C’è un qualcosa d’indubbiamente esagerato, o per lo meno pessimistico, nell’espressione usata dall’organizzazione di Greenpeace per definire l’ultima invenzione dei laboratori Rosatom, perla ex-sovietica del progresso atomico, “Chernobyl del Circolo Polare Artico”. Benché sia molto difficile negare che un’imbarcazione come l’Akademik Lomonosov dotata di chiglia piatta e lunga 144 metri, ancorata in prossimità della riva senza capacità propulsive di alcun tipo e un grosso carico di uranio arricchito come parte delle sue 21.500 tonnellate complessive, sia potenzialmente un disastro in attesa di accadere. Quale sarebbe in effetti il piano, in caso di tsunami? E se un ciclone, originatosi in prossimità dell’equatore, dovesse miracolosamente riuscire a spingersi fino ai confini dei più remoti mari del Nord? Esistono i precedenti.
Ciò che sta si sta concretizzando in questi giorni online, immediatamente successivi alla partenza mediante rimorchiatori verso la città di Murmansk lo scorso 28 aprile per fare finalmente il pieno ed accendere i reattori, è tuttavia una vera campagna mediatica denigratoria basata su dati inesatti ed in particolari casi, vera e propria disinformazione. Il primo passo per fare chiarezza è anticipare, innanzi tutto, che non stiamo parlando di un progetto completamente originale. La prima nave in grado di produrre un surplus di energia nucleare fu “accesa” dagli americani nel 1968, con lo specifico obiettivo di fornire energia in abbondanza alla zona del Canale di Panama, vitale per garantire in quegli anni un’operatività senza interruzioni delle chiuse navigabili, risorsa strategica di primaria importanza. Il suo nome era MH-1A (già… POCHISSIMA fantasia) e continuò a funzionare senza incidenti fino al 1976, anno in cui venne decommissionata per l’installazione di generatori più moderni nella regione, rimorchiata fino agli Stati Uniti e completamente ripulita dalle scorie radioattive risultanti dal suo lungo periodo di attività. C’è poi l’altra piccola questione, accidentalmente tralasciata, del fatto che navi dotate di generatori atomici esistono già da lungo tempo sotto svariate bandiere di marina, in particolare russe e statunitensi. Laddove il paese più vasto del mondo, in particolare, potrebbe facilmente vantare gli oltre 50 anni d’impiego assiduo della sua flotta di rompighiaccio Arktika e Taymyr, capaci di rendere navigabili i mari di Barents, Pechora, Kara e Laptev, facendo scalo soltanto occasionalmente per rifornire il carburante presente a bordo, di nuovo senza alcun apparente controindicazione per gli equipaggi e l’ambiente coinvolto nelle operazioni. Un discorso direttamente riconducibile alla nuova centrale, visto che i generatori di bordo sono niente meno che un paio di KLT-40 del tipo ad acqua pressurizzata (PWR) impiegati sulle suddette navi, soltanto collegati, invece che a un propulsore ad elica, agli impianti necessari per trasferire l’energia a riva mediante dei lunghi cavi fino ad alcune delle installazioni minerarie o piccole città più irraggiungibili del mondo. Ma la Akademik Lomonosov, così come le ulteriori 6 navi identiche la Russia prevede di costruire entro i prossimi 10 anni, può fare molto più di questo.
Come esemplificato dal nome stesso, preso in prestito direttamente dal personaggio del polimata Mikhail Lomonosov, vissuto nel XVIII secolo a San Pietroburgo, che si dimostrò in grado di scoprire l’atmosfera di Venere, dimostrare la temperatura di Mercurio, contribuire alla teoria dei gas cinetici e predire l’esistenza dell’Antartide. Il tutto mentre creava mosaici di pietra e scriveva poesie in russo, tutt’ora tenuti in alta considerazione nei rispettivi rami della filologia artistica e letteraria. Una caratteristica primaria dell’energia elettrica nei contesti moderni è la sua fondamentale versatilità: oltre a mantenere in funzione macchinari industriali e infrastrutture civili, la nuova centrale potrà riscaldare un’intera città di 100.000 abitanti sfruttando un potenziale innato di 70 Mw o 50 Gcal/ora. Per non parlare della sua capacità una volta collegata ad un impianto di desalinizzazione, di fornire acqua potabile in maniera affidabile e continuativa. Si tratta di servizi primari in grado di aumentare la qualità della vita delle persone che vivono in zone di frontiera, e possibilmente, prolungare le loro vite. Il tutto in maniera assolutamente pulita e “sicura” (!) per l’ambiente. A meno, s’intende, che non si verifichi lo scenario ipotetico di Greenpeace…
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Un sigaro gigante per estrarre l’energia dal mare
Come avvenne per il proverbiale iceberg, assassino di transatlantici dalle multiple paratie, non è sempre possibile concepire il vero aspetto delle cose. Poiché per quanto possa apparire chiara la superficie, è quello che c’è sotto, nascosto dalle onde spumeggianti, a dare il senso stesso di ciò che galleggia, oscillando, nel mare. Sono ormai due anni che, con brevi interruzioni del servizio dovute a manutenzione ordinaria e implementazione di nuove componenti, la più grande turbina concepita per funzionare grazie alle correnti marine opera nell’area nota in lingua gaelica come An Caol Arcach, quello che tutti gli altri chiamano “stretto delle isole Orcadi” o Pentland Firth. Benché non sia affatto un fiordo (firth) bensì una vera e propria autostrada, percorsa da dozzine di flussi d’acqua che s’intersecano, caratterizzati da nomi altamente caratteristici come gli Uomini Allegri di Mey, lo Swelkie e la Corsa di Duncasby. Un luogo in cui l’acqua può scorrere in direzione ovest per sei ore a una velocità di 5 o 6 nodi, quindi fermarsi per pochi minuti, per poi ripartire in senso contrario per l’intera giornata a venire. Un luogo pericoloso per le imbarcazioni, fin dalla notte dei tempi, ma anche una grande opportunità. Al punto che l’ex-primo ministro della Scozia, Alex Salmond viene spesso citato per aver definito quest’area geografica come l’Arabia Saudita delle energie rinnovabili, con un chiaro riferimento all’importanza, nella moderna civiltà dei consumi, attribuita alla fonte di molto del petrolio impiegato nel mondo. Ma ormai tutti sappiamo, per una ragione o per l’altra, il modo in cui i carburanti fossili economicamente estraibili dalla crosta terrestre si sta rapidamente avviando verso il suo esaurimento, dimostrando la natura in realtà effimera di luoghi opulenti come la scintillante città di Dubai. Possibile, dunque? Che terminata l’epoca dei grattacieli del deserto, un nuovo tipo di torri possano giungere per connotare la raccolta di energia elettrica, questa volta posizionate in orizzontale sul mare?
Grazie all’opera della Scotrenewables, una delle molte compagnie che sono nate ed hanno prosperato sotto l’egida dell’EMEC, Ente Europeo per l’Energia Marittima, sappiamo oggi, bene o male, l’aspetto che tali oggetti potrebbero assumere, in funzione di un metodo costruttivo frutto di oltre una decade di progettazione e test estensivi a partire dal 2013, che hanno incluso l’implementazione di una versione in scala pienamente funzionante della loro innovativa SR2000, nell’area con allaccio alla rete elettrica nazionale sottoposta al monitoraggio di esperti del sito Fall of Warness. L’oggetto galleggiante non identificato, del tutto simile a un sommergibile per la sua forma allungata ma privo di una sistema di propulsione proprio, di un giallo intenso con lo scafo color mattone, ha una lunghezza di 64 metri con una larghezza, vista la forma cilindrica, misurata in base al diametro: 3,8 metri. Non ha cabine, ne sovrastrutture fatta eccezione per alcune postazioni di controllo e verifica, perché semplicemente, non è stato concepito per ospitare umani. Bensì per venire lasciato, una volta raggiunta la posizione idonea, ancorato al fondale per lunghi periodi, con la funzione di generare ingenti quantità di elettricità: nella fattispecie, secondo quanto misurato nei suoi periodi migliori, fino al 7% dell’intero fabbisogno delle isole Orcadi, equivalente al consumo di circa 800 case. Non credo che a questo punto, molti potrebbero esprimere dubbi sulle potenzialità che potrebbero derivare da una vera e propria flotta di questi apparati, disposti strategicamente nei bracci di mare più agitati del mondo, in Scandinavia, Canada, in Terra del Fuoco… E questo senza neppure prendere in considerazione l’opportunità, ipotizzata da lungo tempo, d’implementare un sistema d’immagazzinamento dell’energia basata sul processo d’idrolisi e le celle d’idrogeno, potenziale rivoluzione dell’intera industria marittima nel corso di due o tre generazioni.
Ora sarebbe logico, del resto, interrogarsi sull’effettivo funzionamento di questo insolito dispositivo. Poiché per quanto concerne l’idea tipica di un generatore basato sui moti sommersi, quello che la storia recente dell’ingegneria ci ha permesso di considerare non è stato nient’altro che un equivalente della tipica pala eolica, piantato nel fondale come una sorta di surreale arbusto di cemento. Mentre in questo caso, l’effettiva realtà è l’esatto inverso: poiché le due pale girevoli previste dall’SR2000 (in grado di ricordare eliche giganti) si trovano in realtà sospese al di sotto, come altrettanti frutti pendenti a portata di squalo. Per lo meno se il pesce cartilagineo in questione fosse lungo come due autobus, e potesse vantare dei denti costituiti da un’indistruttibile lega aliena…
La ruspa tirannosauro nel pozzo della miniera
Non amate anche voi il profumo del bitume rovesciato di prima mattina? Quell’aroma di petrolio grezzo, mescolato a residui di gas e carbone vegetale. La terra umida intrisa di grandiosa energia potenziale, pronta per l’uso da parte di chiunque abbia il coraggio, i mezzi ed il potere di sfruttare i depositi sabbiosi dell’Athabasca, nella parte nordoccidentale del Canada, non troppo vicino dalla vivace cittadina di Fort Murray. Un luogo dove il cielo è sempre limpido, e l’aria per lo più tersa, mentre gli allegri minatori si recano di buona lena sulle pendici del cantiere di scavo, ben conoscendo i luoghi preposti alle loro mansioni di giornata. Piccoli capannelli di persone allegre, qualcuno che fischia un motivetto sentito in televisione, il canto leggiadro degli uomini abituati a dare il massimo tutti i giorni, perché credono nell’utilità del proprio lavoro (o quanto meno, l’utilità personale di un buono stipendio). E poi, c’è Jim. Che ha una mansione particolare, persino all’interno dell’eterogenea compagine dell’industria d’estrazione nordamericana: lui deve domare, sussurrando dolci parole, la maestosa presenza della Grande Signora. Con parole come “Buona, buona” seguìto da “Ayyy” e “Piano, adesso” rivolte a quello che sembra, a tutti gli effetti, un enorme ed incontrollabile animale, ma risponde in realtà al suo minimo tocco, con una precisione e una propensione all’obbedienza che lasciano sospettare la sua vera natura. È forse questa la scavatrice 6090 FS, ex RH 400 “Terex” (Capito il doppio senso? T-Rex) della Bucyrus, ulteriormente potenziata e migliorata dal suo attuale produttore di larga fama, la CAT/Caterpillar? Si ode una vibrazione improvvisa, mentre la coppia di cingoli inizia a muoversi di pochi centimetri. Allo squillare della sirena del turno, il lungo braccio idraulico compie una rapida piroetta, quasi a salutare gli ultimi bagliori dell’alba, mentre la scaletta d’accesso viene sollevata dal primo, e più piccolo, dei sistemi idraulici presenti a bordo della mostruosa “creatura”. Questo è un chiaro segno che Jim si trova a bordo, ormai. Nessun altro avrebbe avuto il coraggio di impugnare le leve del potere. Un lieve tocco sul touch-screen della spaziosa cabina corrisponde a un tono di risposta da parte del cervello centrale. La scritta READY-READY lampeggia sul quadro centrale. Il guidatore indossa le cuffie, selezionando sul suo cellulare la Quarta di Mahler. Una piccola concessione da parte del suo supervisore, visto che tra pochi attimi diventerà del tutto impossibile raggiungerlo per via auditiva. Mentre il frastuono del doppio motore diesel Cummins QSK60, per una potenza complessiva di circa 4.500 cavalli, inizia a girare a pieno regime, Jim si appoggia delicatamente sullo schienale. Tempo di mettersi all’opera…
La scavatrice 6090 rappresenta l’ultima evoluzione dell’antico concetto di fare a pezzi la montagna, per sollevare poi tali pezzi e caricarli a bordo di grossi camion, prima di trasportarli fino alle industrie di lavorazione e trasformarli in risorse. Un’attività piuttosto violenta non proprio gentile verso la natura, che tuttavia costituisce uno dei fondamenti stessi della corrente civiltà industriale. E risulta interessante notare come, nonostante il peso operativo di 980 tonnellate circa, sufficiente a renderla il più massiccio implemento della sua categoria, essa risulti piuttosto piccola, persino minimalista, nel contesto fuori misura dell’estrazione mineraria. Un valido appiglio descrittivo potrebbe trovarsi, a tal proposito, nell’indovinello tradizionale della sfinge: cos’ha quattro zampe quando si sveglia, due a mezzodì e tre nell’ora del vespro? Volendo far partire tale cronologia verso gli anni ’50 del 900, avremmo trovato presso il deposito dell’Athabasca un antesignano di Jim all’opera con la power shovel, un dispositivo formato da una benna ed un contrappeso, operante grazie a un sistema di tiranti connessi alla sovrastruttura principale. Tendenzialmente fuori misura, come i dinosauri a cui sembra ispirarsi la nomenclatura di categoria: pensate che la più grande power shovel della storia, Marion 6360 a.k.a. The Captain di proprietà della Southwestern Illinois Coal Corporation, pesava 12.700 tonnellate, per una lunghezza del suo braccio di ben 66 metri. Simili dispositivi, utilizzati tutt’ora, sono dotati di cingoli, benché la loro mobilità risultasse essere comprensibilmente limitata. Anche per questo, nel giro di qualche decennio, si sono trovati sostituiti dal sistema del dragline excavator, un apparato fornito di un secchio legato ad un cavo, simile a una gru e capace di “lanciarlo” a distanza, prima di iniziare il trascinamento lungo il terreno pietroso, al fine di raccoglierne ingenti e proficue quantità. Si tratta di macchine molto difficili da spostare, visto il peso di fino a 13.000 tonnellate, che tuttavia compensano tale limitazione grazie all’ampia area raggiungibile dal secchio. Ma è soltanto a partire dal 1997, che qualcuno ha pensato di tentare un’approccio radicalmente diverso al problema: l’agilità della lucertola preistorica di Bitumen Park. E non è affatto un caso, che ciò sia avvenuto in pieno territorio canadese…
Il camion che non schiaccia la schiena del suo creatore
Breve storia nordamericana: all’inizio del secolo scorso, c’era l’Alaska. La distesa della tundra verdeggiante totalmente intonsa, nel corso dell’estate, poi coperta di candida neve, dalla quale riemergeva ancor più splendida e perfetta dell’anno prima. Quindi arrivarono, in un giorno particolarmente avverso, loro due: il gabbiano e la volpe. Non che fossero del tutto assenti, in precedenza: gruppi limitrofi delle rispettive popolazioni, sparuti a causa dell’assenza di fonti di cibo, comparivano qui e là nel territorio. Cosa era cambiato, dunque? Noialtri uomini avevamo trovato il petrolio. E i siti d’estrazione, le compagnie di scavo, i piccoli villaggi degli operai, avevano scatenato su questa terra un fascino precedentemente mai considerato. L’attrazione esercitata, su tutti gli animali, dalla divina spazzatura. Gli uccelli candidi volarono, e i mammiferi carnivori accorsero, presso questi luoghi a più riprese, disperdendosi una volta sazi attraverso il vasto vuoto circostante. Dove iniziarono a modificare pesantemente l’ecologia, con le loro prede sempre più decimate e le uova di altre specie volatili letteralmente fatte scomparire, a un ritmo superiore di quanto potessero essere deposte. Mentre malattie precedentemente ignote, come la rabbia, si diffondevano a macchia d’olio. I sottili equilibri faunistici della natura erano stati sovvertiti. E per quanto riguardava la flora, le cose non andavano affatto meglio. I pesanti mezzi usati dalla nuova e fiorente industria, infatti, con un peso minimo di varie tonnellate, distruggevano con il loro passaggio lo strato sottostante di vegetazione, che in seguito riusciva a ricrescere soltanto dopo molti anni, con una varietà biologica inferiore. Finché a qualcuno non venne in mente di gettare grandi quantità d’acqua lungo i percorsi più battuti, creando strade di ghiaccio in grado di resistere fino alla successiva primavera. E… Poi? L’industria moderna e contemporanea, come è noto, tutto può fare tranne scegliere tranquillamente di fermarsi, al volgere di una particolare stagione, rinunciando ad ottime prospettive di guadagno fino ai grandi freddi successivi. Così il dramma continuò imperterrito, fino all’opera tutt’ora mantenuta in alta considerazione dell’insegnante di scuola, trasformatosi in imprenditore, William Hamilton Albee.
Costui, persona di cui le cronache non ci trasmettono parecchie informazioni, si era trasferito intorno al 1930 presso la zona dello stretto di Bering, dove amava compiere delle escursioni per andare a pesca in compagnia dei popoli Yupik, comunemente ed erroneamente definiti con il termine di eschimesi. Fu allora che gli capitò di vedere, per un puro caso, la scena che avrebbe profondamente modificato il corso della sua vita. Un gruppo di abitanti del villaggio infatti, di ritorno da un’escursione in mare, si trovavano allora in procinto di tirare a riva la grande imbarcazione, carica del pesante e prezioso pescato della giornata. E proprio mentre l’uomo proveniente dal meridione si chiedeva come avrebbero potuto costoro smuovere un simile peso, specialmente con le pesanti bardature e l’equipaggiamento artico di cui ciascuno di loro era dotato, li vide tirare fuori da una bisaccia alcune pelle di foca gonfiate soltanto parzialmente con l’aria. Le quali, una volta disposte sotto lo scafo, rotolavano facendolo avanzare, inglobando letteralmente qualsiasi ostacolo dovesse frapporsi sulla via. “Eppur si muove!” Esclamò allora. Oppure, “Eureka!” Fatto sta che in quel preciso istante, decise che sarebbe ritornato nella sua nativa California. Dove mettere immediatamente a frutto la portata della sua idea. Tuttavia, la vita gioca strani scherzi. E lui non sarebbe riuscito a dare seguito al progetto prima di altri 16 anni. L’impresa che mise finalmente in piedi, a partire dal 1951 ed investendo tutti suoi risparmi, prese il nome di Rolligon Company, sotto il cui nome si affrettò a brevettare quanto aveva precedentemente ideato. Quindi, si recò presso gli scettici produttori di pneumatici statunitensi, finché non trovò presso la Goodyear orecchie pronte ad ascoltarlo, nonché una filiera che fosse in grado di produrre ciò che adesso desiderava più di ogni altra cosa: ruote, o per meglio dire dei grossi sacchi flessibili, da usare come metodo di locomozione adatto a tutti i terreni. Il primo veicolo Rolligon, a quel punto, prese forma materiale. Si trattava essenzialmente di una sorta di triciclo, spinto innanzi da un sistema di rulli motorizzati privi di trasmissione o semiassi, un’altra innovazione di Albee, totalmente incapace di sprofondare, non importava quanto fosse morbido il terreno d’impiego. Non possiamo realmente dire, in quella fase, quanto la coscienza ecologica facesse parte del sentire di questo grande inventore del ‘900. Ma l’utilità del suo specifico approccio veicolare colpì subito almeno due importanti clienti: l’industria petrolifera e l’Esercito degli Stati Uniti. Strane scene, a quel punto, iniziarono a comparire nei cinegiornali…