Breve descrizione del motore più veloce mai esistito

SR-71 Engine

Due di questi e un guscio di titanio, con la forma oblunga di un serpente in grado di ingannare i radar: tutto questo e niente più, era quello che serviva per riuscire a “vincere” la guerra fredda. Perché quando i cannoni diventano così potenti, le bombe tanto grandi e spaventose e l’artiglieria guadagna una gittata tale che i paesi debbono passare ad altri mezzi per farsi valere con la forza, pena una catastrofe inimmaginabile, allora diventano le spie a decidere il percorso della storia.  È assurdo, a pensarci. Quando ti trovi a 24 km d’altitudine, in una tuta che ricorda molto da vicino quella di un astronauta, a velocità che sfiorano il Mach 3.4, non potevi che avere il destino del mondo nelle tue mani, perché cosa sarebbe mai successo, a ben pensarci, in caso d’intercettazione? Il primo maggio del 1960, durante la presidenza statunitense di Dwight D. Eisenhower, avvenne l’impensabile: uno dei recenti aerei americani con motore a reazione U-2, usati per studiare il nemico sovietico da altitudini vertiginose, venne intercettato sugli Urali da una raffica di missili S-75 Dvina, che finirono per colpire anche uno dei MiG 19 i quali, come in diversi casi precedenti, inseguivano il velivolo senza poterlo mai raggiungere. Il pilota, Francis Gary Powers, riuscì ad eiettarsi e venne subito trasferito nel carcere di Vladimir, a 100 km da Mosca, dove sarebbe rimasto per un periodo di 10 anni, fino ad uno scambio di prigionieri tra le due superpotenze. A seguito di un tale evento senza precedenti, tuttavia, poteva succedere qualunque cosa. E certamente i vertici dell’Unione Sovietica, nella persona dell’allora premier Nikita Khrushchev, devono aver valutato diversi corsi di reazione, prima di scegliere per quello relativamente ragionevole di sottoporre all’opinione pubblica l’intero corso degli eventi, guadagnandosi un gettone politico da usare durante l’imminente summit della pace che doveva tenersi a Parigi. Il quale, in conseguenza di un simile inasprimento dei rapporti, venne immediatamente cancellato. Mentre in un discorso pubblico che sarebbe rimasto nella storia, Eisenhower si trovò a dover rivelare al mondo che Si, la CIA spiava i paesi membri del blocco orientale, e che Si, ciascuna di queste missioni veniva valutata ed approvata in prima persona dallo stesso presidente degli Stati Uniti. A quei tempi, tuttavia, almeno nella mente della leadership politica dei due paesi, c’era molto più in ballo che la semplice reputazione internazionale. Quando l’uomo della strada è convinto di vivere gli ultimi dei giorni, mentre persino le canzoni della musica Pop alludono a ogni sorta di disastro atomico incipiente, non è semplicemente possibile smettere di guardare nella direzione da cui soffia il vento, con ogni strumento e metodo a disposizione. Questi erano, per inciso, gli anni del programma Apollo, quando tutto sembrava possibile, persino giungere fino alla Luna, e già venivano lanciati in gran segreto i primi satelliti di sorveglianza. Ma lo spazio come metodo spionistico aveva i suoi limiti, alcuni dei quali sopravvivono anche all’avanzamento odierno delle telecomunicazioni: immaginate di dover dirigere una telecamera orbitale sopra il possibile sito di un’emergenza strategica. Il carburante sarà limitato, e con esso la velocità di spostamento. Inoltre, cosa avrebbe mai impedito ai sovietici, una volta resa palese la loro posizione, di nascondere i lanciamissili e l’artiglieria, se non semplicemente spostare quelle cose, confidando nelle altre 24 ore che avrebbe impiegato l’occhio nel cielo per scrutare nuovamente in quella direzione…Tutto questo e molto altro, così convinse gli ingegneri di una cosa: se un aereo può essere intercettato e così tradire l’intento segreto dei suoi padroni, la colpa non era del metodo, ma delle sue prestazioni insufficienti all’epoca corrente. E con risorse infinite, menti innumerevoli, tempo ben pagato, non c’era praticamente nulla che fosse realmente, irrealizzabile. Il risultato di una tale linea di pensiero? Ce lo avete sotto gli occhi, in un certo senso. O per lo meno, uno dei suoi due “cuori”.
L’uomo nel video è Richard Graham, uno dei più famosi piloti dell’SR-71 Blackbird, nonché la principale fonte di notizie pubbliche su questa macchina straordinaria, almeno da quando sono state declassificate le informazioni top secret sul suo funzionamento. Che fu progettata dalla Skunk Works, la celebre divisione sperimentale della Lockheed Martin, istituita in California già nell’ormai lontano 1943, con i semplici strumenti che oggi non possono che lasciarci basiti: carta e penna, schemi fatti a mano, zero simulazioni computerizzate. Davvero le menti eminenti di quell’epoca pensavano su scala e in modo differente. Inoltre, va pure considerato, un progetto come questo arrivava a coinvolgere migliaia di persone, che in qualche maniera si coordinavano sotto la pressione di una simile emergenza percepita. Il risultato più degno di nota: questo poderoso blocco di metallo, oggi ospitato nel museo del volo di Love Field a Dallas, nel Texas. Si tratta di un motore Pratt & Whitney J58, il dispositivo che poté spingere dapprima i due prototipi dell’YF-12 e dell’A-12, quindi la notevole carlinga del futuro aereo spia statunitense, che sarebbe rimasto in servizio attivo fino al 1998, completando una serie di missioni tanto segrete e di lunga durata che ancora oggi, a decadi di distanza, non sono state rivelate al mondo. Però sappiamo questo: la sua velocità era tale che i piloti, per riscaldarsi il pranzo, erano soliti appoggiarlo sul vetro al quarzo della cabina di comando, che poteva facilmente raggiungere i 200 gradi di temperatura nonostante l’alta quota.

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I corrieri di Varsavia con il sangue freddo e i cuori nel bauletto

Motorcycle Warsaw

Un uomo cade a terra nell’ora di punta in mezzo alla città, in quanti si fermano a guardare? Quindici curiosi, dieci perché sono impressionati, cinque tentano di offrire il loro aiuto. Fra tutti quanti un paio, grosso modo, impugnano il telefono e compongono i tre numeri del Pronto Intervento. Si fa ancora in tempo per salvarlo…Forse, se la Luna ed i pianeti avranno il giusto allineamento. La prima variabile è la causa: attacco di cuore? Emorragia cerebrale? Magari solo un calo degli zuccheri. Ciò che conta, ad ogni modo, è giungere sul luogo in tempo per capirlo e in caso offrirgli un qualche tipo di assistenza. Il che non sarebbe un problema, in un mondo ideale. Se bastasse la sirena per far smuovere i palazzi, se nessuna auto si trovasse in mezzo a quelle strade da percorrere in velocità. Qualora l’ambulanza, guadagnadosi un bel paio d’ali, avesse il modo di fluttuare lievemente fino all’obiettivo. Tuttavia non sempre un elicottero è a disposizione, né risulta possibile farlo giungere in velocità. E un furgone carico di paramedici, per quanto agile e veloce, dovrà pur sempre arrendersi a determinate scomode evidenze: che le quattro ruote presuppongono una massa, una larghezza, e che l’insieme dell’una e l’altra qualità impedisce di filtrare fino all’obiettivo, fluidamente, in mezzo al traffico delle spietate circostanze. Un serio problema, a meno che…Fra tutte le costellazioni che risplendono sul caso e la fatalità, giungesse a palesarsi quella del Centaurus, resa manifesta al mondo fisico nei gesti e nelle doti di un particolare fornitore di soccorsi: il pilota quotidiano di una delle sette Yamaha XT660Z Tenere, gestite dalla fondazione polacca non a scopo di lucro Jednym Sladem (Una Sola Strada) fondata nel 2009 da Christopher Rzepecki, con lo scopo di promuovere la reputazione dei motociclisti, nonché far cambiare in meglio la legislazione nazionale in materia di sicurezza stradale. Ma che soprattutto, a partire dall’anno scorso, ha iniziato a salvare attivamente la vita della gente, grazie alle gesta degli spericolati volontari partecipanti al progetto MotoAmbulans, che in caso di necessità disegnano un linea di fuoco da un punto Y della città fino all’X che segna il rischioso imprevisto, l’incidente, l’individuo di cui sopra, troppo prossimo a lasciare questo mondo. E niente affatto strano a dirsi, c’è davvero molto che possa fare anche un singolo operatore armato di un kit medico e un defibrillatore automatico Philips FRx AED, soprattutto se può comparire come per magia, oltre i limiti di ciò che sarebbe lecito e ragionevole aspettarsi da un “comune” paramedico. Senza affatto sminuire quest’ultimo, che magari ha un’esperienza persino superiore in materia di prime cure, ma difficilmente nasce in ambito professionale come un grande appassionato di velocità, disposto a superare il rosso del semaforo frenando in modo poco più che simbolico. Operazione al limite del responsabile, questa, che viene mostrata più volte nella ripresa dell’intervento di uno dei loro mezzi nel quartiere di Saska Kepa di Varsavia, con lo scopo preciso, nel presente caso, di portare a destinazione del non meglio definito “materiale medico”.
E visto il ritmo della corsa, non ci sono molti dubbi su ciò di cui stiamo parlando: l’abile pilota in questione si sta prodigando a margine di una qualche operazione estremamente delicata, trasportando fino a destinazione presso un ospedale, assai probabilmente, un organo o del sangue.  Ed è una lunga serie di difficoltà ed ostacoli, quella che si trova ad affrontare presso questa zona ad est del fiume Vistola, dove venivano stazionate le guardie sassoni dei re di Polonia fino al diciottesimo secolo, un luogo caratterizzato da strade relativamente ampie, ma pur sempre insufficinti ad ospitare il traffico di una moderna metropoli da quasi due milioni di abitanti. Finché ad un certo punto, per giungere a destinazione in tempo utile, non gli resta che spostarsi nello spazio dedicato alle rotaie del tram, la cui presenza rischia di conoscere davvero da vicino, quando ne sfiora le fiancate una, due, tre volte con i gomiti, gli specchietti e tutto il resto.

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Il carro armato nella buca piena d’acqua e fango

Abrams in Mud

Ho quattro cervelli, otto braccia, ho sedici piedi ma nessuna gamba. Peso decine di migliaia di chili, la mia pelle è di ferro. Ho una lunga proboscide con un buco e mezzo, ma non mi serve per respirare. Un piccolo uomo, da dentro al mio guscio, vi preme dentro una pigna d’uranio. Io mi giro, punto il nemico, chiedo il permesso, quindi gli sparo, BAM. Carro da guerra, una vita difficile. Non complicata: fra tutti gli ausili alla guerra, nessuno trova un’applicazione più diretta della moderna cavalleria cingolata, che avanza verso un obiettivo in condizioni di relativa vulnerabilità. Ciascuno di questi mezzi è grande nonché rumoroso. Può essere facilmente identificato a partire dalla sua impronta radar, costituendo il bersaglio ideale per l’artiglieria o gli elicotteri, per non parlare della fanteria nemica. Come è stato ampiamente e costosamente dimostrato durante alcuni degli ultimi conflitti nel Medio Oriente, non importa quanto sia spessa la sua corazza né abile il suo comandante: in una situazione di conflitto urbano, persino il migliore di loro è letteralmente inerme dinnanzi ad un colpo fortunato. Può talvolta bastare il colpo di un antiquato lanciarazzi proveniente da un vicolo, magari ad opera di una milizia tutt’altro che disciplinata, per bloccare sul posto gli oltre sei milioni di dollari di materiél allo stato dell’arte di uno di questi veicoli, che poi è la stessa cosa che metterli definitivamente fuori gioco. Un carro bloccato, in condizioni di battaglia, va prima o poi abbandonato. Ed a quel punto, un equipaggio responsabile potrà fare una cosa soltanto: distruggerlo con cariche ad alto potenziale, affinché non ritorni di nuovo sul fronte di battaglia, però schierato dalla parte sbagliata. Nessuno vorrebbe trovarsi di fronte ad uno zombie-tank.
Anche per questo, nella progettazione dell’M1 Abrams, collaudato per la prima volta nel 1979, la mobilità è stata tenuta in altissima considerazione. Il mezzo in questione, che con le sue 55-62 tonnellate di peso (a seconda dell’allestimento) costituisce uno dei più pesanti della sua classe attualmente in servizio, è stato dotato di un sofisticato motore composito, in cui un meccanismo convenzionale a benzina riceve la spinta addizionale di una turbina a gas, per una spinta complessiva di 1500 cavalli. Per essere chiari, 500 in più di quelli della Bugatti Veyron, benché il rapporto peso-potenza, naturalmente, sia decisamente meno vantaggioso. O per meglio dire, condizionato dall’obiettivo finale dell’apparato: che nel caso del carro non è l’andar veloci, ma piuttosto, il procedere in modo costante. Sopra ed oltre i colli, nelle ripide valli e fin oltre le postazioni nemiche. Senza risentire eccessivamente di tutto quest’odio esplosivo, l’orizzontale pioggia d’implementi d’offesa tanto generosamente scagliati al suo maestoso indirizzo. E possibilmente, rispondendo al fuoco. Il che ci porta al nocciolo fondamentale della questione. Nel concetto stesso di linea del fronte di guerra, si deve immaginare la necessità di abbandonare le strade asfaltate. L’esercito come strumento storico, che nella sua forma più mobile marcia in un’ordinata colonna, raggiunto il nemico non può sfruttare nemmeno un decimo della sua potenza di fuoco, a meno che non pratichi l’essenziale manovra di schieramento. In sostanza, disporsi in un senso perpendicolare a quello precedente, per riprendere quindi l’avanzata, ma in condizioni diverse. A meno che non si tratti di un corpo d’armata particolarmente piccolo, dunque, o che ci si trovi all’interno della più grande e impossibile piazza del pianeta, soltanto un piccolo gruppo di (s)fortunati continuerà ad occupare quella tipologia di suolo che era stata precedentemente spianata ad uso veicolare, per di più trovandosi particolarmente esposto all’occhio degli armieri nemici. Tutti gli altri dovranno avanzare…Dove…Càpita. Il che può includere, a seconda del teatro di battaglia, foreste, paludi, deserti. Tutti luoghi in cui un automobilista responsabile, persino se alla guida del miglior fuoristrada sul mercato, si avventurerebbe soltanto con ottime ragioni, e per tratti davvero limitati. Considera! Gli imprevisti capitano. E se finisci bloccato nel fango, con un mezzo che pesa quanto una casa di piccole dimensioni, non sarà davvero facile tirarti fuori. Potranno, nei fatti, salvarti soltanto tre cose: un carro attrezzi (più carri attrezzi) dall’estrema possanza, un altro carro armato come te, o l’abilità di guida, se applicata in una condizione comunque recuperabile, ovvero una buca non troppo profonda, né eccessivamente sdrucciolevole. Qualcosa di simile, insomma, a quanto capitato a questo pilota americano, che durante un esercitazione non meglio definita, nel 2012, finiva dentro all’equivalente naturale del fossato del castello di Edinburgo. Cosa fare, dunque, se non dare gas! Ed altro gas, della turbina a gas, nel turbinìo cacofonico di un crescendo di sforzi erculei, nella speranza di non dover chiedere aiuto a qualcuno. Perché se una simile “svista” dovesse giungere fino alle orecchie dello stereotipico, spietato sergente…

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Le regole non scritte dei pit stop

Pit Stops

Ben fatto, missione compiuta, ottimo lavoro. Da una video-raccolta come questa, realizzata dall’utente di YouTube Rdwomack2 con lo scopo di mettere a confronto le soste ai box di alcuni dei più celebri sport motoristici di tutto il mondo, si riesce a comprendere immediatamente gli anni di perfezionamento tecnico e l’impegno professionale di chi si sobbarca il còmpito, una gara dopo l’altra, del cambiare quattro gomme, fare il pieno di benzina, regolare un alettone o due. In. Frazioni. Di. Secondo. È un curioso ambito questo, delle discipline con il volante al centro della situazione, in cui sussiste il metodo del gioco di squadra come l’approccio cooperativo di un’equipe, eppure molto poco la stampa di settore si sofferma sulle imprese di quegli altri oltre il pilota, tutti coloro che rendono possibile l’impresa tecnologica di far correre un veicolo ad alte prestazioni per 300, 800, fino a 5100 Km di seguito, facendo fronte al gioco dell’usura accelerata in parallelo. Ricorda solo i loro fallimenti. Questo forse perché, in un mondo ideale, la sosta ai box non avrebbe una ragione d’esistenza: correndo con veicoli a cuscino d’aria, o magnetizzati, o spinti innanzi dalla forza del pensiero, l’abilità dell’unicum sarebbe finalmente a farla da padrone. Tutto può essere semplificato, almeno in potenza. Si può eliminare il fattore rischio, ridurre il peso degli imprevisti sull’esito finale del problema. Ma il “primitivo” dell’epoca di Internet mono-pianeta o uno di noialtri odierni spettatori dagli spalti ancora materiali, non potrebbe fare a meno di chiedersi, a quel punto, dove sia lo sport.
È una questione che s’insinua appena tra gli strati della tangibilità: front-end e back-end, golfo mistico e proscenio. Nello spettacolo teatrale dei motori che rombano la loro furia, una curva protesa al massimo della portanza aerodinamica, la spinta calibrata nell’uscita presso il rettilineo, il sorpasso all’ultimo giro, decidono le posizioni, esattamente come l’uomo che imbullona lo pneumatico sul segno dei secondi. Giusto l’altro ieri (21/6/2015) sul circuito austriaco di Zeltweg, il pilota Sebastian Vettel si trovava a fare i conti nuovamente con questa disagevole correlazione, che già gli era costata in episodi precedenti della sua carriera con Infiniti Red Bull, prima di approdare, come i suoi insigni predecessori, presso le auree scuderie della Ferrari.  Al 38° giro, dopo un inizio gara decisamente non ideale che vede l’impatto tra le auto di Raikkonen e Alonso (illesi) seguìto da 6 giri di bandiera gialla, il quattro volte campione del mondo si dirige come da programma verso la corsia dei box, per ricevere l’essenziale risorsa di quattro gomme nuove, utili a condurlo verso lo speranzoso podio, risultato che avrebbe dovuto aiutarci a risollevare le sorti di questo campionato con ormai un vantaggio d’oltre 100 punti dei tedeschi di Mercedes sulle nostre rosse nazionali. Ma sotto gli occhi strabuzzati dei commentatori, un grido di sorpresa e sofferenza: “La pistola! La pistola non funziona!” Non di un’arma da fuoco stiamo parlando, chiaramente, bensì dell’attrezzo elettrico che trova l’impiego nell’avvitamento dei bulloni che assicurano le quattro ruote della monoposto ai semiassi, concepito per un cambio rapido e terribilmente funzionale. Passano i secondi. Ben tredici! Una vera eternità, in quel contesto, sufficiente a condizionare il resto della prestazione del pilota, che al termine dell’evento riesce ad ogni modo a conseguire una rispettabile quarta posizione, dietro Rosberg, Hamilton e Massa. Tutt’altro che sufficiente per cambiar le cose, ahimé. Impera, in un tale esito imprevisto, la regola dei “se” applicati alla causalità degli eventi. Se invece di guastarsi in quel momento, l’odiato attrezzo l’avesse fatto durante le prove o le qualifiche! Se quel giorno, attingendo al fornito inventario del camion di supporto, la squadra avesse preparato per l’uso sul campo uno dei suoi molti consimili tenuti pronti in caso di necessità…Se SOLTANTO, invece che a quel team antico ed orgoglioso, la sfortuna avesse arriso del suo ghigno malefico qualcuno di meno “importante” – almeno soggettivamente parlando, s’intende. Ma così non è stato e di questo ormai si parlerà. Ogni mondo dei sorpassi in pista ha le sue regole, che provengono talvolta da lontano, sia nel tempo che nelle idee degli organizzatori. Ed altre, invece, nascono praticamente l’altro ieri. Vedi ad esempio il caso, mostrato nel secondo segmento di Rdwomack2, di un imprevisto ai box di gara della nuovissima Formula E, la serie cominciata nel 2013 per dimostrare i meriti e le doti delle monoposto spinte da un motore elettrico, tanto spesso messe alla berlina dagli amanti della tradizione. Ora, simili oppositori per partito preso potrebbero ben dire che ci sia qualcosa di poco dignitoso nel pilota che, per la sosta ai box di metà gara, scende fisicamente dall’auto, per salire con relativa calma sopra un’altra pienamente carica (ciascun pit stop ha un tempo minimo, istituito per ragioni di sicurezza) ma c’è da dire che ciò limita di molto i possibili imprevisti, ripristinando, almeno in teoria, un senso d’assoluta competizione alla guida, solamente quella. Tranne il caso, qui facilmente dimostrato, di un pilota che non guardi a destra prima di uscire dal box. Le auto elettriche sono molto, troppo silenziose….

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