“Se esiste un cuore pulsante del Nevada, questo posto ne è la cavita toracica, cavernosa ed accogliente” Non più arida come il deserto del Mojave, secca e rocciosa. Bensì disseminata di divertimenti capaci di trascendere le aspettative di chiunque. E soprattutto l’opportunità palese, quanto una lampada per le falene nell’ora del vespro incipiente, di guadagnare una fortuna ad ogni angolo di strada, diventare parte di quell’esclusivo ricco dei famosi, ricchi e potenti. Ma se l’ampia strada dello Strip, aorta delle circostanze metaforiche, conduce le future vittime ed i pochi trionfatori di quel sistema, dove potremmo giungere a individuare l’organo in questione? Forse il Cosmpolitan, con le sue sale lucenti e le oltre 1.300 Slot Machine? Oppure il Luxor, potente faro nella notte che orgogliosamente scaturisce dalla cima della piramide di Cheope? O che dire del Venetian, lussuosa ricostruzione con hotel dei magnifici canali della singola città più iconica d’Italia e del mondo… Tutto questo eppure nulla di specifico, per una ragione più d’ogni altra: non c’è un singolo particolare punto di riferimento, in questo luogo, che possa dirsi di rappresentare nell’immaginario il muscolo che aziona il principale meccanismo della vita stessa. Una situazione che potrebbe… Cambiare, di qui ad un paio di anni appena, con l’attesa apertura entro il 2023 di qualcosa che potrà cambiare il paradigma stesso del concetto d’intrattenimento. Questo affermano, con estremo ed almeno apparentemente giustificato orgoglio, i loro committenti della grande compagnia d’intrattenimento ed organizzazione eventi MSG (Madison Square Garden) assieme agli architetti della Populous, studio multinazionale e multiculturale specializzato nella creazione di venues, ovvero stadi, auditorium, centri congressi ed altri punti d’incontro per grandi volumi di persone. Luoghi come lo stadio di Wembley a Londra o quello degli Yankee di New York, lo stadio di Luz a Lisbona e innumerevoli altri, in aggiunta al notevole supporto offerto a più riprese al Comitato Olimpico di numerosi paesi. E che adesso si riscopre appassionato, sulla base di un sogno assai tangibile, alla più importante forma della cosmologia applicata allo studio dell’Universo, in cui ogni punto arbitrariamente selezionato si ritrova equidistante dal centro dello spazio osservabile. In altri termini una sfera, costruita nel più puro materiale dei sogni assieme al cemento, l’acciaio ed il silicio dei componenti informatizzati.
Prossima al completamento strutturale in questi giorni, sebbene ancora ragionevolmente distante dalla collocazione degli impianti audiovisivi interni ed esterni, l’ingegnosamente ma semplicemente denominata MSG Sphere sorge quindi dietro il parcheggio stesso del succitato complesso ispirato alla Serenissima di proprietà dell’eponima compagnia, con la massa che deriva dal suo diametro di “appena” 120 metri, ed un costo stimato finale che parrebbe essersi assestato sul 1,8 miliardi di dollari allo stato attuale, dopo una serie di aumenti esponenziali a partire dalla cerimonia d’inizio dei lavori del settembre 2018. Il che non dovrebbe d’altra parte sorprendere nessuno, quando si considera l’eccezionale portata dell’edificio e quello che dovrebbe giungere a rappresentare, dal momento stesso della sua inaugurazione, per gli occhi e le orecchie di coloro che saranno tanto fortunati da varcare il suo ingresso: nient’altro che un auditorium o sito multimediale per la conduzione di varie tipologie d’eventi, ma dotato di caratteristiche letteralmente prive di precedenti in questo particolare ambito infrastrutturale pregresso. A partire dal titanico schermo concavo al LED, con una superficie complessiva di 15.000 metri quadrati, disposto come il soffitto di un planetario tutto attorno e sopra i 21.500 posti a sedere nella parte bassa della sfera, con una risoluzione di 19.000×13.500 pixel, molto semplicemente il più grande e performante al mondo. Coadiuvato da un’ulteriore monitor stavolta convesso, costituito da un’intera exosfera che dovrà racchiudere quella interna, proiettando ogni tipo d’immagine promozionale in mezzo al cielo già sfolgorante di Sin City stessa. Così da poter ricreare in modo virtuale qualsiasi tipo di scenario ed ambiente, luogo, immagine o momento storico della Terra. E tutto questo prima ancora di sedersi nel posto prenotato e mettersi, assai appropriatamente, ad ascoltare…
intrattenimento
Violinista nintendiano rincorre lo spirito di un futuro passato
Con espressione rapita e gestualità contestualmente valida, l’uomo noto come Teppei Okada usa l’archetto al fine di ricostruire un’atmosfera, caratteristica di un momento storico ben preciso. Il capitano Falcon, cacciatore di taglie a bordo del suo bolide cobalto, disegna la perfetta traiettoria in curva mentre approccia, con manovra spericolata, la rapidissima Golden Fox (o Volpe Dorata) del Dr. Stewart, lo scienziato trasformato in pilota della Formula… Zero. Alfa ed Omega, sogno di un’intera generazione di appassionati, passatempo di un futuro decadente, in cui la sopravvivenza del più forte è (od era) diventata la regola stessa di ogni competizione sportiva, inclusa quella motoristica, di auto magnetiche sopra una pista degna di montagne russe sconosciute. A un tratto e inaspettatamente, Falcon perde il controllo (ma c’è davvero lui al volante?) mentre rimbalza più volte contro le anguste pareti di una serie di curve; uno, due, tre possenti colpi sulle corde del violino, perfettamente in linea con il suono che in molti ancora ricordiamo. E quando la macchina, alla fine, esplode prevedibilmente, Okada che emette quell’ultima nota del colore dell’arcobaleno spento e poi s’inchina, stanco. Ma lieto.
Era il migliore dei tempi, era il peggiore dei tempi. Era un’epoca di avanzamento tecnologico, era un tempo di stagnazione. Fu il passaggio dall’idea dell’immaginazione a quella della grafica, più definita, chiara e colorata, mentre l’industria rotolava e ripiegava su se stessa, nel disperato tentativo di rinnovarsi. L’Industria dei videogames ovviamente, mentre il mondo delle aspettative si trovava in bilico sul ciglio dei 16 bit, momento trasformativo in cui tutto doveva certamente cambiare, eppure ogni cosa era rimasta la stessa. Giochi sportivi, giochi su licenza, riduzioni un po’ meno stringenti dalla sala giochi, sospirato mondo ancora irraggiungibile dai sistemi cosiddetti “casalinghi” fatta eccezione per l’eccezionale (e costosissimo) Neo Geo, popolarono i primi due anni del celebre Mega Drive o Genesis che dir si voglia, rivaleggiato unicamente dal PC Engine di NEC in territorio giapponese. Entrambe console di ragionevole successo, che tuttavia non preoccupavano il re vetusto assiso sul suo trono d’inviolabili 8 bit. Nintendo, l’azienda vecchia più di un secolo, ed il suo Entertainment System o Family Computer che dir si voglia, a seconda della regione di appartenenza, la cui fetta di mercato non aveva fretta di ridursi, nonostante la tecnologia ormai grandemente superata e grazie al fervido supporto di giocatori e software house. Fu tuttavia verso l’inizio del 1990 e con l’intenzione di andare a meta per il Natale di quell’anno, che la cosiddetta grande N aveva preso la potenzialmente costosa decisione, finalmente, di rinnovarsi. E quindi giunse sul mercato, lui: il Super Nintendo/NES/Famicom/Comboy, il prodotto senz’altro destinato a lasciare il segno più indelebile della sua Era, nella non lunghissima storia dell’intrattenimento digitale interattivo. Con un prezzo di lancio iniziale di 25.000 yen di allora (circa 230 euro al cambio attuale) il compatto parallelepipedo azzurro offriva molto dal punto di vista componentistico e digitale: un microprocessore Ricoh 5A22 modello WDC 65C816 da 16 bit con clock da 3.58 MHz, affiancato da una Picture Processing Unit (PPU) per gestione hardware della grafica con 64 Kb di SRAM e un co-processore dedicato unicamente al sonoro, progettato e prodotto da Sony, noto come S-SMP, dotato di ulteriori 8 bit e 64 Kb di SRAM. Ciò che il Super Nintendo avrebbe faticato a guadagnarsi, tuttavia, era una vasta libreria di giochi, essendo dotato per l’intera finestra di lancio di un piccolo ventaglio di titoli, tutti ricevuti ragionevolmente bene dalla critica. Che includevano titoli familiari, come il nuovo Super Mario e Gradius, grandi nomi del mondo PC (Sim City) e poi c’era… F-Zero. Qualcosa che mai e poi mai, nessuno avrebbe mai provato neppure remotamente ad immaginarsi…
La differenza tra un cane russo e neozelandese al volante
Certe aziende tecnologiche ad ampio spettro, soprattutto quelle con forti interessi nel campo della pubblicità online, hanno un debole particolare per le automobili con elementi di forma tondeggiante posizionati al di sopra del parabrezza. Strumenti come la telecamera sferica a 360 gradi, il cui sguardo digitale è stato sperimentato da molti di noi, mentre percorrevamo distrattamente una delle molte città sottoposte al trattamento di digitalizzazione per il portale di localizzazione più utilizzato al mondo. Ma Google Maps, di questi tempi, è notoriamente “out” mentre il colosso di Menlo Park sembra interessarsi, ormai da svariati anni, al passo successivo di un simile approccio all’innovazione, costruire veicoli per il trasporto umano in cui quest’ultimo si trovi a rivestire l’unico ruolo che dovrebbe, idealmente, appartenergli: quello di un prezioso e insostituibile carico, da preservare accuratamente mentre un computer, intelligentissimo, si occupa della guida. Basandosi, a tal fine, sulla percezione sensoriale di una serie di dispositivi, il primo tra i quali è il preminente sistema LIDAR (Light Detection and Ranging) dalla forma di un appariscente cilindro al posto dell’array d’obiettivi che ci era stato insegnato a riconoscere nel corso delle nostre esperienze pregresse. Un oggetto che suscita diffidenza, per la sua soltanto presunta funzione di riconoscere e (si spera) evitare l’impatto coi malcapitati pedoni che dovessero ipoteticamente attraversagli la strada. Qualcosa d’inquietante e malevolo nell’idea di molti, come l’occhio privo di palpebra di un Terminator veicolare. Ecco dunque una possibile soluzione che potrebbe spedire in avanti, di molti mesi o anni, l’accettazione della guida automatica da parte dei distinti popoli di questo mondo: ricoprire di pelo il meccanismo e inserirlo al posto di guida. Aggiungere due orecchie, una coda e un muso a tartufo umido, capace di percepire le benché minime variazioni nella composizione chimica dell’atmosfera. Anzi, ho un’idea migliore: perché non usare un cane Vero?
Alla stessa maniera di quanto dimostrato dal popolare personaggio di YouTube Vladislav Barashenkov, il meccanico della città siberiana meridionale Novosibirsk che, costituendo la mente e il volto del celebre format “Garage 42”, ci delizia da tempo con le sue fantastiche e inusitate invenzioni veicolari. Iniziative come l’automobile-sedia-a-dondolo, quella triplice con funzionalità fidget spinner, il SUV costruito interamente di ghiaccio o ancora esperimenti soltanto parzialmente riusciti, quali riempire gli pneumatici di cemento, ricoprirle di chiodi o allungare la benzina nel serbatoio con l’urina d’asino, come in una famosa commedia cinematografica russa. E che forse stanco di essere continuamente fermato e riconosciuto per le strade, ha questa volta deciso di procurarsi quella che sembrerebbe essere a tutti gli effetti una BMW Serie 5 del 1988-1996 (lui la chiama soltanto “Beemer” utilizzando un nomignolo generico per le auto di questa compagnia) in condizioni ragionevolmente integre, per sostituire tutti i finestrini della parte posteriore con vetri fumé ed aggiungere una seconda posizione di guida interconnessa con quella principale, ricavata dal volante e altre componenti meccaniche prelevate direttamente da una vetusta GAZ M21 Volga (auto, c’è anche da dirlo, dotata di un suo fascino senza tempo) Per poi andare a farci un giro ma non prima di aver fatto sedere al posto di guida il fidato pastore tedesco Max, perché giustamente serviva poter disporre dell’immagine, se non le zampe, di un cane capace di vantare eguale provenienza. Che offrisse il suo sguardo disarmante agli automobilisti in strada, mentre almeno apparentemente, conduceva con palese perizia l’ampia serie dei gesti necessari a realizzare la principale funzione di un veicolo nella società…
Andata e ritorno nella terra dei boomerang giganti
Ah, l’Austria(lia)… Il paese in cui il Natale arriva in estate. Territori brulli e incontaminati per migliaia di chilometri, coperti unicamente da insistenti vortici di sabbia e il saltellante popolo dei macropodidi, comunemente definiti con il termine kängurus. E l’orsetto baumbewohnender, amato da grandi e piccini, sempre pronti ad accarezzare il pelo ispido di un così piccolo koala. E i tipici calzoni in pelle di vitello o capra portati dagli indigeni locali, con grosse bretelle marroni e una piccola decorazione alpina trasversale, spesso con cappello bavarese, tanto per fare pendant. Lederhosen, mon amour! Si scherza spesso, nei paesi dell’emisfero meridionale, sul fatto che poiché l’Austria(lia) è situata nella parte centrale d’Europa-cifico, ogni cosa andrebbe capovolta e rivolta quindi con la testa verso l’alto. Ci pensate? Come se la terra fosse una sfera che ruota attorno al Sole, influenzata al tempo stesso dai moti di rivoluzione e rotazione. Un boomerang, praticamente. Roba da persone che non sanno… Come tenere occupata la propria-mente. Forse proprio per questo in Austria, fin dall’epoca in cui i primi esploratori giunsero a bordo dei loro galeoni stradali (in Austria il mare è molto differente) esiste un metodo specifico per dimostrare la precessione cosmica dei corpi astrali. Che consiste nel lanciare un grosso bastone, facendo il possibile per farlo ritornare al punto di partenza. Unmöglich (Impossibile)? Niente è impossibile, dove il sole tramonta tra le Alpi e la sagoma riconoscibile dell’Ayer’s Rock. Basta avere un braccio forte a sufficienza. Forte come quello di Gerhard Walter, già titolare di un articolo invidiabile nel Guinness dei Primati, che può essere tradotto con il concetto internazionale di “più grande bastone che fa il possibile per ritornare al punto di partenza.” Mentre l’uomo che lo ha lanciato, dal suo canto, si suppone vada a corrergli incontro, per afferrarlo senza macchia e senza paura. Si dice che il momento in cui un boomerang funziona sia di per se inerentemente terrificante per chi non si è ancora abituato a riprenderlo al volo. Perché è un tale attimo, che si configura come il culmine di una serie di tentativi e reiterate delusioni. A seguito delle quali, d’improvviso, ci si trova con l’oggetto contundente che è diretto esattamente verso il centro della propria fronte. Ed è soltanto allora, che si riesce a definire quali siano i veri uomini d’Austra(lia) dai koala e dai canguri delle circostanze. Non che voi abitanti del Sottosopra possiate aspirare a comprendere le implicazioni di oltre 50 millenni di tradizione rotatoria…
Secondo il resoconto ufficiale, il record era stato stabilito nell’estate del 2008 presso il Centro Sportivo Universitario di Graz, dove questo ingegnere locale scagliò furiosamente l’oggetto di 2,59 metri da lui nominato Flying Bigfoot Highlander, capace di sfidare il preconcetto su quale fosse la massa più eminente capace di essere influenzata dal principio della fisica alla base del suo ritorno: 2,59 metri in legno finemente intagliato, con una pratica maniglia situata nel punto centrale. Ma i boomerang mostrati in questa breve rassegna del 2010, dinnanzi alla telecamera di o comunque per il canale Youtube del regista amatoriale austriaco Jörg Krasser, hanno forme decisamente più strane ed inusuali: grossi triangoli, segmenti uncinati, goniometri fuori misura. C’è un arnese a ferro di cavallo che lui chiama “the King” capace di fare ritorno da una distanza di 70 metri, grazie alla struttura appesantita con degli appositi tappi di gomma alle estremità. Di esso, l’autore dice: “Usarlo mi ha procurato non pochi lividi. Ma riuscire a prenderlo è davvero una fantastica avventura.” Ed ancor più che le insolite parole, nel colpire la fantasia dello spettatore riesce l’espressione estasiata di un appassionato sincero nei confronti di un qualcosa di tanto particolare e specifico, ovvero l’applicazione più essenziale del concetto del volo. Già perché in un certo senso, il boomerang è l’approssimazione antica di un qualcosa che l’uomo avrebbe razionalizzato soltanto molti millenni dopo: ovvero che una forma appiattita, dotata delle giuste superfici di ricerca dell’equilibrio, può sfidare e sfruttare la resistenza dell’aria, generando portanza. Con l’obiettivo, almeno all’epoca, di essere scagliato più velocemente e più lontano verso l’orizzonte. Perché non fatevi illusioni in merito: il boomerang è sempre stato un’arma! Una semplice, letterale mazza volante. Pensata per uccidere animali, sopratutto, ma anche l’occasionale membro di una tribù rivale. Mentre il fatto che tornasse indietro, costituiva per lo più il segno che qualcosa di aerodinamico non stava andando (letteralmente) per il verso giusto. Vi è mai capitato di fare un aereo di carta che torna indietro “per sbaglio”? Ecco, stesso principio. Con la differenza che qui sussisteva la casistica di farsi, effettivamente, piuttosto male…



