Perché il mare non smetterà mai di tenere sotto assedio l’aeroporto di Osaka

Dalle oscure profondità dell’Oceano dell’Est, il grande Ryou o “Re Drago” guarda con espressione determinata verso l’entroterra dell’Asia. Iraconda la sua aura e sollevato il braccio, con l’intento manifesto di trasmettere un qualche tipo di minaccia. O promessa, che se pure l’uomo ha vinto una battaglia, nell’eterno e arduo conflitto sui diritti impliciti degli elementi egli non ha ancora trionfato. Ne potrà fregiarsi, un distante giorno, di aver conseguito una vittoria a tempo indeterminato. Giorno dopo giorno, un’ora di seguito all’altra, le sue umide propaggini continuano ostinatamente a risalire. Come i tentacoli del Kraken, implacabile creatura temuta dagli antichi marinai. E anche coloro, caso vuole, che hanno ereditato nel mondo odierno una parte delle loro mansioni, ovvero trasportare persone, merci o posta da un lato all’altro dei continenti. Magari fluttuando, perché no, al di sopra della linea dell’orizzonte. Piloti, amanti delle soluzioni al culmine dell’efficienza. Come quella dell’ingegnoso aeroporto del Kansai, punto di atterraggio costruito nella baia di Osaka verso la metà degli anni ’90. “Ma gli aeroporti non galleggiano” mi sembra quasi di sentire l’obiezione di voialtri. Ed in effetti non ci riesce neanche questo, visto che sta lentamente affondando! Ma che ciò possa avvenire nel giro di anni, decadi o persino secoli, è una disquisizione lungamente sottoposta allo scrutinio e contromisure di un’elevata quantità di tecnici e ingegneri internazionali. Poiché se una simile profezia dovesse un giorno avverarsi, essa segnerebbe la perdita definitiva di un investimento complessivo attorno all’equivalente di 200 miliardi di dollari. Sufficienti a fare di questo miracolo dell’infrastruttura moderna, di gran lunga il singolo progetto pubblico più costoso della storia contemporanea. Di aeroporti costruiti sopra il mare d’altra parte non ce ne sono molti in giro per il mondo, ed oltre la metà si trovano lungo le coste giapponesi. Quasi come se soltanto questo popolo isolano, perennemente preoccupato d’impiegare al meglio il poco spazio di cui dispone, avesse scelto di subordinare la semplicità di costruzione all’effettiva organizzazione logistica degli spazi urbani. Ed effettivamente in ultima analisi, potrebbe anche continuare a perpetuarsi un simile stato conveniente delle cose. Se soltanto le cose non avessero preso, fin dall’inizio, una piega largamente problematica e progressivamente incline a risucchiare ALTRE risorse, ALTRI meccanismi dei nostri giorni.
Il primo allarme giunse nel 1999, soltanto cinque anni dopo l’inaugurazione lungamente pubblicizzata come un punto di svolta per l’aviazione giapponese, quando a uno studio delle condizioni in essere venne già notato un calo del livello medio del terreno pari a 8,2 metri complessivi, contro i 5,7 previsti dalle stime maggiormente ottimistiche. Il che rovinò la giornata ad una grande quantità di persone e diede inizio ad un’attività febbrile per tentare d’arginare il disastro incipiente…

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I dieci colpi di martello per incoraggiare la crescita del fungo dei campioni

Circa mille anni fa, durante la dinastia dei Song Orientali un taglialegna destinato a passare alla storia con il nome di Wu San-Kwung decise di provare la sua nuova ascia su di un tronco caduto di quercia, sopra cui stavano crescendo dei funghi commestibili dall’attraente forma ad ombrello. Vibrati un paio di colpi poderosi e confermata l’efficacia dello strumento, l’uomo si allontanò quindi soddisfatto per dare inizio alla sua giornata di lavoro tra le montagne della provincia dello Zhejiang. Alcuni giorni dopo, ritornando sulla scena di quel gesto, scoprì qualcosa d’inaspettato: nei punti in cui il tronco riportava i segni orizzontali dei suoi colpi, i funghi erano cresciuti più numerosi. Allora colpì il tronco ancora ed ancora, ricoprendolo di tagli. Ed in ciascuno di essi, nel giro di poche decine di ore, i funghi continuavano a moltiplicarsi. Dopo circa una settimana di ottime zuppe, tuttavia, la magia della quercia sembrò essersi esaurita. Allora Wu San-Kwung, improvvisamente frustrato, si sfogò percuotendo il fusto ormai quasi del tutto privo di corteccia con il manico dell’ascia, ancora ed ancora. Nel farlo, non si aspettava chiaramente nessun tipo di risultato. Ma la realtà dei fatti era destinata a sorprenderlo, di nuovo: quando facendo ritorno sulla scena del delitto, trovò la quantità di funghi maggiori fino a quel momento, letteralmente traboccanti dal cadavere della vecchia quercia. Qualcosa di assolutamente fondamentale, per la prosperità futura della civiltà rurale cinese, era stato scoperto. Non a caso la traduzione del nome di quell’uomo, in realtà più che altro un titolo, significa “Padre del [fungo] Xiānggū” una specie chiamata scientificamente Lentinula edodes. Ma che potreste conoscere col nome giapponese di shiitake (椎茸). Un ingrediente al giorno d’oggi tanto strettamente associato all’arcipelago più estremo dell’Asia, da aver motivato la teoria secondo cui l’appellativo dal micologo britannico David Pegler nel 1976 potesse effettivamente provenire dall’espressione nipponica edo desu (江戸です) ovvero “questa è Edo”, forse perché particolarmente amato nell’antica capitale nazionale. Una scelta che se fosse vera risulterebbe alquanto eclettica da parte di un occidentale, visto come l’effettivo termine nipponico sia molto più semplicemente una combinazione di shii (椎) un tipo di quercia appartenente al genere Castanopsis e take (茸) fungo. Non che la tassonomia di specie botaniche o animali manchi di essere, occasionalmente, altrettanto insolita e sorprendente. L’importanza di questo particolare alimento fin dalla sua scoperta tuttavia non può essere facilmente sovrastimata, vista la sua ricorrenza all’interno di numerose fonti filologiche di matrice sia cinese che giapponese, citato non solo per l’intrinseco valore gastronomico ma anche la capacità, vera o presunta, di agire come toccasana contro una vasta varietà di afflizioni. A partire da un’esportazione oltre i limiti dell’Asia continentale che una leggenda alternativa attribuisce al mitico quattordicesimo imperatore Chūai, che ne aveva ricevuto in dono una certa quantità dalle tribù sottomesse durante la sua conquista dell’isola occidentale del Kyushu, la più vicina al ponte culturale della Corea. E molti celebri guerrieri, in seguito, avrebbero condiviso i meriti di questa scoperta…

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L’ornato attrezzo che accompagna l’ingrediente più pregevole della gastronomia mexicana

Ogni guerriero ha il suo implemento da battaglia e nella guerra ininterrotta per riuscire a dare il gusto necessario all’elezione di una splendida pietanza, ogni oggetto è lecito, qualsiasi architettura pratica può dare un senso alla sua funzione. Purché le mani che lo impugnano possiedano un intento puro e ragionato, frutto dell’esplorazione pregressa dell’inesauribile fontana della conoscenza. Così che sono le cose semplici, molto spesso, a custodire i metodi dalla maggiore versatilità procedurale, proprio perché in grado di adattarsi ad ogni circostanza, qualsivoglia tipo di occasione che precorre l’apparecchiatura di una tavola che possa dirsi, sotto ogni punto di vista, perfetta. E non c’è un vero modo, entro i confini del grande paese mesoamericano e fino alle propaggini che in esso confinano con gli Stati Uniti, per poter dire di aver dato soddisfazione a quel bisogno, senza il prodotto fatto con i semi di quel frutto affine alla divinità, il Theobroma cacao che per secoli, millenni, fu considerato un (sacro) gusto acquisito. Prima che l’aggiunta dello zucchero, verso la metà del XIX secolo, potesse renderlo notoriamente irrinunciabile per ogni fascia di popolazione interessata a soddisfare il proprio palato. E quando la sua forma maggiormente apprezzata, come ancora avviene in alcuni stati del Messico, era quella liquida all’interno di appositi contenitori, dove veniva miscelato con il mais e la masa, versione nixtamalizzata (bollita e fatta riposare nell’acqua di calce) di quel cereale. Ma miscelato come, esattamente? È qui che nasce la disquisizione di una fondamentale scelta di campo. Tra quella di chi, come il filologo Esteban Terreros y Pando, afferma che il molinillo (“piccolo mulino”) non venne inventato prima dell’anno 1700, successivamente all’arrivo degli ingegnosi coloni europei, che quindi ne insegnarono l’impiego alle popolazioni indigene della Nuova Spagna. Laddove il missionario cristiano Alonso de Molina, di lì a poco, sarebbe stato pronto a giurare che attrezzi simili fossero stati in possesso già da tempo dei cosiddetti Indios e le altre genti ai confini estremi dei grandi imperi meridionali, ipotesi avvalorata dall’esistenza di almeno due parole utili a indentificarlo nell’antica lingua nahuatl: chicali e aneloloni. Laddove l’ottimale preparazione, con conseguente ottenimento di una schiuma in grado di donare morbidezza e sapore alla miscela, può essere almeno in linea di principio frutto di uno spostamento ritmico e reiterato all’interno di multipli vasi o bicchieri. Ma può essere portato a compimento con efficacia molte volte superiore grazie all’utilizzo di questo buffo arnese. Una mazza, un pomello, una gamba del tavolo, uno strumento musicale. Il cui suono riecheggiante e quello della lingua che sobbalza nello spazio di sua competenza, precorrendo il desiderio di assaggiarne l’insostituibile risultanza…

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Il miglior autobus che corre sui “binari” di cemento australiani

L’oggetto dalla forma di un grande rettangolo continua a transitare lieve lungo il grigio viale del suo percorso. Veleggiando in discesa, nessuna mano utile a stabilizzare quel volante, che incredibilmente curva ed accompagna in automatico le svolte necessarie di volta in volta. Quando al suono di un momento pre-determinato, il conduttore influisce finalmente sugli eventi. Preme il freno e ferma la sua corsa, in corrispondenza dell’apposita pensilina. Uno dopo l’altro, i passeggeri scendono/salgono in base ai rispettivi bisogni. Quindi l’assolutamente insolita vettura circolare della piacevole città d’Adelaide, se veramente siamo inclini a definirla tale, accelera di nuovo verso le sue invariabili destinazioni a venire.
Inaspettata può essere la metodologia mediante cui, nei diversi luoghi e paesi del mondo, vengono affrontati gli stessi problemi facenti essenzialmente parte dell’imprescindibile condizione umana. Uno di questi: il trasporto pubblico urbano, strumento necessario a semplificare la logistica degli spostamenti casa-scuola-lavoro e verso qualsiasi altro tipo di destinazione in base alle volubili necessità delle persone. Il che significa che non può esserci alcun tipo d’esigenza superiore alle altre, nella realizzazione totalmente democratica di un servizio che possa dirsi effettivamente utile allo scopo predeterminato. Soltanto metodi configurati in base alle rispettive sfide contrapposte all’ottimale funzionamento. Così treni e metropolitane, dove il c’è la possibilità di costruirle. E per tutte le altre situazioni, il caro vecchio approccio del trasporto gommato. Autobus, in altri termini, grandi veicoli strutturalmente non dissimili da una versione sovradimensionata dell’automobile di proprietà dei privati. Ma una creatura come questa, nello stratificato ecosistema cittadino, non possiede inerenti vantaggi, presupposti di semplificazione, sistemi funzionale per poter dire di aver dato soddisfazione ad effettivi margini di ottimizzazione… Nella maggior parte dei casi. Così come avevano fatto notare, poco prima degli anni ’80, i sostenitori nel rilevante ministero del progetto per la costruzione di un sistema di tram leggeri su rotaie destinato a raggiungere la settentrionale King William Street, dall’allora ultimo terminal nel centro cittadino di Victoria Square. Ostacolati dai soliti detrattori, pronti a promettere battaglia qualora il suono del passaggio dei treni fosse risultato fastidioso per il proprio vulnerabile senso dell’udito. Dal che l’idea proposta dal nuovo ministro dei trasporti in Australia del Sud del 1980 Michael Wilson, che scelse di guardare con precipuo interesse verso il mondo agli antipodi, ed in modo particolare a una nuovissima tecnologia proveniente dalla Germania…

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