L’allucinazione del supermercato dove tutto è cane

Dog Market

Quanto sto per raccontare è assolutamente accaduto, anche se non si conoscono il luogo ed il momento esatto della vicenda, il nome delle persone o tecnologie coinvolte, il tipo di strumenti utilizzati, la causa scatenante, il destino vissuto dal prodotto finale. Negli anni ’80, l’esercito degli Stati Uniti si trovò innanzi ad un dilemma: come sfruttare le nuove tecnologie informatiche per aumentare non soltanto la letale precisione delle proprie armi, ma anche per accrescere il potenziale di sopravvivenza di chi pilotava i carri armati? La risposta, a quanto pare, fu ben presto chiara ed immediata: tramite l’intelligenza artificiale. Poiché era possibile, almeno in via teorica, addestrare un computer per assistere gli equipaggi in quello che è sempre stato il singolo compito più importante nei contesti bellici, ovvero avvistare il nemico, prima che lui potesse far lo stesso a noi. Possibile, sia chiaro, ma non semplice. In quanto noi non umani ben difficilmente potremmo affermare di comprendere alla perfezione ciò che ci consente d’individuare la forma e/o l’essenza delle cose, come enunciato nella frase: “Quella che noi chiamiamo una rosa, con qualsiasi altro nome, profumerebbe altrettanto dolcemente” e l’evidenza, parimenti a ciò che scrisse Shakespeare del più amato fiore, non determina la pura verità. Così avvenne, all’interno di una qualche cupa installazione di ricerca militare, che alcune le menti più brillanti del Pentagono fossero instradate alla progettazione di un computer differente da qualsiasi altro mai creato prima. Che fosse in grado di interpretare le immagini, ma non in modo matematico (la conta dei pixel o dei colori, l’individuazione delle auguste geometrie) quanto sulla base di una semplice domanda monotipica: “Dietro a quel particolare albero, c’è per caso un carro sovietico, in agguato?” Ah, magnifico, persino carico di un vago senso d’ironia. Pare quasi di vedere gli scienziati ed ingegneri in camice bianco, con il loro album fotografico di 100 panorami, alcuni con sorpresa cingolata, altri privi di elementi minacciosi di alcun tipo. Intenti ad inserirli, in rapida sequenza, nella fessura orizzontale di uno scanner primitivo. All’altro capo del quale non c’era una singola entità artificiale, ma diverse interconnesse, secondo il metodo e la prassi che si usa ancora oggi, per (tentare di) riconoscere calligrafie, parole pronunciate ad alta voce, i volti delle persone presenti in una scena. Li chiamano network neurali. E pur essendo *ancòra notevolmente meno efficaci di un vero cervello umano, non sono in alcun modo meno misteriosi, o difficili da dominare. Pensate di essere, per un momento, un singolo neurone sospeso nella guaina mielinica di un cranio, dotato delle cognizioni necessarie a riconoscere soltanto il blu. Trovandovi di fronte ad un qualcosa di verde, non potrete far altro che passarlo al vostro vicino, il quale forse noterà l’assenza del giallo, oppure quella del rosso e così via, fino a trovare la risposta. Ma un carro armato è molto più complesso di così, perché può trovarsi in mille angolazioni differenti, essere coperto parzialmente dal paesaggio…Passarono i giorni, le settimane. A fronte di un frenetico processo di addestramento, si giunse infine al punto in cui, senza timor d’errori, il sistema riconosceva e contrassegnava tra le 100 foto quelle da considerare “pericolose” senza il minimo margine d’errore. Il numero dei successi continuava ad aumentare. La missione era…Riuscita? Furono chiamati il capo-progetto, il generale d’armata, forse addirittura il presidente degli Stati Uniti. Per inserire dinnanzi a loro, non senza un certo grado di aspettativa e pathos, una nuova serie di foto nel computer, nuovamente suddivise tra bucolici contesti e luoghi prossimi all’agguato veicolare. Ebbene, a quanto pare, il computer stavolta fallì nell’identificare il dovuto, con una percentuale di successi molto inferiore a quanto mai fosse successo in precedenza. Furono effettuati degli studi, nuovi saggi e dimostrazioni. Finché non si giunse all’orrida realtà: che nelle fondamentali 100 foto utilizzate inizialmente, c’era un tratto distintivo ben più evidente dell’eventuale presenza del nemico. Perché tutte quelle senza carro armato, erano state effettuate in una giornata di sole piuttosto intenso. Mentre le altre, con il cielo parzialmente coperto. Ciò che il computer stava identificando, dunque, era semplicemente la luce ambientale della scena! Non è terribile, tutto ciò? Personalmente, trovo che sia una progressione dalle analogie profondamente nichiliste. Ecco una macchina creata per “comprendere” di avere uno scopo, ma la quale non è in grado di capire quale questo, in effetti, sia. E s’impegna quotidianamente, per l’intero segmento del suo attimo di gloria, nel perseguire un obiettivo che non si dimostra quello designato dai creatori. Prima di essere per sempre spenta, poi dimenticata.

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Un miraggio planetario nel deserto del Nevada

Solar System Model

Sembrano gridarlo ai quattro venti, renderlo palese con la forza dei propri semplici gesti: tutto quello che pensate di sapere sul Sistema Solare, non è proprio Sbagliato…Ma nemmeno utile a costruirvi un visione che risponda alla realtà. E la colpa, se vogliamo, è tutta degli illustratori che ci hanno portato, in anni ed anni di abbellimenti visuali, verso quel modello: la grande sfera fiammeggiante al centro. Una, due, tre, quattro palle dalle dimensioni molto minori, separate l’una dall’altra per lo spazio di qualche centimetro a dir tanto (Mercurio, Venere, Terra, Marte) ed altre quattro invece, dalle proporzioni medie, nonché vivacemente colorate: Giove, Saturno, Urano, Nettuno. Se conservate poi un ricordo del periodo antistante al 2006, a questo club ristretto si sarebbe aggiunto il “piccolo” Plutone, oggi declassificato a pianeta nano, poiché parte in realtà della lunga serie di oggetti rocciosi che formano la cintura asteroidale di Kuiper, analoga a quella interna della fascia principale. E persino lui così azzurrino (chissà poi perché) nel trionfo del paradossale, sarebbe stato lì, con l’ellisse del suo moto alla distanza media di 6 milioni di Km dal Sole circa, forse giusto un po’ di lato, su quel foglio. Messo, al massimo, lievemente in disparte. Il che non sarebbe stato un grandissimo problema, se almeno la rappresentazione convenzionale dell’intero meccanismo fosse in scala. Ma il fatto è che le vertiginose distanze che separano ciascuno di questi corpi, nella loro danza gravitazionale, è così estesa da sfuggire a degne rappresentazioni. Se volessimo raffigurare le distanze rilevanti, i pianeti dovrebbero essere puntini o al massimo cerchietti, e la pergamena usata per raffigurarli, srotolabile, fino alla lunghezza di diversi metri di assoluto nulla. Proprio per questo, le migliori rappresentazioni sono quelle digitali. Però talvolta, stanchi di guardare luci fittizie riprodotte dentro a un monitor, viene anche la voglia di dare una forma fisica a quanto descritto fino ad ora: il vero volto del Sistema. Più che altro perché, utilizzando un punto di osservazione inserito all’interno di un modello in scala, si potrà provare l’emozione di osservare ciascun elemento costituente, alla dimensione relativa che esso veramente avrebbe, nel corrispondente punto dello spazio interplanetario.
Ciò significa, come sapientemente dimostrato verso il termine del video di Wylie Overstreet ed Alex Gorosh, To Scale: The Solar System, che qualcuno potrebbe mettersi vicino a quella biglia che è nella finzione il pianeta Terra. Mentre il suo amico solleva in alto, con gesto teatrale, il mega pallone da spiaggia usato per il Sole. Mentre quest’ultimo, sapientemente manovrato, coprirà perfettamente il disco della nostra stella sopra l’orizzonte, nella perfetta riproposizione di un’eclisse fatta in casa, totalmente soggettiva quanto degna di essere narrata. Il concetto non è, in realtà, del tutto nuovo. Di modelli accuratamente proporzionati del nostro vicinato cosmico ne esistono dozzine: nei musei statunitensi, presso le istituzioni di studio e ricerca. Ad Elrlenbach sul Main, nel land della Baviera, ce n’è uno in scala 1:1.000.000.000, con sfere di metallo poste sopra grandi piedistalli. Il Sole, naturalmente, è dorato. L’università del Colorado vanta un progetto che si estende per l’intero campus, dal planetario di Fiske fino al termine del viale Regent Drive. Qualche volta, tali creazioni diventano dei veri monumenti, con ciascuna sfera montata in alto sulla strada, dislocata lungo uno spazio tra una città e l’altra, come fatto nell’esemplare vantato dallo stato del Maine, che misura complessivamente ben 64 Km e mezzo, dalla comunità di Presque Isle ad Houlton, sul confine con il Canada. Mentre il più imponente di simili costrutti si trova in Svezia, lungo diverse città presso la costa del Mar Baltico. Il Sole, qui, è rappresentato dallo stadio ad emicupola dell’Ericsson Globe, il più grande edificio del suo tipo, mentre i diversi pianeti sono attraenti opere commissionate ad artisti di fama, ciascuna nell’esatta scala di 1:20.000.000. Pensate, per iniziare a rendervi conto delle distanze relative, che i quattro pianeti del Sistema interno sono tutti a Stoccolma, mentre gli altri si trovano ad Uppsala (73 Km dal Globe) Gävle (143 Km) Söderhamn (229 Km) e così via. Per rispettare le dimensioni relative, quindi, la terra misura 65 cm di diametro, mentre Plutone appena 12. Il modello da due metri e mezzo di Urano, per motivi forse dovuti al doppio senso del suo nome, è stato più volte vandalizzato.
Ma il fatto è che qualsiasi ricostruzione di questo tipo, per sua inerente necessità, deve sempre fare i conti con le distrazioni dell’ambiente circostante: strade, lampioni, edifici… Mentre nell’idea di questi due autori, si è cercato di fare un qualcosa di totalmente diverso: il più piccolo modello che fosse anche osservabile da lontano, collocato in uno dei luoghi maggiormente affini al vuoto cosmico che abbiamo sulla Terra: il vecchio bacino endoreico (ex-lacustre) del deserto Black Rock, a decine e centinaia di chilometri dal più vicino centro abitato.

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La battaglia bovina di Londra finalmente in HD

Moo Cyriak

Eravamo giovani ed ingenui. Eravamo entusiasti, eravamo compiacenti. L’industria zootecnica, per quanto già permeasse ogni pertugio del rapporto tra gli umani ed animali, non era ciò che è adesso, né rispondeva alle stesse stringenti norme etico-sanitarie. Nel 2007…Quando gli alieni rapirono la loro ultima mucca, prima di trasformarla in un mostruoso distruttore di pianeti. Cose che succedono, portando alle sue estreme conseguenze la scienza tecnica della sperimentazione su creature ruminanti! Raccontarlo è doveroso. Mostrare tali circostanze, con una fedeltà visuale degna del peso degli eventi, non sempre facilissimo. Perché in quei tempi ormai lontani, tanto per cominciare, YouTube prevedeva per i video una risoluzione massima di 240p: più che sufficiente a far conoscere la propria faccia al mondo, intavolare qualche linea di un dialogo parlato, per vedersi allegramente bistrattati nei commenti. Ma purtroppo estremamente inadeguata, al fine di mostrare i minimi dettagli di una serie di eventi che si estende dal minuscolo (globuli muggenti) all’incomprensibilmente vasto (quadrupedi grandi come pianeti?) Passando attraverso visioni dell’inferno formatosi per l’intenzione di comprendere la biologia terrestre.
Gli alieni dell’originale [MOO!] di Cyriak, l’animatore di Brighton famoso per le sue trovate psichedeliche e insensate, non sono del tipo che si mette in discussione per toglierci spazio, risorse o divorarci tutti interi. Appaiono piuttosto su schermo, ben racchiusi dentro delle occhialute astronavi, con la finalità apparente di studiare gli elementi di contesto, ma soprattutto comprendere cosa fa muovere il principale animale da prato con i quattro stomaci, qui trattato alla stregua di un mero giocattolo biologico. E chi siamo noi, per criticare. Regna la pace tra i colli gradevolmente verdeggianti. Quando cala, all’improvviso, il disco metallico con la forchetta pneumatica, perché i raggi traenti sono un’inutile complicazione, che trangugia lietamente la creatura. Per poi procedere al sezionamento, ovvero la suddivisione delle parti: la mucca alquanto sorpresa, in una serie di bizzarre sequenze, viene tagliata a metà, poi fatta in tanti pezzettini. Il suo cervello attentamente scoperchiato. Con i singoli componenti, tutt’altro che inutilizzabili, le molte braccia del sistema tecnologico mettono assieme un’intera collezione di strumenti musicali, che forniscono ulteriore verve a un crescendo sincopato di armonie. Quando dalla parte inferiore dell’inquadratura, senza soluzione di continuità, si rendono palesi alcune bocche trasparenti, come fossero tromboni d’accompagnamento, il cui vero scopo appare invece presto chiaro: sono provette, queste, in cui deporre il frutto principale del complesso studio extraterrestre. Alcuni embrioni, chissà poi perché. Illuminati con un misterioso raggio verde, che pare accelerare quella crescita del tutto innaturale, finché…Incidente, disastro! Un malfunzionamento della macchina ha portato alla disintegrazione di uno degli involucri di contenimento, rovesciando l’astruso materiale geneticamente modificato nell’intercapedine tra gli altri. La massa vivente della mucca ricombinata, a quel punto, viene naturalmente attratta verso il resto dei suoi simili, rompendo il resto delle fiasche, poi crescendo a dismisura e in modo incontrollato. Terminata la semplice introduzione, le cose iniziano a farsi alquanto strane.

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Che ne sarebbe del nostro pianeta con un Sole differente

Stars exchange

Fra milioni di stelle così disordinatamente sparse per il cielo, abbiamo scelto proprio te: gialla e tonda (perché addirittura quello, non era affatto garantito) calda e grossa, esattamente il giusto. Se il tuo contenuto d’idrogeno fosse stato lievemente maggiore, se la tua corona solamente un po’ più turbolenta, se il velo ionico della magnetosfera non riuscisse tanto bene nel fermare quelle radiazioni attanaglianti… La vita sulla Terra, per come la conosciamo, non esisterebbe affatto. Eppure? C’è chi porta un simile ragionamento alle sue estreme conseguenze. Avete mai sentito l’espressione: “Se l’orbita del nostro pianeta fosse stata di appena 2 (quattro, sei…) Metri più ampia, saremmo tutti congelati nel vuoto cosmico dell’oblio; nel caso esattamente contrario, il fuoco purificatore ci avrebbe cotto in due minuti al massimo… (Eh no, salire sopra una scaletta non è AFFATTO la stessa cosa!)” Ecco, benché tale idea sia piuttosto diffusa nel senso comune ed apparentemente priva di connotazioni problematiche, si tratta di una presa di posizione estremamente ben schierata. Significa, a conti fatti, voler credere che siamo pressoché soli nell’Universo, e che l’umanità sia il frutto di una condizione sacra e irripetibile, monotipica e monoteista. Quando invece per chi ha voglia di guardare, là sopra l’orizzonte c’è davvero spazio per chiunque: basta puntare un comune telescopio verso l’alto, in una notte senza troppa Luna, riflettori o fuochi d’artificio, per scrutare in lontananza tanti e tali grandi padri, ciascuno frutto di un miracolo diverso. Grandi e luminosi, oppure piccoli ed appena definiti, gialli, azzurri, nebulosi. Milioni di scintille sopra il mare di velluto nero, ciascuna potenziale conduttrice di un antico sentimento, la religione e il culto d’inimmaginabili consorzi dei viventi. L’abbiamo visto succedere, persino qui da noi: gli Aztechi che uccidevano il gran sacerdote per il sopraggiungere di un eclisse; i servi del faraone che lo seguivano fin dentro la sua tomba, poiché egli era il figlio di Ra, personificazione di quel colossale fuoco. Difficile non adorarlo fino alla follia, un tale oggetto sconfinato. Il più vasto ed influente che sia posto a meno di un paio d’anni luce dal nostro lungo esperimento di diversa civilizzazione. Si, ma diversa da cosa?
Così un giorno, quello lì ha inventato il telescopio. Scoprendo gradualmente, assieme ai suoi immediati successori, che non siamo speciali. Che di Soli come questo, ce ne sono due milioni di migliaia e di miliardi ancora, esattamente uguali e non è neanche questo il peggio: una buona parte di essi, tanto spesso, è addirittura più imponente e luminosa. Siamo, per così dire, nella media. Prigionieri della nostra convinzione, dunque tanto eternamente affetti da un complesso della solitudine per scelta. Non puoi uscire dalla media ed aspettarti di continuare indisturbato, come niente fosse, sulla stessa strada pre-esistente. A dimostrarcelo, in codesto pregno caso, sopraggiunge un video del canale russo Телестудия Роскосмоса, che ha tanto gentilmente provveduto a sostituire alla mega-palla tanto amata, in una serie di sequenze, alcune delle stelle più famose del distinto firmamento: Alpha Centauri, Sirio, Arturo e quella grossa prima donna, detta dagli amici la Polare. Il risultato è filosoficamente rilevante, il che è strano, soprattutto vista la semplicità dell’idea di partenza. Ma il risultato è pure…Preoccupante.

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