Un incontro col robot che amplifica i movimenti del suo pilota

Nel 2008, anno delle Olimpiadi di Pechino, ci fu una piccola nazione che nonostante i duri allenamenti, portati avanti per molti mesi sotto lo sguardo di una moltitudine di persone, non riuscì a qualificarsi per far partecipare alle gare il suo singolo atleta. Il nome di questo paese? In realtà non lo conosciamo. Ma l’appellativo di costui ci è giunto attraverso la fama imperitura: QWOP, come il suono che fa una scarpa da ginnastica quando colpisce il tartan rossiccio, pavimento per eccellenza nelle discipline dell’atletica leggera; no, QWOP: Quite Worthy Operative Person, acronimo soltanto parzialmente suggestivo dell’intento procedurale originario; no, QWOP: i primi due, e gli ultimi due tasti sulla prima riga della tastiera. Un chiaro rifermento al particolare stile deambulatorio dell’individuo in questione, la cui corsa, idealmente, era la risultanza di una serie d’impulsi (avanti, indietro, sopra sotto) inviati separatamente alle due gambe perfettamente capaci di condurlo nell’Olimpo degli atleti generazionali. Se soltanto non fosse stato così… Terribilmente scoordinato. Capite di cosa sto parlando? È il celebre giochino da browser, che spopolò nelle classi e negli uffici poco prima della rivoluzione smartphone, in cui la sfida principale per l’utente era riuscire a padroneggiare un sistema di controllo tutt’altro che semplice, efficiente o sensato. Eppure, così perfetto, da un certo punto di vista: poiché permetteva un controllo diretto dei muscoli dell’omino, ovvero la perfetta sovrapposizione tra le nostre dita alle sue scattanti caviglie. Tra un capitombolo e l’altro. Mentre nel più famoso gioco di corsa fino ad allora, Track & Field della Konami (Hyper Olympic, 1983) tutto quello che veniva chiesto in termini d’interfaccia per andare più velocemente era premere molto rapidamente il pulsante. Al giorno d’oggi, nessuno si sognerebbe di definirla un’esperienza in qualsivoglia modo edificante. Perché, dunque, dovremmo modellare l’imminente sport della corsa tra robot giganti sulla base di una tale attività, banale quanto ripetitiva?
Già, imminente. Qualcuno tra voi potrebbe, forse, aver assistito al cosiddetto “scontro di wrestling” tra i due sistemi meccanici da combattimento, costruiti rispettivamente da Stati Uniti e Giappone, organizzato lo scorso ottobre grazie alla campagna pubblicitaria della Megabots, piccola azienda finanziata online. Un’esperienza che in molti hanno definito deludente, per il semplice fatto che i mech in questione erano lenti, goffi e l’intera azione appariva di conseguenza  basata su un rudimentale copione. Tanto che dopo un simile exploit, comprensibilmente, molti sarebbero propensi a lasciare lo sviluppo dei sistemi robotici semoventi a mega-zaibatsu con i fondi pressoché illimitati, come la Boston Dynamics passata dal governo statunitense a Google, riprendendo una dinamica commerciale anticipata in pieno dal movimento letterario cyberpunk. Eppure, sono possibili anche vie di mezzo. Come l’ultima creazione di Furrion, multinazionale americana attiva nel campo del lusso dal 2004, che sembra al tempo stesso riconfermare, e smentire, i nostri preconcetti frutto di delusioni pregresse. Come sempre avviene nelle storie di robot, ad ogni modo, sarebbe riduttivo attribuire il Prosthesis mostrato per la prima volta allo scorso CES (robot dal nome, permettetemi di dirlo, poco ispirato) alle macchinazioni di un’intera compagnia senza volto, quando in effetti rappresenta il sogno di vecchia data, e il frutto di un lungo percorso personale, di Jonathan Tippett, l’uomo che parla finalmente per più di un minuto al vasto pubblico nella breve intervista realizzata dal canale Tested, durante una sua dimostrazione alla Maker Faire di San Francisco. Il che è senz’altro utile, dopo una serie di video di presentazione che iniziavano a ricordare in maniera preoccupante, con il loro stile eccessivamente enfatico, le pubblicità della Megabots. Quando qui di sostanza ce n’è eccome, soprattutto nel meccanismo alla base dell’intera faccenda, inaugurato dall’inventore dopo 10 anni di ricerca e sviluppo, con quella che lui definì il progetto Alpha Leg. Ipotesi: riuscire a controllare un arto metallico lungo svariati metri grazie ai movimenti diretti del proprio corpo. Esecuzione: difficile, anzi difficilissima…

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La Ferrari che non poteva essere verniciata

Epoca: fine degli anni ’90. Luogo: quell’altro ramo del lago di Como, fra quattro alte mura costruite per contenere, originariamente, il grano. L’uomo il cui nome le cronache non riportano, concentrato sul suo lavoro, infondeva l’energia e la passione in ciascun singolo colpo. THUMP, risuonava, THUMP, THUMP… Il piccolo maglio, attentamente calibrato grazie a evidenti anni d’esperienza, sulla lamiera in lega d’alluminio acquistata a caro prezzo presso le acciaierie locali. Un contadino, forse. Magari un fabbro. Sicuramente, un creatore; ovvero un membro di quel gruppo di coraggiosi che, non contenti della sola immaginazione, a un certo punto della propria vita decidono di dare una forma, fisica nonché tangibile, a quello che avevano sempre sognato. Anche se tutto questo, nei fatti, sembrava impossibile. Sebbene il completamento apparisse infinitamente distante. L’individuo continuò a battere giorno e notte, nel vortice di scintille suggestivo del fuoco dell’arte. Fino al raggiungimento dello scopo che si era prefissato: l’armonico succedersi di linee curve, spazi concavi e convessi, con un foro al centro, dove avrebbe trovato posto l’abitacolo del guidatore. Un appassionato di manga nato negli anni ’80 l’avrebbe potenzialmente scambiata, nel suo colore argenteo, come una fedele replica dell’auto di Mach Go Go, l’eroico pilota noto in Occidente con l’appellativo anglofono di Speed  Racer. Ma un amante delle automobili, senza esitazione, avrebbe carpito l’intenzione alla base dell’ardua impresa: ricostruire, in maniera quanto più fedele possibile, una delle automobili più rare e preziose della storia. Il che, naturalmente, richiede sempre un certo  grado di equilibrio: poiché se di un veicolo a quattro ruote, all’epoca primigenia, ne fu prodotto un singolo esemplare, esso viene considerato un “prototipo” potenzialmente desiderabile per un collezionista, in funzione dello stabilimento presso cui fu costruito. E se invece ne furono costruite svariate centinaia, diventa ovviamente facile per chiunque spendere qualche decina (o centinaia) di migliaia di euro, per annoverarlo tra le splendenti perle del suo garage. Ma se di questa macchina straordinaria, oltre 60 anni fa, ne furono costruite esattamente tre dozzine, guidate in gara da personaggi del calibro di Pete Lovely, Paul Frere, Phil Hill, Cliff Allison e Olivier Gendebien, allora diventa davvero fin troppo facile immaginarne il valore. Destinato soltanto a crescere nel tempo: vedi, ad esempio, le Ferrari 250 Testa Rossa. Una delle quali il 20 agosto del 2011, dopo un’asta serrata negli Stati Uniti, fu venduta all’interessante cifra di 16,39 milioni di dollari. Mentre nel febbraio del 2014, la stessa vettura, passando di mano tra collezionisti privati in Gran Bretagna, avrebbe raggiunto il valore spropositato di 39,8 milioni. Abbastanza per comprarsi, a scopo puramente indicativo, una villa nel quartiere di Beverly Hills. Una BELLA villa.
Ora, ci sono persone, dotate d’ingenti risorse finanziarie, guidate dal segno e dal passo del desiderio. Per cui persino simili investimenti diventano mere formalità, di fronte all’occasione di mettere finalmente mano, dopo una vita trascorsa a sognare, sopra l’oggetto che rappresenta, per loro, un fondamentale traguardo della propria vita. E Peter Giacobbi, rinomato ingegnere automobilistico con molte decadi di carriera all’attivo, oggi un sereno pensionato statunitense, è di certo un rappresentante di tale genìa. Con una sola, significativa differenza: egli non avrebbe mai potuto trovare, neanche volendolo, una cifra spropositata tendente ai 40 milioni di dollari. Il che significava, in altri termini, che non avrebbe mai posseduto una Ferrari 250 Testa Rossa se non che… All’inizio degli anni 2000, durante una delle molte trasferte che l’avrebbero portato in Italia, patria internazionale del design veicolare, conobbe per caso un amico di amici. Il quale, gli disse conversando amabilmente, che gli avrebbe fatto conoscere a sua volta un amico.  Intrigato dal racconto sulla vasta collezione di pezzi di ricambio di costui, nonché la sua rinomata passione per i motori, il progettista veterano decise quindi di recarsi presso il domicilio di un tale individuo, con la speranza segreta di riuscire ad acquistare, magari, un pezzo per la sua collezione o due. Immaginate la sua sorpresa quindi nel momento in cui, raggiunto il granaio del lago, fece il suo ingresso oltre la porta ombrosa, per scoprire la letterale montagna di cianfrusaglie disposte alla rinfusa, provenienti dai più svariati momenti della storia automobilistica. Ed al centro di tutto questo un suo probabile coetaneo le mani guantate, la fiamma ossidrica nella sinistra, un largo sorriso dipinto in volto per accogliere lo straniero. Ma fu mentre i due parlavano, scambiandosi le rispettive esperienze nel mondo fantastico delle carrozzerie, che un lieve bagliore sopra uno scaffale attrasse progressivamente l’attenzione di Giacobbi, costringendolo a inclinare il collo di lato. “Ah, si! Ti faccio vedere.” Disse l’italiano, aprendo una pesante tenda per lasciar entrare la luce del sole. E fu così che l’oggetto misterioso, d’un tratto, venne rivelato in tutta la sua magnificenza: nonostante la polvere, le ammaccature e le saldature imprecise, non poteva che trattarsi di questo: una fedele riproduzione della carrozzeria di un delle poche auto dinnanzi alla quale nessuno, in qualsivoglia circostanza, sarebbe potuto restare indifferente.
Iniziò una trattativa, vennero fatte delle proposte. Di nuovo, le cronache ci vengono meno sulla cifra che venne effettivamente riconosciuta, in tale occasione, al misterioso maestro del martelletto per il suo “capolavoro scultoreo” degno di un Michelangelo rinascimentale. Sappiamo invece per certo che la conturbante carrozzeria, di lì a poco, sarebbe salita a caro prezzo su un aereo per dirigersi verso gli Stati Uniti, dove il nuovo proprietario assieme al suo team di meccanici avrebbe realizzato un sogno. O per meglio dire, l’avrebbe finalmente portato a termine, tanti anni dopo. L’intenzione di Giacobbi, fin dal primo momento, non era tanto di costruire una fedele riproduzione della 250 TR, bensì di rendergli omaggio, attraverso l’assemblaggio di un veicolo che fosse al tempo stesso il più simile esteriormente all’originale, quanto effettivamente guidabile nella vita di (quasi) tutti i giorni. Lui voleva, in altri termini, rivivere le emozioni dei grandi eroi della sua gioventù…

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Ferdinando, il treno degno di portare un presidente americano

Italiani: popolo di artisti, tartarughe ninja e navigatori. Qual’è il potere di un nome? Nell’opinione di Kevin Eastman e Peter Laird, ideatori del più famoso team di anfibi supereroi sovradimensionati dal mutagene e addestrati da un rattone delle fogne di New York, abbastanza. Da voler creare quell’associazione, artista marziale/artista rinascimentale, andando a ripescar gli appellativi di alcuni dei più famosi nostri compatrioti, grandi pittori, scultori ed almeno in un singolo caso, scienziati ante-litteram dello Stivale. Un’operazione che in effetti, aveva qualche insigne precedente. Al punto che quando la compagnia dei trasporti Pullman di Chicago (già, proprio loro) aveva costruito nel 1929 sei carrozze passeggeri ferroviarie particolarmente lussuose, volle fare il possibile affinché la comunicazione pubblicitaria sui giornali rimanesse impressa al grande pubblico statunitense. Il che incluse, guarda caso, battezzarle con il nome di famosi esploratori: David Livingstone, Robert Peary, Roald Amundsen, Henry Stanley, Marco Polo e… Ferdinando Magellano. Ovviamente, all’epoca determinati cartoni animati e fumetti ancora non esistevano. Altrimenti in molti avrebbero capito che fra tutte, proprio l’ultima vettura avrebbe avuto un epico destino. Dopo tutto, ci fu soltanto una prima circumnavigazione del globo, e soltanto un grande uomo in grado di compierla al servizio del re di Spagna Carlo V…
Già, il re. La figura politica dotata del potere universale, capace di decidere la rotta e il senso di un’intera nazione. Proprio come, in epoca di guerra, il presidente americano. Facciamo un balzo in avanti fino al 1942: Franklin Delano Roosevelt, secondo del suo nome, è il fiero condottiero che, con pugno di ferro e ancor più solida sedia a rotelle, dirige l’ardua politica estera degli Stati Uniti mentre Europa, Asia ed Africa bruciano sotto una pioggia di bombe. In un’epoca in cui nessuna telecomunicazione, non importa quanto fosse complesso il codice, non poteva essere realmente sicura, mentre già vengono stilati gli accordi segreti che avrebbero portato, entro un paio d’anni, al solido legame dei cosiddetti Alleati (contro il nazismo, il fascismo e gli altri totalitarismi di allora) spostarsi fisicamente da un luogo all’altro era pressoché un dovere. Ma imbarcarsi su un aereo, all’epoca, era ancora impensabile per un presidente: chi avrebbe mai potuto proteggerlo, lassù, nel caso in cui qualcosa fosse andato storto? Così l’uomo, o per meglio dire qualcuno facente parte del suo staff, pensò bene di elaborare un metodo affinché uno spostamento su rotaie fosse non soltanto possibile, ma pratico, sicuro e conveniente. Il che incluse fin da subito, come avrete già desunto dal mio titolo, l’acquisto dalla prestigiosa Pullman dell’ormai desueta Ferdinand Magellan, una carrozza giudicata sufficiente allo scopo.
I vantaggi erano palesi: impiegare un mezzo prodotto in serie, per quanto raro, permetteva ipoteticamente di nasconderlo in un deposito ferroviario. Inoltre, corrispondendo ad uno standard veicolare di pregio, sarebbe stato facile ottenere la precedenza ovunque andava. Perfetto, come si dice, con qualche piccolo cambiamento: la carrozza venne condotta fino Washington, dove ebbero inizio i lavori di rinnovamento. In primo luogo, si rivestì di una solida corazza la sua parte esterna, con piastre di uno spessore massimo di 15 mm. Quindi, ogni vetro venne sostituito con pannelli laminati a 12 strati, ragionevolmente impervi a qualsiasi proiettile conosciuto. A quel punto tale scatola, diventata del tutto inapribile, venne fornita di un rudimentale sistema di aria condizionata, basato su tubi raffreddati con il ghiaccio e una serie di ventilatori in grado di far ricircolare l’aria. Ma i cambiamenti non finivano certo qui. Si rimossero due dei cinque scompartimenti originari, ampliando rispettivamente quello doppio, dedicato a presidente e first lady con tanto di bagno comunicante e la sala da pranzo, trasformata per l’occasione in sala conferenze, con tanto di massiccio tavolo di mogano e sedie pendant. Comparvero due botole di fuga, nel caso in cui i passeggeri dovessero essere evacuati. Venne inoltre ampliato il ponte posteriore panoramico, originariamente usato dai facoltosi passeggeri per prendere un po’ d’aria durante il viaggio, trasformandolo in un vero e proprio palco, con tanto di altoparlanti integrati, che il capo di stato avrebbe potuto usare per rivolgersi alla nazione, nel caso in cui se ne fosse presentata la necessità. Il risultato fu un vero e proprio mostro, dal peso di 129 tonnellate contro le 72 delle altre cinque carrozze pullman (considerate che un moderno carro armato M1A2 Abrams, a pieno carico, ne pesa 62). Quindi, il viaggio ebbe inizio…

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La conchiglia in cui risuona il canto della Preistoria

Esiste una teoria improbabile, eppure basata su prove stranamente convincenti, che il polpo terrestre sia in realtà frutto di una panspermia cosmica, ovvero possa essere giunto tra noi come embrione, in qualche maniera ibernato o incorporato all’interno di un asteroide proveniente da chissà dove. Questo perché, tra tutti gli animali che ci sono noti, esso risulta il meno adatto ad essere spiegato dall’evoluzione. In quale maniera, tra l’insieme degli animali marini, compaiono all’improvviso occhi complessi, un corpo flessibile, la capacità di mimetizzarsi grazie a cellule che possono modificare la colorazione? Come possono, simili animali, derivare dalle semplici caratteristiche del cefalopode originario, l’essere dalla conchiglia conica di nome Plectonoceras? Qualunque opinione si possa avere sullo studio pubblicato dall’astrobiologo Edward J. Steele et al. giusto l’agosto di quest’anno, resta tuttavia indubbia la trasformazione radicale subita nel periodo Carbonifero (359,2 milioni di anni fa) da una parte dei Coleoidea, principali concorrenti nella lotta per la sopravvivenza contro i pesci ossei dalla formidabile mascella, che abbandonata l’idea di sobbarcarsi il peso del guscio protettivo un tempo appartenuto alle Ammonoidea, iniziarono a fondare la propria sopravvivenza su metodi del tutto alternativi.
Al che parrebbe lecito, a scopo di discussione, immaginare un’epoca presente in cui la supposta invasione aliena non fosse mai avvenuta, permettendo a tentacolari esseri di tipo maggiormente ragionevole di dominare ancora adesso i mari della Terra. Approccio non difficile perché, del resto, tali cefalopodi esistono tutt’ora, con una diffusione assai probabilmente pari a quando, 450 milioni di anni fa, il nostro pianeta venne colpito dall’ipotetico asteroide gigante dell’evento di estinzione dell’Ordoviciano-Siluriano. Che nel devastare completamente ogni forma di vita marina prossima alla superficie, lasciò invece incolumi questi galleggiatori degli abissi, completamente impervi a un qualsivoglia tipo di apocalisse funzionale. Sto parlando, se non fosse ancora chiaro, del nautilus/Nautiloidea, sottoclasse di molluschi famosa in modo particolare per la forma del proprio guscio, una delle rappresentazioni più perfette prodotte dalla natura del simbolo della spirale, benché di un tipo che non corrisponde alla progressione numerica della sezione aurea, con somma delusione dei filosofi e artisti di tutto il mondo. Non che questo abbia impedito, attraverso i secoli, di farne una caccia spietata, per trasformarne la struttura fisica in lampade, boccali, soprammobili di vario tipo… È il dramma di tutte le creature che posseggono un quantum di bellezza ultraterrena. Per quanto sia poco riconducibile a quei canoni, che idealmente, determinano il passo e il senso delle nostre attività quotidiane.
Perché guarda, questa è la realtà: se il polpo può anche essere un extraterrestre (con i suoi occhi sporgenti, la testa enorme, gli otto arti protesi verso l’obiettivo) l’ispirazione del nautilus è invece una nave spaziale, ma del tipo frutto della manipolazione genetica, secondo le arcane procedure sopra i mastodonti di una qualche avanzatissima genìa; gli occhi enormi, benché poco sofisticati, i circa 90 tentacoli disposti tutto attorno al becco, da cui emerge una radula dotata esattamente di nove denti che impiega con successo ai circa 600-700 metri a cui sceglie di trascorrere la sua esistenza diurna. E ovviamente, la forma tubolare dell’hyponome sottostante, usato dall’animale per espellere aria mista a gas, allo scopo di spostarsi grazie al principio della reazione dei fluidi. Il che determina, in un certo senso, anche la ragione per cui non poté, o non volle, abbandonare il guscio nel corso dei suoi processi evolutivi: esso agisce, in buona sostanza, come un serbatoio. Ecco il genio, e la ragione stessa, per cui anche le seppie e i polpi contengono ancora, all’interno del loro corpo, una forma più ridotta dell’antica corazza dei cefalopodi: essa serviva, in origine, per permettere il passaggio del sifuncolo, l’organo all’interno del quale circola una soluzione ricca di ioni, capace di generare il gas usato al posto delle pinne, per raggiungere al giusto ritmo il proprio fondamentale obiettivo. Metodo che non significa, per forza, riuscire a farlo velocemente…

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