L’uovo tecnologico del pinguino volante

Guillemot egg

Questo è importante, anche se forse non ci avete mai pensato: perché le uova degli uccelli non hanno la forma di una perfetta sfera? Nell’ideale necessità di costituire un involucro di carbonato di calcio, fabbricato all’interno dell’organismo di una madre e quindi attentamente calibrato nell’impiego efficiente di quanto è richiesto per crearlo, la solidità dovrebbe essere un fattore fondamentale. Perché c’è un limite, a quanto possa resistere alle sollecitazioni un oggetto dal sottile guscio, che protegge per quanto possibile il tuorlo, le calaze, l’albume e il piccolo ma prezioso embrione. Dunque sotto questo specifico punto di vista, affidarsi alla classica forma ellittico/allungata parrebbe costituire un errore tattico per nulla indifferente: pensateci. Cos’è meglio, nel caso in cui un tale oggetto contenitore di vita (perché di ciò, ancora, si tratta) debba essere colpito accidentalmente, o cadere? Puntare ad una forma del tutto regolare, che distribuisce l’urto in maniera equa lungo l’intero guscio? Oppure convivere col rischio di una punta stretta e delicata, che impattando con il suolo ha probabilità doppia, o tripla, di trovarsi rovinata dall’insorgere di una o più crepe? Prima di rispondere, considerate questo: la natura, o per essere più specifici l’evoluzione, non agisce mai senza un motivo. E se una cosa è fatta in un determinato modo, potete contarci! Deve pur esserci un perché. Il che non significa che sia apparente, per lo meno nello studio di un qualcosa di mondano come l’uovo di gallina. Ma dovete pur considerare come un simile uccello incapace di volare, frutto di innumerevoli secoli di selezione artificiale, conservi ormai ben poco dei suoi antichi antenati selvatici, raccoglitori di scarti commestibili sul suolo del corposo sottobosco.
No, no, per forza! Se volete comprendere i meriti progettuali che può giungere ad incorporare un uovo, dovrete ben guardare più in là del vostro becco, oltre le onde gelide dell’abbagliante Nord: a settentrione del Pacifico, tra l’Alaska e la Columbia Britannica e poi giù, fino alle propaggini dell’accogliente California. Oppure nell’Atlantico, tra il lato opposto del Canada e in Europa, fin giù in Portogallo. Dove, sulle più alte e irraggiungibili scogliere, talvolta si ode il vociare di oltre una cinquantina di individui pennuti, dalla caratteristica livrea bianca e nera, qualche volta con delle graziose strisce chiare attorno agli occhi che s’incontrano dietro la testa, andando a formare l’apparenza estetica di un paio di redini o di occhiali. Sono questi, i guillemot anche detti auk, o per usare la terminologia scientifica italiana, gli appartenenti alla famiglia degli alcidi, sita nel vasto ordine dei caradriformi (gabbiani, beccacce di mare, avocette, pivieri, pavoncelle….) Fra i pochi uccelli che hanno scelto, in un qualche momento non meglio definito del loro passato, di rinunciare al possesso di tutte le cose terrene. Ivi incluso, il nido. Esattamente: questi astuti pescatori marittimi, abituati a tuffarsi in ogni condizione climatica e ambientale, hanno la possibilità di risparmiare le energie necessarie a mettere al sicuro i propri pargoli non nati, proprio grazie alle caratteristiche specifiche dell’uovo titolare. Prima caratteristica: la forma. Ora, tutte le uova sono ellittiche, primariamente per la necessità di ritrovarsi con la parte della testa del pargolo rivolta in alto. Che dovrebbe trovarsi, per inciso, presso la parte che noi chiamiamo “il fondo” ma in realtà essendo meno appuntita, tende spesso a ritrovarsi verso l’alto. Mentre all’estremità stretta, naturalmente, c’è la coda, essenzialmente molto meno delicata. L’uovo dei guillemot, tuttavia, è notevolmente più appuntito di quello di gallina. La ragione ce la spiega l’eloquente Steve Mould nel nostro video di apertura, dove giunge ad effettuare la prova pratica con un fedele modellino. Vediamo di tradurre assieme la sua esposizione…

Leggi tutto

Gli uccelli che sconfissero l’esercito australiano

Great Emu War

“Maggiore, credo che dovremmo appostarci qui. La strada è stretta e d’importanza strategica. Il nemico dovrà farsi avanti, prima o poi!” Appesantito dai 12,7 Kg della sua Lewis Automatic Machine Gun e circa un terzo delle munizioni, in aggiunta al resto dell’equipaggiamento da escursione, O’Halloran sudava copiosamente nell’estate australiana. 2 Novembre 1932: appena iniziata, questa guerra già sembrava futile ed eccessivamente onerosa. Per lo meno dal punto di vista del distaccamento di tre uomini sotto il comando di G.P.W. Meredith dell’Artiglieria Reale Australiana, eroe di guerra decorato, sagace stratega ed ora flagello dei volatili in terra selvaggia, secondo il mandato ricevuto direttamente dal Ministro della Difesa, Sir George Foster Pearce. “Aiden, ti ho già detto che il tuo modo di pensare mi piace?” L’ufficiale si fermo di scatto, piantò le mani sui fianchi ed indicò la direzione con un cenno della testa. Dì a Stephenson che ci fermiamo qui. Fagli piazzare il tripode a ridosso di quell’albero di eucalipto. Questa sarà la prima, ed ultima battaglia della nostra spedizione. Grossi polli senza ali..Puah! Non sanno cosa li attende…” E nemmeno tu, pensò O’Halloran. Chi mai, nella storia dell’umanità, avrebbe pensato di sfidare il secondo uccello più grande del mondo, impiegando l’attrezzo che più di ogni altro aveva modificato questi ultimi anni della storia umana: la mitragliatrice. Ma a mali estremi, come si dice… “Steph ci sei?” Il commilitone, con l’uniforme zuppa e l’espressione contorta dallo sforzo, si era già liberato dello zaino in mezzo alle radici dell’arbusto, e stava al momento armeggiando rumorosamente con l’attrezzatura di sostegno per tendere l’imminente imboscata al nemico pubblico numero 1-20.000.  “Dannazione!” Esclamo sottovoce il mitragliere: questa è la cifra di cui stiamo parlando. Di devastatori piumati dagli occhi iniettati di sangue, alti fino a 2 metri, calati sulla regione di Campion, nell’Australia Occidentale, con tutta la furia di un’orda di barbari o di cavallette. Una tale situazione non poteva in alcun modo continuare; non l’avrebbero accettata i veterani del primo conflitto mondiale, che recentemente avevano iniziato a rifarsi una vita, ricevendo concessioni e sussidi (a dire la verità, inferiori a quanto gli era stato promesso) per stabilirsi tra alcune delle terre più selvagge ma estremamente fertili del Quinto Continente; non sarebbe andata bene alla popolazione, che pretendeva di poter acquistare a buon mercato frutta, verdura, grano e derivati; e soprattutto non poteva essere neppure concepita dal governo, che proprio in quegli anni stava iniziando a comprendere le deleterie conseguenze della grande depressione americana, sopraggiunta pochi anni prima per scuotere le fondamenta stesse del mercato. Come si sarebbe mai potuto, in un tale momento delicato, regalare i propri spazi più preziosi a questi giganteschi gallinacci provenienti dall’entroterra desolato? E come gli spartani alle Termopili, i soldati non erano del tutto soli. Un gruppo di agricoltori locali, tutti volontari, si stavano industriando per spingere gli uccelli verso il punto designato per l’imboscata. Mancava sempre meno…
Completata l’opera di allestimento, O’Halloran guardò Stephenson, che a sua volta guardò verso la remota collinetta, dove il maggiore Meredith si trovava a gambe larghe, il binocolo ben stretto tra entrambe le mani e ritmicamente sollevato, su, giù, su, giù, in una sorta di ginnastica dettata dalle circostanze. Finché ad un tratto, il movimento ritmico non cessò di compiersi, e la mano destra dell’uomo non fu sollevata in una sorta di gesto teatrale, le cui implicazioni apparivano sin troppo chiare ai sottoposti. Eccoli, ci siamo, è giunta l’ora della verità. “Maggiore, non stia lì! Venga a mettersi qui dietro.” Non appena il comandante senza paura ebbe terminato di voltarsi, nei suoi occhi c’era il fuoco vivo. Sembrò stare per aprire la bocca, poi tacque e silenziosamente ubbidì. Ora veniva la parte interessante. La mitragliatrice in dotazione all’esercito australiano, notevole innovazione tecnica del colonnello statunitense Isaac Newton Lewis, aveva una cadenza di 550 colpi al minuto, 50 più della seconda miglior arma del suo periodo. Poteva montare caricatori a tamburo (le cosiddette “padelle”) con fino a 97 proiettili, che un soldato addestrato era in grado di sostituire in appena 5 o 6 secondi. La metà, con l’aiuto di un assistente. E i due addetti all’opera di necessario sterminio, qui presenti perché scelti personalmente dal loro stesso fiero comandante, erano i migliori dell’intero corpo d’artiglieria. Controllata la regolazione del mirino, scambiato uno sguardo d’intesa coi due compagni di avventura, O’Hallora socchiuse gli occhi e guardò verso l’orizzonte. Da qualche parte, nel mondo, era sicuramente mezzogiorno.

Leggi tutto

La tecnica segreta dell’airone ad ombrello

Black Heron

150 cose tondeggianti nere, più alte nella parte centrale, che appaiono vagare nella torbida corrente, al tramonto. Ma non tutte nella stessa direzione! Ciascuna digradante ai lati, con un ciuffo dorsale che si arruffa in modo stranamente ritmico e sincronizzato. Potrebbero sembrare parasoli con le piume, che qualcuno di assai distratto ha aperto, quindi fatto rotolare giù in terra, finché la sabbia ed il pietrisco non hanno lasciato il posto all’acqua verde di materia vegetale, che lentamente li ha riuniti in un feccioso gorgo. Se non fosse che, in effetti, questo delta dell’Okavango non costituisce un luogo tanto frequentato dai turisti, con le sue moltitudini di coccodrilli, leoni, iene, ghepardi, sciacalli, leopardi… Al punto che, persino i mammiferi più grandi e forti al mondo, quali l’elefante, il bufalo e il rinoceronte, qui preferiscono restare in gruppo, per meglio proteggere i propri piccoli dalla pressante fame della collettività. Il Botswana più selvaggio, del resto, è così: cane mangia cane, e poi, arriva qualcosa di più forte e mangia pure il cane. Mentre altri organismi, più furbi, scelgono la vita via dagli occhi del nemico potenziale. Laggiù sul fondo del maestoso fiume, nutrendosi di scarti e d’alghe semi-consumate. Molti sono i piaceri a cui rinunciano, i ciprinidi e gli altri piccoli pesci d’acqua dolce, per salvarsi nell’ambiente segregato che li rende più difficili da catturare. Il grande Sole che s’infrange sull’increspatura, l’erba verde, il vento che precorre i ripidi sentieri. Eppure, anche così, essi non sono invulnerabili. Come riesce chiaramente a dimostrare l’Egretta ardesiaca, più comunemente definito airone nero.
La scena di uno di questi uccelli impegnato nella pesca è un’espressione di soave grazia ed eleganza. Non per niente, intere scuole di pittura dell’Oriente lo hanno fatto il proprio soggetto d’elezione, senza mai mancare di raffigurarlo al centro delle proprie scene di bucolico splendore. Esso avanza, lentamente, con le gambe che si flettono appena. Poi estende il lungo collo con la forma ad S, e piega la sua testa da una parte, per meglio scrutare i movimenti sotto i flutti del suo ambiente naturale. Finché, convinto della sua triangolazione, non colpisce dritto con la punta del suo becco, trafiggendo il pasto inconsapevole che transitava di lì. Un pesce, tuttavia, non è un bersaglio facile, soprattutto per la sua cautela innata. La quale lo porta ad uscire dai luoghi sicuri unicamente quando la luce del giorno cade di traverso sul suo lago d’appartenenza, e comunque sempre spostandosi rapidamente da un luogo riparato all’altro. Il che scoraggerebbe molti, ma non il fotogenico protagonista della qui presente situazione predatoria. Che attraverso le generazioni, grazie alla sapienza endemica che ha ereditato il giorno della nascita, conosce un metodo per conquistare i piccoli e innocenti snacks pinnuti. Impiegando, per usare un termine forse facilmente frainteso, una sua versione del proverbiale gesto dell’ombrello. Non fatto con le braccia, s’intende (gli uccelli hanno le ali) bensì tramite un’applicazione assai più letterale del concetto, ovvero aprendosi come una cupola, le remiganti quasi a contatto con l’acqua, e nascondendo sotto la testa, per mettere i piedi l’uno dietro l’altro e procedere verso una certezza collaudata: che un ricco pescato potenziale, senza falla, si presenti innanzi ai loro gialli occhi indagatori.
Le ragioni possibili sono, essenzialmente, due: la prima è quella di farsi scudo dalla luce, per meglio trarre in fallo il piccolo fuggiasco di turno. Mentre la seconda, proposta dagli etologi soltanto in tempi più recenti, consisterebbe nello sfruttare l’istinto naturale di quest’ultimo a cercare la salvezza sotto foglie di ninfee, tronchi che galleggiano, all’ombra degli scogli o di altre protezioni naturali. Il che lo espone, sfortunatamente per lui, alla furbizia dell’airone ingannatore.

Leggi tutto

La terra TREMA quando questo uccello s’innamora

Flame Bowerbird

Perché nell’opinione della signora dell’uccello della pergola di fuoco, a quanto pare, non c’è niente di più attraente di un grazioso lui che si avvicina dondolandosi vistosamente, con la testa girata di lato, quindi si accovaccia e striscia sul tappeto di erbe, sterpaglia e licheni. Finché giunto nel punto determinato, egli non si trova tra due costruzioni artificiali di rametti, precedentemente predisposti per lo scopo, ove sollevarsi per dare princìpio allo spettacolo vero e proprio: con una postura curva, come il Fantasma dell’Opera, e pupille che si allargano e si stringono in maniera vagamente allarmante. L’ala sinistra che si agita, le piume rosse della gola che si gonfiano sempre di più, la coda usata come fosse l’approssimazione di un ventaglio. E il becco, spalancato. Per produrre un suono, oppure molti, scelti e riprodotti sulla base di quelli comunemente uditi in mezzo agli alberi della foresta della Papua: il grido delle scimmie? Un gorgoglìo di pappagalli? Il battito d’ali ritmico, in crescendo, di questi ultimi che lasciano il terreno verso mete inesplorate… Gutturale e melodioso, così lui continua, facendo su e giù, su e giù. Finché a un certo punto, rilevando che il suo pubblico è prossimo all’estasi, non solleva dal terreno un rotondissimo mirtillo. E quindi l’offre, o in altri termini lo mostra, a colei che attende concentrata l’attimo della perfetta ispirazione. A concedersi, o fuggire. Non è una scelta semplice, in determinati casi. Giacché la prassi evolutiva di questa famiglia dei ptilonorinchidi, altrimenti detti uccelli giardinieri, ha finito per attribuire soltanto alla femmina il dovere di scegliere un partner genitoriale degno di questo fondamentale nome. Il che diventerebbe all’apparenza tanto più irrilevante, quando si considera come nella maggior parte delle specie rilevanti il maschio non contribuisca in alcun modo a tirar su e nutrire i pulcini, preferendo continuare il suo tour artistico danzante per l’intera stagione primaverile ed estiva, tentando di guadagnarsi il maggior numero di conquiste amorose. Ma Cupido ed il suo arco, alla fin della fiera, hanno ben poco a che vedere coi successi conseguiti da una tale incostante meraviglia piumata. Tutto, nel suo destino, è piuttosto determinato dalla precisa scienza dei comportamenti e da una dote forse non immediatamente apparente in lui: una spiccata intelligenza. Che egli dovrà trasmettere per via genetica alla sua ridente prole.
Gli uccelli della pergola (letteralmente: Bowerbird) diffusi in tutta l’Oceania, incluse Australia, Indonesia e Papua Nuova Guinea, costituiscono in effetti alcuni degli esponenti più particolari e per certi versi avanzati dell’ordine dei Passeriformi, raggiungendo a tratti le complessità dello stile di vita dei corvi e degli uccelli della lira (Menura). Vivono inoltre molto a lungo, avendo raggiunto in almeno un caso documentato di un Ptilonorhynchus violaceus i venerandi 26 anni d’età. Il che gli consente di coltivare approfonditamente la loro incredibile arte della conquista passionale, fondata sulla più complessa combinazione di gesti, senso critico e persino architettura. La costruzione della struttura ad arco che da il nome al volatile, in effetti, non è il frutto di una capacità puramente istintuale, ma nasce piuttosto dalla pratica e dall’esperienza pregressa: nessun amatore, da princìpio, sa costruirla a regola d’arte, e originariamente deve accontentarsi di un accenno disordinato ed impreciso. Mentre le femmine, che tutto possono dirsi tranne che poco esigenti, scorgendo il risultato meno che perfetto scrollano l’ali e se ne vanno altrove. Così attraverso le cocenti delusioni, un anno dopo l’altro, gli sventurati artisti del rametto iniziano a capire cos’è che funziona, e cosa invece no. Giungendo, gradualmente, all’assoluta perfezione! Sarebbe in effetti un errore, ridurre il rituale di corteggiamento del “giardiniere” al mero intrattenimento danzante e canoro. Il suo stesso palcoscenico, tanto accuratamente messo assieme, è un concentrato di sapienza ed accorgimenti scenografici, arrivando ad essere abbellito, in determinate versioni, con pigmenti colorati che l’uccello ricava masticando delle bacche o foglie di vario tipo. Ed applicando quindi questo impasto risultante dall’incontro con la sua saliva, talvolta, mediante l’impiego di un vero e proprio pennello vegetale (generalmente un piccolo ramo) tenuto ben saldo nel suo becco. Gesto che costituisce, in effetti, uno dei pochi esempi dell’impiego di strumenti da parte di uccelli di qualsiasi tipo. Ma la bravura dell’aspirante Don Giovanni alato non finisce certamente qui…

Leggi tutto