interessante estetica Decò, la cui cima incolonnata un po’ ricorda, quasi impossibilmente, la facciata di un antico tempio greco. Simili straordinarie costruzioni, anche quando inutili, difficilmente possono passare inosservate. Agli occhi degli apologisti di una metropoli a misura d’uomo, che gridano al vento: “Avete fatto un danno senza tempo” così come a quelli degli storici del corpo in movimento, esploratori mistici delle remote circostanze. Turismo: spostarsi presso un luogo, per conoscerlo possibilmente negli aspetti più potenzialmente utili a farsi un quadro contestuale. Incluse, quindi, le residue cicatrici, i resti di un presente che non ebbe il modo di raggiungere il coronamento. Per un simile processo, va da se, il mostro-palazzo puoi tranquillamente ponderarlo da lontano. In contrapposizione, visita in free running: non mi basta, voglio tutto, il brivido e il pensiero, il senso del momento/movimento proiettato alla risoluzione della noia di giornata. E così avviene, sempre più spesso, che i cartelli di “pericolo” vengano messi da una parte, le reti in chicken-wire ridotte in pezzi per varcare quel confine, metaforico ma pure materiale, tra ciò che è, quello che sarebbe potuto essere, se soltanto si fosse allineata la sequela dei pianeti o lo zodiaco del progresso finanziario. Ciò che segue, ben presto sarà una leggenda.
C’è un limite massimo d’altezza oltre il quale, ragionevolmente, il senso di vertigine dovrebbe smettere di avere un peso sulla sensazione di pericolo immanente. Sopra i quattro, cinque piani, poco importa quanti uccelli di passaggio li vediamo dalla parte superiore: una caduta è una caduta, e ad essa segue il chiaro segno della fine. Perché, allora, siamo tanto tesi a misurare, fare il conto delle piume? E qual’è la differenza, in effetti, tra il fare capriole sulla cima di alberi alti qualche metro, con l’applicarsi nella stessa attività sulla sommità ventosa di un’intera civiltà…Certo, il piccolo dettaglio delle conseguenze in caso di caduta. Ma se non hai voglia, né intenzione di esporti a un tale errore, basta filosofeggiare, basta farlo, fare il gesto di provare. La vita avrebbe un piccolo valore, dopo tutto, se non si potesse trascorrere facendo ciò che è in grado di appassionarci nel profondo, che è un concetto relativo. A chi basta l’immaginazione, buon per lui che si accontenta. Di sicuro non potrebbe farlo, senza i coraggiosi che gli mostrano la via. E con quale esemplare efficienza! In un video che potrebbe facilmente rientrare nell’antologia degli utilizzatori delle telecamere d’azione, se non fosse per i molti spunti trasgressivi ed anti-estabilishment (siamo molto, molto oltre ad una semplice sessione di BASE jumping) i due protagonisti riescono ad esprimere, con solide basi d’esemplificazione, ciò che può costituire un pomeriggio d’avventura ad alta quota urbana, senza il minimo rispetto per i limiti di chi è consapevole della propria mortalità. La scena prende il via tra i muri graffittati del quartiere Sathorn, sotto lo sguardo stolido di vecchi condizionatori, al confine di vasche decorative dallo spiccato color verde-alga, mentre il caratteristico groviglio dei cavi della luce, un punto fermo del Sud Est Asiatico, sovrasta ed incornicia i due che ridono, forse per sdrammatizzare, magari un po’ nervosi nella consapevolezza di quello che viene dopo. A un tratto, ci siamo: Jason con la maglietta bianca firmata della squadra Farang e il cappellino da baseball, Shaun dai lunghi capelli biondi raccolti in una sorta di complicata coda di cavallo, che scavalcano un basso muretto ed entrano nel regno del possibile, iniziando a salire su, sempre più su…

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La fonderia dei mostri e robot scalcagnati

Ban Hun Lek

Lasciali per terra, sprechi lo spazio e il tempo. Non puoi pensare di collezionare pezzettini di automobili dismesse, borchie deformate. Viti, bulloni, chiodi arrugginiti nello spazio-tempo. Sgorbi sghembi e pezzi spuri. E tutti mi dicevano: un pistone oppure due, senza una camera di scoppio a cosa potrai mai servire! Buttalo via con tutto il resto dei rottami, il suo posto è nella spazzatura. Perché costoro non sapevano la verità. Che anche gli scarti parlano e la loro voce è carica di seduzione: “Brr, siamo tiepidi di un sangue ricco di sistemi, abbiamo una RAGIONE, tanto ancora da DARE…” Se i rimasugli di qualcuno sono il tesoro dell’operoso resto dell’umanità, quando rovistare tra i cumuli dello sfasciacarrozze non è soltanto una semplice scelta ma il futuro possibile delle ragioni di un artista, allora Phairote ha dato la ragion d’essere a un vero e proprio Rinascimento delle cose di recupero. Che va oltre il semplice riciclo, che non ricostruisce meramente, ma proietta innanzi ciò che gli spettatori si aspettano dal bric-a-brac di quei programmi televisivi sul fai-da-te coscienzioso e solidale. Più ti avvicini, meno resti indifferente.
Perché nel suo grande capannone fuori Pattaya, città di 100.000 abitanti nel nord-est della Thailandia sita a circa 130 Km dalla capitale Bangkok, albergano rivisitazioni dei sogni e delle visioni di un’intera generazione, anzi facciamo pure tre. Diversi dal consueto eppure in qualche modo pienamente realizzati: dinosauri vagamente ornati, pecore e cavalli fatti di bulloni, un alieno xenomorfo come quello che seppe regalarci H.R. Giger ma con l’aggiunta delle sospensioni, almeno tre versioni dell’incredibile Hulk: rosso, giallo e grigio scuro. Transformers variopinti in scala oppure rigorosamente monocromatici e almeno da lontano, virtualmente indistinguibili dalla versione cinematografica (in fondo cos’erano quei tecno-guerrieri, se non creazioni antropomorfe fatte in pezzi misti d’automobili…) Ma più ti avvicini a quel recinto, maggiormente scopri piccoli dettagli appassionanti, sopra quelle e tutte le altre cose. Le scaglie sulla schiena dei mostri sono candele d’accensione, mentre sugli arti delle bestie, tendini e tono muscolare vengono resi con innumerevoli catene della bicicletta. I capelli sono frutto d’ingranaggi sovrapposti. Le superfici curvilinee delle schiene arcuate si palesano come un vero e proprio susseguirsi di dadini filettati, forme ottagonali allineate su matrici cristalline, intervallate dall’inserto di qualche gustosa chiave inglese, tanto per spezzare il ritmo delle aspettative. Ogni personaggio è in effetti frutto di dozzine di elementi, raccolti, selezionati e combinati tra di loro, poi saldati, puliti e infine ricoperti da una mano di vernice, per amalgamar quel tutto sconvolgente. Ed è questo un risultato assolutamente degno di nota, nonché adatto al commercio, anche su larga scala….

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Il mercato thailandese attraversato da una ferrovia

Maeklong Train

La prima volta dev’essere stato memorabile. È relativamente facile determinare il corso degli eventi, fatto salvo il demone imprevisto dei dettagli. C’era in quel particolare luogo, fin da tempo immemore, un grande spiazzo ricavato tra i palazzi di Samut Songkhram. Siamo in una ridente cittadina che getta la sua ombra sulle acque del Mae Klong, principale fiume della regione di Kanchanburi. Proprio quel corso d’acqua, per inciso, che Hollywood avrebbe in seguito ribattezzato Kwai, fischiettando beatamente, tanto per farci un ponte e dopo pure un film. Cosa importa, in fondo, del vero toponimo locale? Così il popolo degli abitanti, passeggiando, attraversava di continuo un tale prato, riuscendo a trasformarlo, con il tempo, in un fondamentale punto di ritrovo. Finché qualcuno, proveniente dalla sua fattoria nella campagna, portò lì la frutta dei suoi alberi, il riso e qualche stoffa colorata. Presto furono davvero in molti ad imitarlo. La voce si sparse in lungo e in largo: c’era un nuovo mercato, variopinto ed eccitante, lì nel mezzo del centro abitato, via dagli alberi e dal fiume turbinante su cui giunche, chiatte ed altre imbarcazioni si affollavano, per quell’altro celebre ma più antico, la fiera galleggiante di Amphlawa.
Ci sono luoghi in cui il progresso arriva tutto assieme, all’improvviso, spinto innanzi dal bisogno percepito di modernizzarsi. Tale approccio è attentamente istituito, per la prassi, da uno sforzo immane che percorre i molti campi contrapposti della collettività. Pensate, ad esempio, al Giappone del 1800. Mentre in altri luoghi, invece, si procede per gradi e con estrema attenzione, selezionando caso per caso ciò che va mantenuto in vita quotidianamente, mentre tutte quelle altre usanze o pratiche che hanno fatto il loro tempo, e siano dunque celebrate nei musei o nella letteratura. Possibilmente, solo e unicamente lì. Pensate alla Cina del 1900. Ma ecco, la Thailandia segue un’altra diramazione di quel grande corso. Laggiù nella penisola, dove una stretta striscia di terra si protende verso la Malesia e tutte le altre isole del mistico Sud-Est, in bilico tra due dei golfi più grandi al mondo, la tecnologia si mischia con le tradizioni senza soluzione di continuità. Non è un caso, né un’affettazione lirica di qualche autore, se le composizioni fantascientifiche sull’immediato futuro trovano tanto spesso l’ambientazione proprio in simili località. Cyberpunk: l’unione inscindibile tra l’uomo e il mondo della tecnologia, di per se stessa fonte di nuovi equilibri tra i rapporti meta-prismatici della derelitta società, ineguale (così la corrente è battezzata da quel movimento giovanile degli anni ’80/90, ribelle per definizione). Uno stile di pensiero in cui il mondo della virtualità, si dice, troverebbe sfogo grazie a impianti tecnologici totalizzanti ed invasivi, nel corpo umano come negli spazi del mondo reale. È invero possibile, che un tale mondo si stia palesando gradualmente, tra gli alti palazzi di vetro e cemento di Bangkok. Mnetre è invece certo, nonché pienamente dimostrabile, che ad appena 60 Km dalla capitale, siamo già nel pieno di una differente fase. La stagione del Trainpunk.
La vita del mercante viaggiatore, fin da che lui pratica quel suo mestiere, è soggetta alle connotazioni problematiche del mondo. Può bastare uno scroscio di pioggia, nel momento maggiormente inopportuno, per sovrascrivere l’ora di punta, cancellando innumerevoli occasioni di far soldi. O un ufficiale particolarmente puntiglioso, di passaggio con la Luna di traverso. O lo sciopero dei mezzi pubblici, naturalmente, salvo casi assai particolari?!

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Solidarietà tra gechi e una zuffa di Natale

Gechi solidali

È stato recentemente portato alla mia attenzione, durante un dialogo sofistico tra salottieri, che il serpente simboleggerebbe il male. Diceva l’interlocutore di una simile occasione, addirittura, che un paio di milioni d’anni a questa parte, in una sorta di giardino di Eren, o dell’Enel non ricordo, uno di questi animali si sarebbe arrampicato sopra un albero per prendere…Una mela! Lucida e brillante, parecchio strana, perché infusa in qualche modo della conoscenza. Era tale pomo, a quanto pare, una sorta di pegno simbolico della fiducia, tra due persone e un’altra, per così dire superiore. “Beh” Ho risposto io: “Gli ofidi non mangiano la frutta. Al massimo, se fosse stato un uovo!” Così quello, stranamente innervosito ha ammesso di essersi sbagliato, usando la più strana delle strategie: “Vedi, amico…” (Ti conosco appena) “La creatura verde spiraleggiante del racconto non era proprio un ANIMALE” (Ah, no?) “Ma la manifestazione sibilante dell’Avversario, colui che sussurra sempre le più pessime insinuazioni” (Vade Retro!) Davvero, certe Storie andrebbero aggiornate col passar del tempo. Io capisco che c’è un Libro, stampato in molte copie, addirittura Rivelate, oltre al fatto che sostituirle tutte non è Facile, perché c’è un Costo da affrontare. Ma in quel contesto, sarebbe certamente stato meglio usare un geco.
In particolare l’Eublepharis macularius, lucertola crepuscolare maculata dei deserti dell’Asia e del Pakistan, è molto nota per le sue abitudini frugivore. Al risveglio dal suo letargo invernale, quando dissotterra se stessa al sopraggiungere di un clima temperato, puoi vederla che cammina sui muri delle case di mattoni con l’aria condizionata, costruite dai popoli un tempo nomadi al confine delle oasi sul sentiero della seta. Moderne alternative edificate, queste, all’epoca dell’oro di cui abbiamo tale e tanta nostalgia, noi senza il cervello rettiliano di chi ruba pegni altrui. Mentre quella discendente che non ci pensa, saettando a destra e a manca e usando polpastrelli zigrinati, qualche volta s’introduce nelle stanze con finestre aperte. E la senti, prima di vederla, mentre mastica i tuoi fichi, la papaya, mango e pesca e pure l’uva, che hai lasciato in piena vista sopra il tavolo, sbadato. Non lo sai che c’è il geco leopardo, a queste latitudini? Quindi resta lì e ti guarda. Leccandosi gli occhi senza palpebre, con fare impertinente. Difficile odiarla per quel poco che ti porta via. Mangia tutto! Viene unicamente sconsigliato a chi la prende in casa, come bestiolina da compagnia (si, può capitare) di offrirgli la banana, poiché il potassio gli è nocivo, come ai cani e gatti, la comune cioccolata. Che peccato.
Bella la vita per l’animale che vive fra le mura di un’abitazione, o così si usa pensare. Benché domestico non voglia dire familiare, né garantisca, per natura, una particolare protezione dalle regole del mondo. Soprattutto in Thailandia dove, come è noto, non è insolito trovare molte bestie, anche d’imponenza significativa, ben oltre il sacro uscio dell’abitazione. Chissà poi, perché? Convenzioni sociali differenti, forse, oppure sarà l’effetto imprescindibile di quell’ambiente, così selvatico per predisposizione, ricco d’insetti, uccelli e rettili, con zampe oppure senza, con le scaglie se gli va.
Come questo serpentello verde, che in qualche maniera si è trovato, chissà come e chissà quando, ad elevarsi dal terreno. A sufficienza, per lo meno, da poter ghermire la sua preda di giornata!

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