La sfida medievale del Baranta, arte marziale d’Ungheria

Baranta

La riscoperta e costante pratica di un’antico repertorio di tecniche guerresche, potenzialmente risalenti all’antica storia di un popolo, è sempre fondamentalmente positiva, poiché la sapienza è sempre utile anche se desueta, specialmente quando innegabilmente associabile a un sistema di valori e condizionamenti, sia sociali che privati, da sempre parte dell’inconscio collettivo. È un sistema complesso. È un simbolo imperituro dell’orgoglio nazionale. È uno stile di vita, libero e selvaggio. Ma anche e sopratutto, serviva a rendere temibili i cavalieri delle grandi steppe, coloro che verso la fine del nono secolo varcarono i Carpazi per scacciare i popoli stanziali dalle ricche terre ad est del Danubio, da cui far partire terribili saccheggi in quello che era stato, fino a poche generazioni prima, lo splendido e stratificato impero carolingio. Di certo, se avessimo modo di chiedere una valutazione a un fiero generale dell’epoca dei meriti strategici e combattivi dei Magiari, la confederazione delle sette tribù di lingua ugrica che sconfissero a più riprese, dapprima la popolazione turca degli Avari, quindi la Moravia, il Primo Impero Bulgaro e infine il Regnum Francorum orientalium, ovvero la Germania dei Teutoni, la risposta di un generale o mercenario d’Occidente non sarebbe stata piena di eccessive lusinghe: ciò perché il cavaliere dell’Asia siberiana, fin dall’epoca di Attila l’Unno, era solito impiegare approcci e stratagemmi, per la visione dell’epoca, tutt’altro che onorevoli. L’imperatore di Bisanzio Leone VI detto il Saggio (866-912) grande storico e commentatore della sua epoca, ne parlò approfonditamente nel suo trattato Tactica, descrivendo tra le altre cose un’approccio alla ritirata strategica associabile al tiro partico, dal nome dell’antica popolazione iraniana dei Parti, che consisteva nel mostrare la schiena al nemico, fuggendo rapidi a cavallo, soltanto per voltarsi all’ultimo momento, al fine di bersagliarlo di frecce tramite l’impiego del piccolo e maneggevole arco delle steppe. I guerrieri Magiari inoltre, egli ci racconta, combattevano con un’arma in ciascuna mano e spesso una lunga lancia sulle spalle, pronta all’uso in caso di necessità. Come guerriglieri, dunque, schermagliatori, esperti approntatori di trappole o assalti repentini e inaspettati, questi membri dell’orda che seppe farsi stanziale usavano spostarsi ancòra con un seguito di armenti e cavalli, finalizzato secondo alcuni a “farli sembrare maggiori di numero” scoraggiando così il nemico. Non che ne avessero davvero bisogno, o almeno così sembra.
Soprattutto guardando all’opera gli attuali migliori rappresentanti dell’associazione del Baranta dell’Ungheria settentrionale, ufficialmente fondata nel 2008 da Gábor Kopecsni, con il fine di raccogliere in un solo luogo alcune delle più preziose conoscenze sopravvissute all’antica genesi della propria identità nazionale. La prima e più significativa distinzione possibile tra questa evoluzione dell’antico repertorio, talvolta sportiva con finalità di competizione, molto più spesso etnica e finalizzata ad un rituale d’appartenenza culturale, rispetto alle più celebri arti marziali cinesi e giapponesi dell’epoca moderna, è l’assenza di una tradizione che può essere fatta risalire a un singolo maestro, proprio perché le singole componenti deriverebbero da un’aleatoria, quanto pervasivo, concetto di Sapienza Popolare. Il termine Baranta, stando alle divergenti fonti reperibili online, può avere diverse etimologie, tra cui l’evoluzione del verbo della vecchia lingua proto-ungara per “annientare”, piuttosto che quello riferito al concetto di “addestramento” e per metonimia del luogo effettivo in cui un tale compito veniva svolto dai guerrieri. Ma forse il significato maggiormente poetico ed interessante è quello citato in lingua inglese presso il sito stesso dell’associazione nazionale, che lo definisce in base ad antichi scritti come un appellativo onorifico per i “guerrieri del Sole” o [coloro] che si alleano con il Sole. E ciò deriva proprio dall’antico ruolo, una vera mansione sociale, che spettava ai guerrieri addestrati i nel corpus di discipline guerresche dei Magiari, essenzialmente uno dei repertori più versatili del territorio europeo di allora.

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Gli ondeggianti ponti della Svizzera sospesa

Carasc Bridge

Si può giungere alla stessa teoria in maniera indipendente, ma in determinati casi, una soluzione può essere talmente inaspettata nella sua semplicità, nonché ansiogena per chi la sperimenta per la prima volta, che non sono in molti a scegliere di dargli una forma materiale. E non a caso esistono, nell’intera storia dell’umanità montanara, soltanto due civilizzazioni che abbiano costruito questo tipo di ponte nei loro territori, per lo meno prima che la globalizzazione facesse di noi tutti un grande, operoso melting pot: i popoli andini dell’America precolombiana da una parte (XVI sec. ca.) il Tibet coévo alla dinastia cinese degli Han (220 a.C.) dall’altra. Entrambi mondi che ricorsero al ponte sospeso, soprattutto, per un’esigenza imprescindibile. Perché spostarsi non è facile, ma non può esserci davvero aggregazione, un senso di fondamentale appartenenza, a meno le strade non s’irradino a partire da una capitale, come il mozzo della ruota che fa muovere il passaggio del progresso. Anche se i suoi raggi sono morbidi ed oscillano nel vento; anche se una persona con le braccia allargate per reggersi alle funi di sostegno, lo sguardo dritto innanzi a sé, non può che percepire il vuoto, sotto la sua mano destra, ed il vuoto, sotto quella sinistra. Mentre gli uccelli sfrecciano in quell’ambito del tutto vuoto, inconsapevoli degli uomini che ne hanno fatto una sgradita circostanza. Il ponte Carasc, che unisce con una sottile striscia lunga 270 metri i due comuni di Carasso e Sementina, è una visione che può far venire le vertigini, e non soltanto per l’aspettativa che già cresce al pensiero di percorrerlo da un lato all’altro. Pur trattandosi di un elemento architettonico moderno e quindi per definizione universale, è impossibile mancare di considerarlo in qualche modo, concettuale se non pratico, la manifestazione massima di un oggetto fuori dal contesto. Due soli punti di sostegno, a limitare drasticamente l’impatto ambientale, da cui partono 6 cavi di metallo, dal diametro di 36 mm, i cui due inferiori, perfettamente paralleli, trasformati in una lunga piattaforma dalla disposizione concatenata di ben 728 assi di larice, un legno particolarmente resistente e spesso usato per costruire case di montagna. Nell’intera storia d’Europa, prima del suo completamento, nulla di paragonabile era mai esistito fuori dalla Svizzera, e anche lì, non prima del 2004, con la costruzione del primo dei due Triftbrücke (ponti del ghiacciaio del Trift) lungo “appena” 101 metri. Questo perché lo stesso concetto di trovarsi a camminare, sospesi nel vuoto a 70-130 metri, come discendenti dell’antica Roma non ci appartiene e non ci apparterrà mai. Il che determina dal punto di vista filosofico la funzione di questo edificio, fatto di spazi vuoti ancor prima che materiali: affascinare l’occhio degli spettatori, colpire la mente di chi ne apprende l’esistenza. Facendo nascere in lui, idealmente, un bisogno irresistibile di fare l’esperienza di attraversamento. Sperimentare il flusso dell’adrenalina, almeno per una volta, grazie all’impiego di un sistema che non solo appare relativamente accessibile, ma è ancor più sicuro che guidare lungo i tornanti che permettono di avvicinarsi all’obiettivo, ovvero la chiesa medievale di San Barnárd, con affreschi databili al remoto 1400. Dal nuovo all’antico quindi, con lo scopo di abbreviare un ripido percorso, conducendo chi lo voglia fino ai luoghi dell’antico paese sul monte, storicamente inaccessibili assieme ad un simile importante monumento. Così, è indubbio che il ponte sia principalmente un’attrazione per turisti, ma rappresenta anche una parte della nuova Svizzera, che all’improvviso ha rilevato la ricchezza duratura di quei luoghi, in cui un tempo i minatori trascorrevano dure giornate, e che dopo l’esaurimento del carbone del Ticino furono lasciati nell’incuria, fino al degradarsi dei vecchi metodi di accesso, sentieri riconquistati dalla furia dell’inarrestabile vegetazione.

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I Mori e i Cristiani nell’eterna battaglia di Alcoy

Moros y Cristianos

Ah, si: guarda. Chi è quell’uomo incoronato, sopra il carro ricoperto dai festoni e in una pioggia di coriandoli gettati sulla strada? Chi mai potrebbe essere costui, se non re Giacomo I d’Aragona, conquistatore della Valencia, della Linguadoca e delle isole delle Baleari, fiero condottiero, deviatore delle frecce assassine, filosofo e primo scrittore autobiografico della sua epoca. Intento a nominare per l’ennesima volta, tra i bimbi della città di Alcoy in Alicante, qualche nuovo armigero, nobildonna o generale, al fine d’aiutarlo nel prossimo passaggio della guerra senza fine, rimessa in scena tutti gli anni in occasione di una data dedicata alla memoria: l’onomastico di Giorgio il cavaliere, verso il termine d’Aprile. L’occasione, ormai da molto tempo denominata d’Importanza Nazionale, della locale festa dei Moros y Cristanos, durante la quale sfilano intere generazioni di guerrieri, in schiere tanto fantastiche quanto ordinate, ciascuna ispirata a questa o quella tradizione, con qualche infiltrato di moderni film e videogiochi. Ma bando alle formalità: già dietro il castello artificiale, costruito come palco del momento culmine della sfilata presso la Plaza de España, si preparano i protagonisti del secondo giorno di festività. L’inimìco supremo, quel Mohammad Abu Abdallah Ben Hudzäil al Sähuir, brevemente detto Al-Azraq (l’azzurro, dal colore dei suoi occhi) comandante arabo che nel 1276, quando questa città segnava la linea di confine tra due mondi totalmente differenti, sfidò il potere del sovrano europeo. E poi fallì, eppure…Sarebbe difficile non ammirare addirittura lui, con le schiere allegoriche dei “cattivi”, un po’ Immortali persiani, un po’ membri di tribù africane, o persino, perché no, abitanti del pianeta Cybertron, tornati indietro nel tempo per rappresentare un male spettacolarmente puro. Come l’altro lato di uno specchio illuminato, che lascia passare i raggi alterni della verità. Tutto in nome di…
Un Dio misericordioso, un Dio comprensivo e tollerante. Persino, nella sua accezione più spiccatamente medievale, magnanimo verso i più implacabili dei peccatori, purché appartenenti a quel contesto che ha il nome della cristianità. Ma sopra a tutto questo, come sua connotazione biblica presunta e ancora largamente dimostrabile, supremo esecutore di un sacro senso di giustizia, sia verso l’individuo che sul passo e il senso della Storia. Non che Egli potesse discendere ancora da una nube, come ai tempi d’Abramo, per condurre alle crociate i cavalieri in arme. Non personalmente, almeno. La teologia era già troppo sofisticata per questo, nei tempi di alabarde o mazze incatenate. Però al risuonare di una tale frase: “Deus Vult” difficilmente interi eserciti potevano restare indifferenti. E non era insolito, nelle cronache tra il dodicesimo ed il tredicesimo secolo, che si finisse per parlare di questo o quel santo, la spada stretta saldamente in pugno, comparso in cielo con il compito di segnalare l’ora e il tempo di lanciarsi nella carica finale. Nella maggior parte dei casi, questo è soprattutto incidentale, l’imago sfavillante era concessa solamente a chi era in grado di annotarla: l’arcivescovo che accompagnava il re, i più ligi comandanti o redattori di complessi resoconti e biografie. Loro e non il povero fante di prima linea, cui bastava il risuonare o l’eco di una tale forza immisurabile, l’orgoglio del signore in Terra e/o di quell’Altro, per concludere la propria vita tra le frecce, il fuoco e il mulinare delle sciabole dei Mori.

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PL-01, un carro armato che aspira all’invisibilità

PL-01

Un veicolo estremamente innovativo, nero e opaco, che fuoriesce dal deposito verso la prima e forse più importante delle sue battaglie. Secondo molti, lo ricorderemo così: mentre veniva pilotato fino agli autotrasportatori designati, oppure perché no, direttamente presso la sua piattaforma di esposizione dell’ultimo MSPO (International Defence Industry Exhibition) grande fiera polacca di settore, usata ormai da anni per presentare le ultime novità europee in materia di mezzi da combattimento militari. Quanto è cambiato il mondo, dal termine della passata guerra fredda! Così come avviene nel regno dei consumatori, l’industria della difesa è ormai connotata dai flussi e le discipline del libero mercato, all’interno del quale non è più importante poter disporre di un’arma esclusiva, quanto vendere la stessa cosa a quanti più possibili alleati potenziali, affinché una futura azione di concerto possa funzionare nella maniera più fluida ed efficiente. E sia ben chiaro: stiamo parlando soprattutto di esercitazioni. Nessuno conosce in realtà il futuro, ma la storia ci ha insegnato che la corsa agli armamenti è un gesto alquanto futile, visto il trasformarsi imprevedibile dei presupposti di battaglia. Tranne che nel caso in cui, per l’iniziativa particolarmente ben riuscita di un’intera generazione di progettisti, si riesca a prevedere il tipo di minacce emergenti sulle strade degli scontri armati, schierate successivamente dall’ennesimo e indesiderabile avversario. Facendo un passo avanti, due indietro e anche incredibilmente, tre di lato.
Occorre guardare le cose da lontano. Dato che il carro armato, nello schema odierno delle cose, viene considerato l’evoluzione del concetto di cavalleria, potrebbe risultare particolarmente utile un parallelo storico, relativo alle caratteristiche della tipica armatura medievale a piastre. In principio, la caratteristica più ricercata era lo spessore, aumentato gradualmente grazie alle migliorie tecniche nel campo della metallurgia. Il partecipante ad una carica guerresca del periodo tardo, nello spronare il suo destriero innanzi, poteva contare su di una barriera essenzialmente impenetrabile ai colpi di un fante nemico, fossero questi vibrati con la spada, l’ascia oppure addirittura quell’arma concepita appositamente per fermarlo, la lancia lunga tanto spesso puntellata a terra. Ma basta fare un fast forward di qualche secolo, successivo all’invenzione delle armi da fuoco efficaci in quanto tali (tra cui non può davvero annoverarsi l’archibugio) per trovare una situazione totalmente ribaltata. Ecco sparire tutto quel metallo a vantaggio di semplici uniformi variopinte, vedi ad esempio quelle associate alle guerre napoleoniche, concepite esclusivamente a scopo di aggregazione collettiva ed a vantaggio dell’immagine di ciascuna armata nazionale. Era terminata l’epoca in cui si poteva pensare di sopravvivere a un colpo diretto del nemico, e paradossalmente, si tornava allo stato originario di una sola tenuta soldato, invariabile dal punto di vista funzionale. Ed è proprio questa la situazione che stiamo vivendo, ormai da diverse decadi, nel campo dei mezzi militari per il fuoco diretto, quelli che comunemente definiamo carri armati.
Se si guarda indietro fino all’inizio della seconda guerra mondiale, il conflitto attraverso il quale si è consolidato il valore tattico di questo temutissimo implemento veicolare, appare chiaro un processo di sublimazione di quelli che erano stati in origine un’ampia gamma di elementi paralleli: il Matilda inglese, il Panzer 2 tedesco, il T-26 russo erano macchine che si aggiravano sulla decina di tonnellate, pensate per assolvere a più ruoli. Dominate dalla presenza egualmente primaria di due armi, un cannone di grosso calibro e l’irrinunciabile mitragliatrice, dovevano irrompere sul campo di battaglia soprattutto per lo scopo di superare le fortificazioni pre-esistenti, inibendo successivamente il contrattacco del nemico. Fu soltanto successivamente, attraverso scoperte tattiche anche in parte accidentali, che si scoprì come fosse possibile privare l’esercito nemico di questo stesso formidabile vantaggio operativo. Occorreva disporre di un veicolo per acquisire la superiorità tipologica, e tale veicolo fu il carro pesante. Viene spesso citato, nei testi del ramo, l’effetto che ebbe sulla storia militare la messa in opera nel 1940 dei primi carri KV (Kliment Voroshilov) dell’Unione Sovietica, oltre quaranta tonnellate d’armatura impenetrabile ed un cannone di fino a 110 mm di calibro. Strumenti del tutto impervi alle armi montate dai loro predecessori, nonhé in grado di distruggerli senza fatica e che potevano quindi essere contrastati solo tramite un approccio ancora non scoperto. Ciò che seguì, nei cupi anni successivi, fu una vera diaspora di stili progettuali. Mentre la Germania produceva i suoi iconici Tiger e Tiger 2, le altre nazioni reagirono con bassi e rapidi caccia-carri, privi di torretta, con profilo basso e quindi più difficili da contrastare. Nel frattempo, i mezzi corazzati che venivano considerati più desiderabili erano quelli ai lati estremi dello spettro: piccoli e veloci, in grado di sfuggire all’occhio del nemico, oppure giganteschi superpesanti, come lo sperimentale ed ormai quasi leggendario Panzer VIII Maus, un veicolo che avrebbe pesato 122 tonnellate (circa il doppio di un moderno M1A4 Abrams).
Il vecchio concetto del carro universale era finito, mentre anche i precedenti medi, con i loro armamenti pesanti ma la corazzatura comparabile non prestazionale, finivano per assolvere ai dei ruoli attentamente definiti.

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