Tra tutte le zone biologicamente atipiche visitate da Coyote di Brave Wilderness, il documentarista internettiano dall’inseparabile cappello da cowboy, quella che ci ha regalato maggiori soddisfazioni è probabilmente il piano mesolitorale, ovvero quella parte della spiaggia che risulta soggetto all’avanzamento ed al ritiro delle maree. Luogo in cui lui, che non sembra temere alcun morso o puntura da parte di un altro essere vivente, infila con entusiasmo le sue due mani sotto le rocce più grandi che gli riesce di trovare, riportando in dietro, il più delle volte, una qualche creatura mai vista prima. Ma in quest’ultimo episodio ambientato presso le isole di San Juan sulla costa del Pacifico, al confine tra il Canada e lo stato settentrionale di Washington, potremmo ben dire che la sorte l’ha davvero assistito. Poiché in un sol colpo, mentre andava in cerca della “strana creatura” del giorno, gli è riuscito di trovarne in un sol colpo non una, bensì due. Trovandosi a fermare accidentalmente, con somma fortuna di una in particolare delle parti coinvolte, una delle più lenti ma inesorabili predazioni del qui presenta habitat naturale: quella condotta dalla stella marina viola (Pisaster ochraceus) ai danni del chitone-caloscia o polpettone di mare (Cryptochiton stelleri) mollusco dall’aspetto insolito che soltanto in questi luoghi, riesce a raggiungere l’impressionante lunghezza di 36 cm. Praticamente, poco più della metà dell’eccezionale lepre di mare (Aplysia vaccaria) il lumacone nerastro a cui dedicai un altro articolo qualche tempo fa. Si tratta di un animale morfologicamente molto difficile da comprendere, e questo per uno specifico motivo: il suo corpo è interamente ricoperto da un tessuto rigido e connettivo noto con il nome di girdle, dall’intensa colorazione che può variare tra il rosso e l’arancione, probabilmente utile ad acquisire un qualche tipo di mimesi tra le alghe kelp. Non che l’essere vi trascorra una parte significativa della propria vita: successivamente al passaggio dallo stato larvale fluttuante a quello di creatura dei fondali, infatti, il chitone tende a strisciare fino agli scogli ed aderirvi saldamente, sfruttando la sua radula (lingua ricoperta di denti) per raschiare via cellule di vegetazione che apparivano letteralmente inscindibili dalla pietra. Strisciando qui e la, dunque, gli riesce di sopravvivere fino alla riproduzione. In condizioni normali, la parte sotto di questi molluschi non viene mai esposta all’aria, poiché una volta rivoltati, essi non possono ribaltarsi, esattamente come le tartarughe. Ed è per questo che diventa rilevante il momento in cui Coyote ribalta il suo formidabile ritrovamento, per mostrarci, esattamente, come sia fatto sotto.
Tenuto così in mano, il chitone tende a piegarsi su se stesso per proteggere almeno in parte i suoi punti deboli e benché non possa arrivare a chiudersi effettivamente come un riccio di terra, sembra aver fatto un lavoro piuttosto buono. Nel centro dell’addome spicca il lungo piede, del tutto analogo a quello delle lumache, con cui può muoversi ad una velocità ridotta, ma per lo più efficiente. È al culmine di tale arto quindi (organo?) che si trova la bocca, quasi invisibile se l’animale non si sta nutrendo. Invisibili allo spettatore, perché coperte da apposite pieghe protettive, sono invece le branchie, che corrono ai lati per l’intera lunghezza dell’animale. Quello che invece non si vede affatto, e non potrebbe essere altrimenti, sono le placche protettive di aragonite che costituiscono la conchiglia dell’animale, coperte interamente, come dicevamo, dal girdle. Tutti i molluschi bivalvi, ovvero dotati di una conchiglia apribile in due metà presentano infatti un resistente “cardine” muscolare, che gli garantisce un uso idoneo dell’impenetrabile protezione. Il chitone, tuttavia, fa eccezione anche in questo, poiché possiede non una, non due, bensì 8 placche o valvi, concepiti per garantirgli una sufficiente flessibilità a muoversi su ogni tipo di superficie. Quando l’animale poi muore e si decompone, essi non sono più tenuti assieme dalla parte molle del suo corpo, e vengono quindi trasportati fino a riva dalla risacca, assumendo il nome altamente descrittivo di conchiglie a farfalla. Ma prima che questo possa accadere, il nostro amico avrà fatto il possibile per liberare nella corrente il suo codice genetico, nella speranza che questo riesca a incontrare le letterali molte migliaia di uova lasciate vagare libere dalla sua distante compagna. E questa, in effetti, è l’unico caso in cui cerchi d’incontrarsi con un simile della sua specie.
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2 cm per 25 metri: l’abitante della ragnatela più grande al mondo
Mostri, dei veri e propri mostri. Si arrampicano sopra le cose, alla ricerca di cibo. Piccoli e operosi, perennemente attivi, gli occhi grandi quanto o addirittura più dello stesso cervello. Le manine simili a quelle di una scimmia, ma ancora più piccole, per afferrare tutto e conseguentemente, mangiare tutto. C’è un vero e proprio gremlin col dito medio particolarmente lungo, per meglio insinuarlo nei buchi degli alberi e ghermire le formiche. C’è n’è un altro che agisce in gruppo, spazzolando totalmente un territorio tra i 10 e 14 ettari comunitari. Agiscono di giorno. In altri casi, si muovono la notte. Pur non essendo delle creature a tutti gli effetti onnivore, vista la loro preferenza endemica per frutti e radici, non c’è un solo lemure in tutto il Madagascar che disdegnerebbe di fagocitare un ragno ogni tanto, possibilmente completo della sua casa e tutto quello che vi si era impigliato. Non c’è troppo da meravigliarsi, quindi, se nel parco naturale di Ranomafana esiste la marcata tendenza evolutiva ad occupare nicchie ambientali del tutto nuove. Anche questo è un aspetto che deriva dalla biodiversità. Parlare del ragno della corteccia di Darwin, oggi, significa inevitabilmente approcciarsi agli svariati studi sull’argomento di Matjaz Gregoric, Matjaz Kuntner e colleghi, biologi di diverse istituzioni universitarie slovene, che nel 2009 hanno descritto scientificamente per primi un qualcosa che in effetti, era sempre stato lì, sospeso sopra i fiumi e i laghetti della quarta isola più grande al mondo. Scegliendo incidentalmente, in occasione del 150° anniversario dalla pubblicazione de L’origine delle specie da parte del naturalista più grande di tutti i tempi, di dare alla nuova creatura il suo nome già noto. Il Caerostris darwini, dunque, è questo ragno della lunghezza di 2 cm per la femmina, appena mezzo per il maschio, appartenente alla famiglia degli Araneidae, ovvero la stessa di tutti gli altri tessitori di tipiche ragnatele dalla forma circolare, detti per l’appunto nei paesi anglosassoni “orb spider” (ragni del cerchio). Che percorrendo gli alterni rami dell’albero della vita, sono giunti in questi luoghi in una profusione di forme e colori straordinariamente vari. Inclusi quelli appartenenti a questo specifico genus, classificati per la prima volta dallo svedese Tamerlan Thorell, nel 1868. Eppure persino tra questi, la nuova aggiunta al catalogo risulta molto sorprendente. Si potrebbe persino affermare che il suo stile e metodo di caccia risulti tra i più efficaci e incredibili al mondo.
Tutto inizia con un’esemplare, generalmente la femmina, che attende pazientemente una giornata di vento a favore. Quindi ella si dispone su un ramo sufficientemente alto e distante dalla chioma centrale, in bilico sopra l’acqua, iniziando a liberare le lunghe fibre della sua personale interpretazione ultra-appiccicosa della seta. È una visione quasi surreale, con le propaggini leggerissime, ma straordinariamente resistenti, che iniziano ad estendersi verso il campo aperto, fluttuando leggere nell’aria. Mentre i fili continuano ad allungarsi, quindi, ella li avvolge con le zampe anteriori, manipolandoli per creare un qualcosa di singolo e quasi permanente, piuttosto che numerose ragnatele incomplete. Trascorso un tempo medio, inevitabilmente, la sua creazione raggiunge l’altra sponda tra i 10 ed i 25 metri di distanza, attaccandosi spontaneamente ad un albero, il più possibile alto quanto il suo. A quel punto, recisa ed assicurata adeguatamente la propria estremità, il ragno inizia la sua lunga camminata. Una delle particolarità del darwini tra tutti gli orb spider è il modo in cui esso integra il suo primo filo ancora al resto della ragnatela, che non lo finirà per averlo in mezzo, ma piuttosto penderà verticalmente al di sotto di essa, prima di essere adeguatamente assicurata con altri fili quasi altrettanto lunghi. Questo ha lo scopo, ritengono Gregoric et al, di incrementare l’area disponibile per la cattura, favorendo l’eventuale banchetto nel caso del passaggio di uno sciamo o altro tipo di nugolo, potenzialmente ronzante. Ma la vera scoperta sarebbe giunta soltanto successivamente quando gli scienziati, per prelevare un campione, toccarono la ragnatela. Soltanto per scoprire che essa in effetti, era talmente solida da poter intrappolare persino un uccello o un piccolo pipistrello. Proprio così: essa era, a parità di spessore, il singolo composto biologico più forte del mondo. Superiore, da determinati punti di vista, persino alle proverbiali doti del kevlar o dell’acciaio…
In cerca di case sui bastioni d’Islanda
È puro Oceano, signora mia. Volete avere le orche per vicine di di casa? E i pinguini al posto dei passeri, che vengono a chiedervi le briciole di pane? Ecco, questa seconda parte sarebbe un po’ difficile da organizzare. Perché dovrà saperlo, di sicuro: le onde sono alte da queste parti, così per salvaguardare l’abitazione abbiamo dovuto edificare le quattro mura in cima a un faraglione alto all’incirca 20 metri, a strapiombo sul mare distante. Fantastico: in questo modo, il cielo può essere il cortile. E suo marito non potrà mai arrischiarsi a ritornare ubriaco la sera. Stabilirsi a vivere su uno dei tre faraglioni, che in realtà sono quattro (Stóridrangur, Þúfudrangur, Klofadrangur e “Senza Nome”) ha un costo assolutamente ridicolo per chiunque sia abbastanza coraggioso da pensare di farlo. Basta, sostanzialmente, auto-nominarsi guardiani del faro. E io non credo che potrebbe mai esserci nessuno, tra l’amministrazione locale dell’arcipelago di Vestmannaeyjar (Le Isole degli Uomini Occidentali) che potrebbe mai sognarsi di opporre il suo veto. Gli abitanti delle zone limitrofe sono certamente ospitali. Né del resto, l’iniziativa dell’eclettico cambio di residenza arriverebbe alle orecchie di alcuno, prima dell’occasionale e saltuario cambio della sacra lampadina custodita quassù. Quindi portatevi un ricambio, oppure due. E i naviganti, mancando di lamentarsi dell’improvvisa scurezza della baia, saranno vostri alleati nel mantenere il segreto. Andare lì per svolgere l’operazione in questione non è del resto particolarmente facile, come ampiamente dimostrato dal presente video del pilota d’elicotteri Gísli Gíslason, che nell’estate del 2016 vi si recò per trasportare 6 operai, che si occuparono di effettuare la manutenzione generale e ridipingere il meraviglioso cubo di mattoni e malta con lanterna metallica a prova di tempeste. Anzi, bando agli eufemismi: ci saranno 2 o 3 operatori di aeromobili, in tutta l’Islanda, a poter affermare in tutta sicurezza d’essere capaci di svolgere una simile missione, anche in condizioni meteorologiche ideali. Poiché ciò che serve fare, è avvicinarsi cautamente al frastagliato faraglione e abbassare i propri pattini di un metro alla volta, cercando di trovarsi in corrispondenza del più piccolo, precario e squadrato degli eliporti. Una piattaforma tagliata nella roccia, con otto pali paralleli che si estendono ai lati, presumibilmente per attaccarvi altrettante corde di nylon rinforzato per alpinisti. Poi una volta fatto questo, tutto quello che resta è percorrere una stretta passerella di roccia, rigorosamente ricoperta di sdrucciolevole vegetazione muschiforme sopra lo strapiombo distante, prima di approdare al sicuro nello “spiazzo” in cui si trova una delle strutture più improbabili mai edificate dall’uomo.
E pensate che tutto sommato, a costoro, gli è anche andata piuttosto bene: il faro esiste in effetti dal 1939, quando fu costruito a ridosso della seconda guerra mondiale per mettere in sicurezza questo particolare sentiero di approdo, tre anni prima che l’elicottero fosse costruito in serie dal pioniere dell’aviazione Igor Sikorsky, ed almeno tre volte tanto prima che un simile approccio ai trasporti trovasse un’effettiva diffusione internazionale. Piuttosto celebre resta in effetti, all’interno di determinati circoli, la storia narrata in un’intervista da Árni G. Þórarinsson, il veterano a capo del progetto in quell’epoca ormai distante, che descrive per filo e per segno l’esperienza del team di esperti montanari al suo comando, che per primi riuscirono a costruire la “strada” (in realtà, nient’altro che una serie di catene saldamente infisse nella parete scoscesa). Punto saliente della vicenda: il punto, verso la sommità, in cui non gli riuscì più di trovare appigli, ed allora il primo di loro si dispose a gattoni, mentre il secondo gli saliva sopra. E il terzo, dall’appoggio delle sue spalle, giungeva al punto agognato come il personaggio di un cartoon. Per poi tirarsi dietro i coraggiosi (o svalvolati) compagni. E ciò non prende neppure in considerazione, purtroppo, la fatica successiva di trasportare fin quassù i materiali. Di certo, non dev’essere stato facile trovare un muratore disposto a venire per dare una mano…
Le strutture costruite nei punti più isolati di Vestmannaeyjar hanno l’abitudine di comparire all’improvviso sul web, per la costruzione di un nuovo meme o il post distratto di una persona famosa (in questo caso specifico, pare si sia trattato di niente meno che Justin Bieber) diventando all’improvviso l’antonomasia di chi desidera vivere in totale e pacifica solitudine. Non è questa in effetti la prima volta, né il primo luogo, a dare adito a un simile risvolto situazionale…
Il sangue degli alberi sull’isola del drago
Secondo la tradizione, fu in primo luogo l’esperienza di un uomo, notoriamente incredulo. Il viaggiatore con una Grande Missione, forse la più grande di tutte: salire su una nave e viaggiare ad Oriente, per trasmettere in India gli insegnamenti di Gesù. Ma l’apostolo Tommaso, secondo le credenze di questi luoghi, non sarebbe mai giunto sul continente dalle mille e più culture. Poiché forse per volere di Dio, oppure del Fato, avrebbe invece sperimentato l’esperienza terribile di un naufragio, approdando forzatamente proprio presso l’unica isola degna di questo nome che si trovasse a largo del golfo di Aden, tra il corno d’Africa e lo Yemen. Una terra del tutto fuori da questo mondo. Un luogo misterioso ed almeno all’apparenza, sovrannaturale. È del tutto possibile, in effetti, nascere in un luogo e prendere atto della sua flora e fauna come un qualcosa di assolutamente normale, benché appartenente biologicamente ad un ecosistema totalmente scollegato dal resto del mondo. Dopo tutto, se l’hai sempre conosciuto, che c’è di strano? Ma pensate all’esperienza dei primi naturalisti che raggiunsero l’Australia, oppure le Galapagos o le giungle del Brasile. O immaginate, ancora, l’aspetto della singola terra emersa (non di origine vulcanica) che si distanziò per prima dalla massa ultra-continentale del preistorico Gondwana. L’isola di Socotra, con gli altri tre scogli sovradimensionati che costituiscono il suo “arcipelago” esiste in assoluta solitudine, si ritiene, almeno dal Miocene, ovvero un minimo di 5 milioni di anni fa. Abbastanza per sviluppare un suo intero ecosistema, estremamente caratteristico e secondo alcuni, del tutto alieno. Una qualità che gli deriva, in primo luogo, dall’aspetto insolito della sua vegetazione.
Non ci sono mammiferi endemici superstiti, su quest’isola, tranne i pipistrelli, ma quasi tutto il resto è solo ed esclusivamente suo. Numerose specie di rettili ed insetti, ragni e granchi mai visti altrove. Uccelli, migratori e non, che da tempo immemore costruiscono il nido unicamente nell’area delimitata da queste spiagge. E questo non è tutto: si ritiene che i quasi 2.000 anni di abitazione da parte degli umani abbiano, nel tempo, ridotto esponenzialmente la quantità di specie originali portandole all’estinzione, soprattutto introducendo animali domestici, come le capre. Ma c’è ancora qualcosa che sopravvive indisturbato, benché ridotto di numero rispetto all’epoca più antica: l’albero del sangue di drago, altrimenti detta Dracaena cinnabari. Unica fonte, sacra ai locali, di una resina rossa nota come il cinabro, che si riteneva potesse fungere da panacea di tutti i mali. Oltre a servire per la creazione di una tintura, estremamente preziosa in campo tessile e per la realizzazione di mobili laccati. Secondo la leggenda, dopo il naufragio San Tommaso costruì la sua chiesa impiegando il legno della nave con cui aveva progettato di attraversare l’Oceano Indiano. Quasi come se il legno proveniente da questa terra non potesse realmente definirsi parte del regno di Dio.
Secondo la maggior parte dei racconti degli eco-viaggiatori, che oggi si spingono fin qui con assoluta disinvoltura e giustificato senso d’aspettativa, l’albero in questione è anche la principale ragione che è valsa a quest’isola la nomina di “luogo più alieno della Terra”. Basta uno sguardo, per capirne la ragione: come le altre dracene originarie dell’Africa, il sangue di drago è un arbusto che presenta pennacchi di foglie nastriformi al di sopra di un labirinto di rami simili a radici. Queste ultime, tuttavia, appaiono totalmente rigide, puntando in ogni direzione come gli aculei di un porcospino. La sommità della chioma, poi, appare quasi perfettamente piatta, enfatizzando ulteriormente questa illusione ottica di trovarsi di fronte ad un’albero girato al contrario. La compattezza estrema delle fronde, in realtà, ha uno scopo ben preciso: in quanto Socotra presenta un clima arido che si avvicina pericolosamente a quello di un deserto, e l’evaporazione dei liquidi costituisce un potenziale problema. Così i rami dell’albero si proteggono vicendevolmente, assicurandosi che almeno una parte di loro, per quanto possibile, rimanga in ombra. Un tempo, questi alberi prosperavano grazie alle nebbie e foschie mattutine, oggi più rare in funzione del mutamento climatico. Essi non sono che le antiche vestigia di un’epoca remota, assieme ai loro molti compagni di sventura…