Nella bella scena di un campo da golf senza nome, due antiche famiglie si combattono per i rancori delle rispettive stirpi. Dalla improvvida discendenza di costoro, due sfortunati amici ed impossibili amanti, le cui sventure con il sussurrato verso, tentano di emendare. Bianca quanto la neve da cui è solita trovare giovamento, Gufetta l’impossibile nell’ora del cupo vespro. Ed oscuro come l’ombra del mezzogiorno in cui è solito aggirarsi Romeo il corvo, le cui piume simboleggiano una decaduta nobiltà. “Che cosa c’è in un gracchiar di becco, Romeo? Ciò che siamo soliti sbranare con gli artigli ancora correrebbe nella sua tana, se smettessimo di chiamarlo Topo. Rinnega tuo padre, rinnega il tuo stormo. O se vuoi tienilo pure, ed io non sarò più una discendente della dea Noctua, signora delle ore successive al tramonto.”
Ma poesia non è poesia, senza uno sguardo approfondito al suo significato. E quello che questi occhi vedono, nella precisa circostanza, trova un utile commento del naturalista nella descrizione “Vogliono capirsi, vogliono colmare il vuoto. Lui tenta d’incalzarla, prima con fare minaccioso, quindi erige le sue piume sulle orecchie, chiaro segno di aggressività. Ma quando vede che lei non è impressionata affatto, china la testa, in quasi-segno di sottomissione. Qui è possibile capire che si è guadagnata, in qualche modo, il suo rispetto.” Insomma: non c’è vera passione, perché mai potrebbe, ma… Firmato: Bernd Heinrich, autore de “La mente del corvo”. Corvo uguale raven, ma non crow: perché appare chiara in questo caso la necessità di fare distinzioni. Laddove per la nostra lingua nazionale d’uso non scientifico, corvo è corvo e lì finisce tutto quanto, mentre i parlanti inglesi sono soliti distinguere tra i suddetti rappresentanti della specie cosmopolita Corvus corax e i diversi suoi cugini corvidi, tra cui C. ossifragus e C. corone, usando il primo termine piuttosto che il secondo. E ben più minaccioso può essere chiamato proprio lui, dal becco più grande e ricurvo, le dimensioni in media maggiori, la coda con la punta invece che a ventaglio. Mentre l’altro personaggio della scena è il Bubo scandiacus o gufo delle nevi, che visto il contesto assai probabilmente statunitense rende possibile collocare la scena nella parte settentrionale di quel paese ove la sua colorazione pallida può risultare un valido vantaggio per mimetizzarsi d’inverno. Ora che ella sua una femmina, nei fatti, è un semplice costrutto della mia immaginazione, benché l’approssimativa corrispondenza di dimensioni tra i due uccelli sembrerebbe confermarlo (i maschi dei corvi sono più grandi delle femmine, mentre nel caso dei gufi, vale generalmente l’esatto opposto) e del resto per quanto sappiamo, potrebbe aver lasciato confusi gli stessi due esponenti di specie tanto diverse. Ciò che possiamo d’altra parte riconfermare con assoluta certezza, è la natura fortemente insolita di tale circostanza, in cui nemici giurati per nascita sembrano godersi un breve attimo d’amicizia, dimenticando gli antichi rancori ereditati assieme al sangue dei propri stessi genitori. Risulta infatti straordinariamente raro, non soltanto vedere gufi & corvi che coesistono all’interno dello stesso territorio, ma la scena di un rappresentante della nera specie gracchiante che corre il rischio di avvicinarsi a un esponente della controparte, generalmente assai più grande e forte, senza la copertura protettiva del suo intero gruppo della sua posse o gang che incombe, possibilmente dall’alto. Ed infinite, nonché altrettanto terribili, appaiono da tempo immemore le scene in cui questi due ordini s’incontrano, spesso culminanti con la fuga o in alternativa, addirittura la tragica morte della progenie rapace del cielo notturno. Ma chi può dire cosa potrebbe realmente succedere, nell’ipotetica ed improbabile casistica di un vero sentimento romantico tra un giovane Romeo, nero combattente, ed il gufo alato oggetto del suo proibito amore…
letteratura
Butoh, una danza che celebra l’oscurità della natura umana
Se avete visto un film horror della serie Ju-On e The Ring, se avete giocato a The Siren o Silent Hill… Se, quando vi trovate dinnanzi a una schermata di selezione del personaggio, tendete a spostare il cursore sul ritratto più bizzarro e divergente dalle norme estetiche comuni, come Voldo di Soul Calibur, con le movenze inumane e la carnagione pallida di un morto vivente… In un modo oppur l’altro, potreste averla conosciuta. Di certo, sarebbe quanto meno riduttivo voler limitare le conseguenze della danza d’avanguardia moderna giapponese Butoh o Butō (舞踏 – termine un tempo usato per riferirsi al valtzer occidentale) alle sue diramazioni più prosaiche nella cultura Pop del Post-Moderno, benché risultino proprio queste, di primo acchito, a preservarne l’impatto quando viene messa in mostra, descritta o analizzata per il pubblico ludibrio, online. Poiché l’espressione di un sentire fortemente personale, quando potenziata tramite la disciplina, l’abnegazione e lo studio dei processi d’espressione, come fosse l’estensione di un segmento lungo l’asse matematico dei sentimenti, può diventare l’obiettivo di svariati spunti d’analisi, ciascuno egualmente significativo al fine di comprenderne i segreti più nascosti ed occulti. E non ci vuole affatto molto, dopo essere venuti a contatto con l’esibizione del ballerino svizzero Imre Thormann presso il tempio di Hiyoshi Taisha a Shiga che costituisce attualmente l’esempio più guardato di YouTube, con oltre 2 milioni e mezzo di visualizzazioni, per comprendere l’illimitata profondità di questa caverna, tortuosa via d’accesso a un modo estremamente specifico di approcciarsi ai contenuti veicolati dal movimento del corpo umano. Volendo quindi tentare di azzardare una descrizione in linea di massima di quella che si è trasformata, attraverso gli ultimi 60 anni, in una vera e propria filosofia di vita oltre che un canone della danza, potremmo riassumere le caratteristiche del Butoh per così dire “classico” nel tormento, visibilmente apprezzabile, dell’individuo sul palco che giunge drammaticamente a contatto con le implicazioni più profonde dell’esistenza. Le quali includono, in aggiunta alla mortalità della carne, l’insoddisfazione dell’anima e uno stato d’infelicità pressoché costante, come esemplificato dalla forma prototipica di questa forma d’arte, definita in origine ankoku butō (暗黒舞踏) ovvero letteralmente “danza dell’oscurità”. Verso un processo che tende ad includere tra le altre cose: la nudità ed il corpo tinto di un colore chiaro o riflettente, tremori, scatti improvvisi, movimenti simili a quelli imposti da una forza esterna, come l’istigazione forzata da parte di spiriti o entità divine, o ancora la messa in scena di situazioni impossibili, come la trasformazione intera o parziale dei propri arti in creature del mondo naturale. Ciò detto e come succede nella maggior parte dei movimenti di avanguardia, indipendentemente dalla loro nazionalità, non esiste un preciso repertorio fisso che possa identificare una perfomance come “allineata” al concetto di Butoh, in quanto il rifiuto della standardizzazione è alla base stessa della sua nascita, originariamente e convenzionalmente fatta risalire al periodo, nel secondo dopoguerra, in cui le giovani generazioni giapponesi rifiutavano al tempo stesso l’influenza possente dei paesi occidentali nei confronti di ogni aspetto dell’arte nazionale senza voler ritornare, al tempo stesso, alle rigide modalità espressive del teatro Noh, ritenuto comprensibilmente inadatto alle implicazioni in rapido e continuo cambiamento dell’universo contemporaneo.
Per questo il Butoh, ancor prima di diventare il sinonimo di una certa mostruosità trascendentale e in qualche modo digitalizzata causa l’attuale superficialità dell’arte, ha sempre posseduto uno stile diretto e terreno, idealmente privo di raffinatezza e grazia, ma soltanto perché teso in ogni suo atomo a coinvolgere lo spirito di chi si trova ad osservarlo…
Karuta, il fulmineo gesto che cattura le poesie giapponesi
Un antico detto celebre nel mondo delle arti marziali, recita “Non praticare cento tecniche. Ma metti in pratica per cento volte la stessa tecnica. Soltanto allora, potrai essere un maestro.” Osservazione particolarmente utile in determinate circostanze, come quella di un combattimento letale tra spadaccini: poiché se il tuo avversario, ogni volta, finirà per perdere la vita, perché mai dovresti perder tempo a diventare imprevedibile? Ed esemplificata, nello specifico, nella concezione del combattimento di spada ( 剣術 – kenjutsu) nota come iaido (居合道) consistente nel vincere il confronto con un singolo colpo. Quello vibrato, per l’appunto, durante l’estrazione della propria katana. E se io vi dicessi, adesso, che un simile processo viene messo in pratica tuttora, da persone che sulla sua infinita ripetizione, puntano in un certo senso la propria stessa sopravvivenza, per così dire, professionale?
Da un certo fondamentale punto di vista, si tratta più che altro di uno sport. Ma può andare incontro a molti diversi tipi d’interpretazione: gioco di società, passatempo per bambini… Persino ausilio allo studio pratico della letteratura, come probabilmente nacque, con una serie di regole assai diverse, al vertice di un’epoca in cui scrivere in versi rappresentava il gesto della nobiltà di corte, doverosamente incline a dar sfoggio del proprio privilegio. Ed anche, proprio dato a intendere dal suo nome attuale, una traslitterazione quasi diretta, secondo il sistema fonetico nazionale del termine olandese per “carte da gioco”, il gioco più semplice che sia possibile fare con due mazzi di carte in qualche modo simili o connesse tra di loro, disposte in fila e poi pescate in simultanea, nel tentativo di battere sul tempo il proprio avversario. Non è difficile nei fatti dare un senso alle implicazioni della scena: due persone siedono alla giapponese l’una di fronte all’altra sul tatami, con espressione drammaticamente seria e cinquanta carte da gioco ordinatamente situate in due gruppi distinti nello spazio tra le loro ginocchia. Una terza, poco distante, pesca la prima carta del suo mazzo, iniziando a declamarne con voce stentorea il contenuto; i due avversari, quindi, si lanciano in avanti, nel disperato tentativo di prendere quella corrispondente prima della loro controparte. Ciò risulta essere, nel senso maggiormente basilare, la versione competitiva del gioco noto tradizionalmente come “Cento poeti, una poesia ciascuno” (Ogura Hyakunin Isshu – 小倉百人一首) cui generalmente ci si riferisce, per semplicità espressiva, come “carte delle poesie” (Uta-Garuta – 歌ガルタ) o ancor più brevemente, karuta. Benché ovviamente, ci sia molto, molto altro da considerare: innanzi tutto la maniera in cui il lettore stesso debba possedere uno specifico addestramento e inclinazione, a leggere le proprie cento carte “da leggere” (yomifuda) con voce stentorea e particolarmente precisa, enfatica e nel tempo stesso priva d’inflessione eccessivamente prevedibile o stereotipata. Questo perché il contenuto di tali elementi d’importanza primaria altro non è, in effetti, che un componimento in versi scritto tra il nono e il dodicesimo secolo da importanti personaggi della letteratura di quel paese. Mentre i due concorrenti della partita, dal canto loro, dovranno aver memorizzato puntualmente, negli esatti 15 minuti concessi prima dell’inizio, la posizione scelta per le 25 carte dalla propria parte del proprio “campo” e quanto messo in pratica nell’altra metà dello stesso, per un totale di 50 carte “da prendere” (torifuda) recanti, ognuna, la metà finale delle stesse poesie. Avrete certamente notato, a questo punto, una disparità nei rispettivi totali: ciò in quanto, al fine di rendere la partita maggiormente interessante, ogni volta vengono schierate solo esattamente la metà delle torifuda, mentre le rimanenti 50 vengono chiamate “carte morte” e pur essendo declamate dal lettore, non sarà possibile catturarle. Dal che deriva, molto prevedibilmente, un preciso schema di rischio & ricompensa, per non parlare delle conseguenti punizioni…
L’arcano scheletro della foresta che univa le isole inglesi
Ombre scure tra le onde del bagnasciuga, come rocce o antichi fossili dimenticati. Dopo l’ultima tempesta, la spiaggia grigia di Ceredigon (a.k.a. Cardigan Bay) sulla costa occidentale gallese non apparve più la stessa… Qualcosa di diverso interrompeva la monotonia del familiare paesaggio. Era la fine di maggio del 2019, ma un evento simile aveva già avuto modo di verificarsi varie volte in precedenza, l’ultima delle quali nel 2013: quando il vento, la pioggia, il mare mosso avevano collaborato, nel colpire e spazzare via lo strato di sabbia mista a torba di un simile scenario, mettendo a nudo un incredibile reperto morto-vivo risalente a circa 4.500 anni fa. Schiere d’alberi infiniti, pini, querce, betulle, ontani e frassini, o per meglio dire i loro ceppi parzialmente integri, completi di radici. Niente affatto mutati in pietra, ovvero mineralizzati dai processi che trasformano creature organiche in reperti in grado di attraversare immutati gli Eoni; bensì caratterizzati dall’aspetto e quella consistenza, perfettamente riconoscibile, che tende a possedere il legno marcescente. Proprio così: pochi anni sembravano essere trascorsi, soggettivamente, dal momento della loro dipartita. E poiché si tratta di piante, espressioni vegetative del concetto di stesso di sopravvivenza sopra ogni cosa, non pare del tutto impossibile che da un giorno all’altro possano tornare a germogliare. Al canto degli pterodattili nei cieli, mentre in lontananza, sembrano risorgere le risplendenti torri del leggendario Cantre’r Gwaelod, il regno che un tempo si estendeva dal Galles all’Irlanda, prima che un’inondazione del tutto imprevista ne spazzasse via le mura e tradizioni . Un mito, il qui citato, tutt’altro che raro tra i popoli di tutto il mondo, e riconducibile al concetto assai diffuso del Diluvio Universale, benché in questo particolare frangente, l’evidente prova della vegetazione pregressa sembri richiamarsi ad un fatto realmente avvenuto: una colossale e sicura frana, avvenuta secondo i geologi attorno a 6 millenni fa, di tre altopiani sottomarini al bordo estremo della placca continentale norvegese. Nota convenzionalmente come evento di Storegga e capace, secondo una vasta serie di accreditate teorie, di portare alla scomparsa di ampi territori emersi noti come “Doggerland”, sia da un lato che dall’altro di quel luogo che un tempo era una penisola, oggi noto come arcipelago della Gran Bretagna. Niente volontà divina quindi, o alcuna punizione per le malefatte delle genti coéve; bensì pura e incomparabile disgregazione, frutto degli eventi e sconvolgimenti della Terra stessa, che con tanta assiduità, attraverso i secoli, ci nutre. Finché la misura e colma e giunge l’ora, lungamente paventata, di spazzare via i ricordi e dare inizio a un ulteriore capitolo dell’esistenza umana. Ma poiché la natura possiede questa innata tendenza, particolarmente rappresentativa, a resistere ai suoi stessi processi, può talvolta capitare che la particolare composizione del suolo anaerobico, capace di costituire una massa compatta e indivisa, agisca come un frigorifero senza elettricità, preservando ciò che tanto a lungo era stato nascosto agli occhi delle persone. Gente come gli abitanti dei villaggi di Borth e Ynyslas, ormai da molte generazioni rassegnati a convivere con l’avanzata lenta ma inesorabile del livello dell’oceano come dovettero fare, a un ritmo molto accelerato, i loro insigni predecessori. Ma anche i pescatori, bagnanti e turisti della terra emersa a fronte del braccio di mare antistante, quella spiaggia di Youghal in Irlanda, dove molto evidentemente lo stesso accadimento si verifica, a intervalli irregolari, esponendo quello che potrebbe anche essere l’altra estremità del perduto bosco. Dando luogo a un’ampia serie di speculazioni…



