Ore norvegesi nella lunga fabbrica delle gomene

Tecnologia che proviene da una lunga tradizione e la complessa storia di un’industria, forse oggi meno rilevante di una volta, ma non non meno necessaria per fare una cosa, sopra ogni altra: garantire la natura autentica di un possente veliero. Nave dei tempi che furono e notevole esistenza in mare, il cui sartiame, tanto spesso, siamo indotti ad ignorare. Come i fili di una marionetta, come la struttura interna di una collana di perle, semplice motore interno alla “struttura” che non ha un significato metaforico degno di venire messo in evidenza contro il resto della propria circostanza d’impiego. Ma quando ci pensi, se consideri cosa c’e dentro, appare chiaro che dev’esserci al suo interno un qualche tipo di segreto ovvero il nesso ultimo della sapienza, coltivata in luoghi le cui ultime caratteristiche provengono dalle ragioni del bisogno e della pratica di lunga data. Il cui nome, in lingua norvegese, è reperbane (corderia) ed è questa che vediamo in azione, nel caso specifico, presso la cittadina di Älvängen in Västra Götaland. In un luogo che viene chiamato oggi Repslagarmuseet ovvero per le regole agglutinanti di questa lingua, una lunga parola che significa “museo della corda” benché in tempi precedenti fosse stato null’altro che l’azienda rinomata di Carlmark AB, aperta nel remoto 1848 e venduta dopo più di un secolo nel 1983, per sopraggiunta variazione sostanziale del contesto marittimo vigente. Eppure molti furono, in tale occasione, a protestare contro la presunta demolizione dell’insolito edificio, e poi di nuovo nel 2003, quando logiche di quella stessa provenienza avevano presunto di riuscire a trasformare il suo terreno in parco cittadino scevro dell’ormai desueta rimanenza tecnologico-industriale. Ed è assai palese per questi occhi la ragione, di una simile tendenza alla conservazione, quando si prende atto della significativa valenza storica di questo luogo ricco di antichi macchinari, know-how tecnico e capacità manuali decisamente al di sopra della media. In un video prodotto, per l’appunto, dal museo marittimo di Hardanger (non molto vicino: 682 Km più in là e all’interno dell’omonimo fiordo a sud di Bergen) i cui rappresentanti si trovavano in visita, al fine di supervisionare il copioso ordine di cime per la nave a vela Götheborg, fedele replica di un mercantile rinascimentale completata nel 2005. Per la cui sovrastruttura, semplicemente, non sarebbe mai potuto sembrare soddisfacente l’impiego di una corda di provenienza e fattura moderna, per la funzionalità, lo spessore e l’aspetto eccessivamente anacronistici all’interno di un simile ambito d’impiego. Ecco dunque l’occasione di mostrarci, finalmente, il vero approccio alla trasformazione della materia prima in molti utili metri di pregevole corda; sostanza fibrosa la cui origine, come potreste ben sapere, è la variante della Cannabis sativa usata come canapa industriale (vicina parente della gānjā o marijuana che dir si voglia) attentamente instradata all’interno di una filiera produttiva che potremmo addirittura definire, col tipico gusto estetico del post-moderno, conforme agli stilemi del genere letterario e artistico dello steampunk

Leggi tutto

L’imprenditrice del Settecento che plasmò l’immagine del Neoclassicismo inglese

Chi può realmente affermare, tra generazioni di filosofi, poeti ed eroi, di aver visto coi propri occhi il volto della splendida Anfitrite? Ninfa in armatura, fiera combattente e potente moglie del dio Poseidone, futura madre dell’infinita progenie antropomorfa dei mari. Eppure tutti conoscono gli effetti della sua presenza. Il modo in cui, soltanto lei, aveva la capacità di placare il suo volubile consorte, ponendo fine alle tempeste in grado di distruggere una nave in mare, o spazzare dalle coste i moli dei pescatori. E così impassibile la ritroviamo, assieme ad altri volti di divinità, sopra gli archi della villa di Lyme Regis, nel Dorset Inglese, appartenuta ad una donna destinata a condividere il suo stesso fato: attraversare le alterne vie dell’esistenza materiale senza nessun tipo di ritratto, anacronistica fotografia o descrizione oggettiva del proprio aspetto. Benché pochi, tra i connazionali della stessa epoca, avrebbero potuto dubitare della sua importanza. Sto parlando, per essere chiari, di Eleanor Coade nata nel 1733 ad Exeter, figlia di mercanti di lana di religione battista e nipote omonima di un’altro grande personaggio femminile del mondo degli affari, la vedova capace di condurre per 25 anni l’industria tessile in origine fondata dal suo defunto marito. Un destino questo, d’investire le risorse economiche di famiglia, che anche lei avrebbe seguito a partire dalla metà degli anni ’60 del XVIII secolo, acquistando una fabbrica di lino e iniziando a farsi chiamare Mrs pur non essendo sposata, come era l’usanza per le donne in affari di quel tempo distante. Per poi compiere, alla tenera età di 36 anni, il passo che avrebbe costituito la maggior fortuna della sua vita: acquistare a cifra di liquidazione la fabbrica di pietra artificiale di un certo Daniel Pincot, mercante londinese del quartiere Lambeth, ormai da qualche mese prossima al fallimento. Come molte altre compagnie del resto, impegnate nella ricerca di quello che avrebbe dovuto costituire il Santo Graal dell’architettura di epoca Georgiana: un modo affidabile, funzionale ancorché durevole, per riprodurre nella fredda brughiera inglese lo scintillante candore dei marmi estratti dalle cave d’Europa, mediante l’impiego dei metodi appartenenti a quel campo ancora largamente misterioso che era la chimica dell’era pre-Moderna. Pietra artificiale, in altri termini, creata sulla base di alterne misture usate per la creazione di oggetti che erano soliti rivelarsi, a seconda dei casi, troppo fragili, oppure spaccarsi col caldo e ancora subire le conseguenze d’infiltrazioni d’acqua a seguito delle piogge, finendo sbriciolate nel giro di un anno o due. O almeno, questo era il destino di molte delle statue, sculture, decorazioni o bassorilievi creati con simili materiali, ma non dei suoi. Questo perché Mrs. Coade, con metodi e in circostanze per lo più misteriose, era riuscita a far produrre una particolare mistura affine al grés ceramico, talmente efficace da poter rivaleggiare con la stessa espressione a noi contemporanea di un simile concetto. Denominata ufficialmente con il grecismo quasi mistico di Lithodipyra (letteralmente: pietra bruciata due volte) ma chiamata da tutti semplicemente “Coade Stone” il principale prodotto della sua fabbrica iniziò quindi a fare la sua comparsa lungo le strade di Londra e nel resto del paese, annoverando tra i propri estimatori personalità del calibro di Sir William Chambers, Robert Adam, James Wyatt, Samuel Wyatt, tutti architetti destinati a lasciare un segno incancellabile nella storia tangibile d’Inghilterra. Non è tuttavia facile comprendere a posteriori, l’effettiva composizione di un materiale a base ceramica, per i processi metamorfici a cui vanno incontro i suoi singoli componenti durante il processo di cottura. Ragion per cui saremmo rimasti, per svariati secoli dopo la chiusura della singola fabbrica capace di produrla, ragionevolmente incerti sull’effettiva composizione di una simile simil-pietra. Almeno finché a partire dal 2015, allo scultore e restauratore Philip Thomason non venne in mente di provare a ricrearla…

Leggi tutto

Da Nuova Delhi, la soluzione sostenibile di un condizionatore di terracotta

Da qualche tempo, i visitatori occasionali della fabbrica Deki Electronics nei dintorni di Noida, zona industriale dell’Uttar Pradesh, non possono fare a meno di provare un attimo di straniamento alla presa visione di quello che potrebbe sembrare a tutti gli effetti l’oggetto fuori luogo di un nido di vespe giganti. Con un centinaio di cellette o tubuli che dir si voglia, in ordine apparentemente casuale, e il chiaro contenuto di altrettante future piccole e fameliche larve. Mentre persino il posizionamento risulta in grado di alimentare un qualche tipo di ragionevole sospetto: proprio innanzi al gruppo elettrogeno funzionante a diesel, dalla parte verso cui le emanazioni di calore da parte di quest’ultimo, precedentemente, agivano come una sorta di supplizio estivo nei confronti di chiunque fosse sufficientemente sfortunato da poter passare di lì. Ondate perfette per favorire l’incubazione delle uova dell’eventuale insetto preistorico, pronto a sollevarsi in volo e completare un quadro che noialtri europei avremmo avuto ottime ragioni per definire “dantesco”. Ma altresì allo stesso tempo, supremamente utili a produrre un altro tipo di reazione, dalle conseguenze decisamente più tangibili nonché immediate: causare l’evaporazione sistematica di una certa quantità d’acqua, fatta risalire ad arte in cima alla struttura grazie all’apposita disposizione di una pompa. Poiché proprio questa, nei fatti, costituisce l’idea alla base dell’ultima invenzione di Monish Siripurapu, artista e architetto fondatore dello studio Ant (formica) di New Delhi, il cui apparente amore per l’intero ordine degli imenotteri sembrerebbe rispecchiarsi nel desiderio di lavorare sempre con la massima dedizione, allo scopo di creare un mondo che risulti definibile, in qualche modo, migliore.
Come nel caso di un gruppo di operai che, grazie al suo Beehive (alveare) da oggi potranno beneficiare di un continuo processo di raffreddamento dell’aria, senza gravare in alcun modo sul costo mensile della bolletta della luce del proprio già oberato datore di lavoro. Troppo facile, troppo bello, in un mondo in cui ad ogni azione corrisponde una reazione, e nulla può essere prodotto senza un’accurato instradamento delle forze in gioco? Strana concatenazione d’idee. Laddove è proprio a causa delle pur sempre valide leggi della termodinamica, che una simile installazione può riuscire ad assolvere allo scopo per cui è stata messa assieme dal suo creatore. Quando l’aria calda, prodotta in quantità notevole dal gruppo elettrogeno, si scontra con la piccola cascata di Siripurapu traversale ai tubuli di terracotta, per poi proseguire al di là di essi e in direzione della fabbrica surriscaldata. Ma non prima d’aver sperimentato un fondamentale processo di cambiamento.
Nei fatti, lo stesso prodotto dall’interscambio di stato tra i fluidi prodotto, con notevole dispendio d’energia, dai metodi di condizionamento dell’aria maggiormente utilizzati oggigiorno. Senz’altro tipo di spesa, rispetto a quella sottintesa dal bisogno di pompare qualche litro d’acqua ogni ora. Con un approccio alla questione identificato scientificamente col binomio di “refrigerazione evaporativa”….

Leggi tutto

Alle ultime sorgenti del vero seltzer newyorchese

Se c’è un centro dell’alta pressione nel mondo, un luogo in cui la danza continua dei fluidi raggiunge il suo punto d’arresto, giacendo in attesa del selvaggio attimo della trasformazione, questo è certamente New York, nello stato federato di New York, contea municipale di New York. La città di gran lunga più popolosa del paese più influente, del continente più longilineo dell’interno Mondo Occidentale, per un margine di ben 5 milioni di persone, sotto cui scorrono i tubi dell’antico impianto di riscaldamento centralizzato dei grattacieli, colmi di un vapore talmente intenso che quando le usurate strutture subiscono un cedimento, pennacchi eruttano in maniera vulcanica fin sopra al tetto degli edifici, causando ingenti danni a cose, o persone che stavano momentaneamente passando di lì. Un luogo in cui i vagoni della metropolitana, anche in assenza degli addetti al compattamento umano del paese più estremo d’Asia, talvolta sono così pieni che non è nemmeno possibile chiedervi l’elemosina, suonarci la fisarmonica o pretendere di continuare la propria conversazione telefonica a tutto volume senza disturbare e irritare il prossimo, ancor più del nostra innata propensione a farlo. Dove il traffico del ponte di Brooklyn, secondo il teorema termodinamico di Bernoulli, nelle ore di punta diventa inviscido e perennemente giace, come un carico di pietre insensibili presso un affollato molo portuale. Cosa pensate che possa bere, dunque, un popolo soggetto a tali difficili prove, giorno dopo giorno della propria sovrappopolata esistenza? C’è una ragione se proprio l’America, intesa come federazione per antonomasia di un sistema di stati distinti, fu il principale paese ad implementare il teorema del proibizionismo, tentando di limitare gli scatti d’ira improvvisi e conseguentemente, ridurre gli episodi di violenza pubblici e privati. Fu certamente un bel giorno quando, stanche di veder prosperare la mala più di quanto fosse riuscita a fare fin dall’epoca delle tredici colonie, le autorità scelsero di passare a metodi più endemici ed un minor grado d’imposizioni da parte di chi dovrebbe tutelare le pubbliche “libertà”. Ma fu soltanto attorno agli anni ’50 dello scorso secolo, più o meno, che la gente imparò fortunatamente a bere l’alcol diluito con l’acqua, autoregolando l’assunzione di una simile sostanza inebriante, attraverso un particolare quanto funzionale espediente: l’apprezzamento innato verso le bollicine, un prodotto naturale della fermentazione di alcuni tipi di vino o birra, ma in quantità assai minore di quanto potesse venire indotto tramite l’applicazione di tecniche o metodologie particolari. Come quella praticata tutt’ora dall’ultima fabbrica di un fluido che avrebbe cambiato i gusti di un’intera generazione: il cosiddetto seltzer, ovvero nient’altro che l’acqua frizzante in bottiglia.
Ma non immaginatevi qualcosa di simile alla cosiddetta acqua minerale che possiamo acquistare oggi in qualsiasi supermercato. Chiamato in quei luoghi “lo champagne degli ebrei” per il rinomato apprezzamento dagli appartenenti a quel popolo venuti a vivere all’ombra dei grattacieli nei confronti di una simile bevanda, diventata negli anni un simbolo di Manhattan e Long Island esattamente come la pizza italiana, il cibo cinese o il curry delle culture d’India, un bicchiere ricolmo di vera frizzantezza newyorchese va bevuto a piccoli sorsi, pena l’arrivo una serie di singulti possenti, capaci di mandare in visibilio ogni papilla nascosta nella profondità della proprio vulnerabile gola. Per citare i ragazzi della fabbrica Gomber, l’ultima presente nel territorio della megalopoli, “Il buon seltzer dovrebbe far male” (Strano slogan, nevvero?) Ed è proprio questa famiglia yiddish immigrata da quattro generazioni a questa parte, attraverso una passione pluri-generazionale unita a un comodo sistema di approvvigionamento sul territorio della prototipica ed ormai quasi dimenticata porta accanto, che sta diventando negli ultimi anni il simbolo di un modo artigianale di fare le cose, più che mai desiderabile in questo mondo che sembra aver perso anche l’ultimo scampolo di autenticità. Sia chiaro, comunque: non è soltanto una questione di nostalgia. Perché come ama vantare nelle interviste il portavoce e membro più giovane dell’organizzazione, il vice-presidente poco più che trentenne con laurea in gestione aziendale Alex Gomberg, c’è frizzantezza, e poi c’è la vera frizzantezza. Quella che miracolosamente permane, anche dopo aver versato una parte dei contenuti, grazie a una particolare valvola a vite inventata nell’800. Componente fondamentale di molte delle bottiglie impiegate dalla sua compagnia, alcune delle quali hanno oltre un secolo d’età. Fatta eccezione per quelle moderne che un poco alla volta, in funzione dell’utilizzo assiduo, vanno a sostituire le vittime di cadute o rotture varie. “Ogni volta che se ne rompe una, piangiamo” afferma il giovane manager-cum-addetto alle consegne a domicilio. Ma loro resistono, imperterriti, convinti di fare ciò che da sempre amano più di ogni altra cosa…

Leggi tutto