La torre di 50 metri sullo scoglio più remoto della Cornovaglia

Sagoma stagliata nella nebbia, circondata dall’alone di un sole stranamente remoto. Che si erge in mezzo ai flutti, sostenuta da una forma larga appena quanto le sue stesse fondamenta. Tanto da lasciar pensare che debba inevitabilmente trattarsi, quanto meno, di una costruzione ultra-moderna, basata su una titanica colata di cemento, oppure soluzioni tecniche come dei grandi galleggianti. Niente, tuttavia, potrebbe essere più distante dalla verità: poiché il faro di Bishop Rock (la Roccia del Vescovo) ha in effetti oltre un secolo e mezzo di storia, ed è stato collocato lì in risposta ad una serie di drammatici eventi, particolarmente celebri nel tormentato tragitto della storia d’Inghilterra.
Poche vicende costituiscono la dimostrazione dell’orgoglio sproporzionato di un uomo in una posizione autorevole, nonché della sua intera categoria professionale, quanto il tragico disastro delle Isole Scilly del 1707, culminante con la perdita di un numero tra i 1.400 e 2.000 marinai e i loro stesso ammiraglio, di ritorno da una difficile battaglia di supporto della guerra di successione spagnola, relativa al blocco della città francese di Toulon. Al punto che assai numerose furono le dicerie e leggende, sulla fine inevitabile di Sir Cloudesley Shovell, già veterano di almeno due tra i numerosi conflitti navali combattuti dalla Marina Reale in Europa verso la fine del XVII secolo. Tra cui la storia, al tempo stesso tipica e altamente indicativa, sul marinaio originario di questo particolare arcipelago, che trovandosi a bordo della stessa nave del supremo comandante, sentendosi obbligato a far sentire la sua voce, in merito al fatto che la flotta si trovasse molto più a settentrione di quanto era stato calcolato. Tutto ciò, ottenendo solamente una severa punizione, corrispondente secondo alcune versioni all’immediata impiccagione all’albero maestro. Piuttosto eccessivo, nevvero? Fatto sta che questo fosse il tipo di naufragio, capace di coinvolgere quattro delle venti navi sotto il disgraziato comando e in grado di lasciare un segno profondo nell’immaginazione di un paese e la sua elite al potere, gli uomini del Parlamento sotto la tutela del Re.
Il primo atto compiuto a tal proposito, dunque, sarebbe stato quello di far traslocare la tomba dello stesso Shovell, che una volta seppellito sulla vicina isola principale dell’arcipelago, era diventata vera e propria pietra dell’infamia per l’odio popolare, a causa del mito sulla fine del subordinato ingiustamente punito. Il secondo sarebbe effettivamente passato alla Storia, come Atto della Longitudine del 1714, emanato dal governo affinché la marina fosse fornita, dietro lauta ricompensa, di un sistema nuovo e più efficiente per triangolare la propria posizione in mare. Voleva il caso infatti, che mentre l’arco del parallelo geografico corrente fosse ragionevolmente facile da determinare, grazie all’altezza del sole a mezzogiorno o delle stelle nel cielo notturno, l’unico modo conosciuto al tempo per determinare il meridiano fosse ricorrere alla navigazione stimata (o dead reckoning) sulla base della velocità e il tempo di navigazione trascorso. Un sistema inerentemente impreciso, di fino a un ventesimo del cammino compiuto fino a un determinato momento, con conseguenze potenzialmente disastrose e già ampiamente dimostrate. Ma poiché le varie soluzioni tra cui cronometri e solcometri più precisi, oltre a un nuovo sistema di calcolo dell’altitudine lunare elaborato dal carpentiere e orologiaio John Harrison dietro lauta ricompensa governativa, tardavano a prendere piede tra coloro che ne avrebbero dovuto fare un uso coscienzioso, causando tra l’altro ulteriori naufragi presso le isole di Scilly, il governo scelse di rivolgersi come terza contromisura alla Trinity House, la corporazione fondata nel 1514 e ancora oggi operativa, con l’antico incarico di gestire tutti i fari della Gran Bretagna. E fu così che ad oltre un secolo di distanza il rinomato ingegnere di origini scozzesi James Walker venne trasportato per la prima volta presso lo scoglio responsabile di tante disgrazie, per il sopralluogo che avrebbe portato, nel 1847, alla costruzione del primo faro di Bishop Rock.

Numerose erano, già a quel tempo, le torri dotate d’illuminazione disseminate sulle coste abitate di un arcipelago dal nome vagamente simile al più celebre mostro marino del Mondo Antico. La particolare conformazione e difficoltà dei fondali locali, tuttavia, tendeva a renderle una contromisura tardiva nei confronti della furia tentacolare dell’implacabile Scilla del Nord.

Come tutte le storie epiche di fallimenti e successiva rivalsa, la vicenda del faro più alto in tutta l’Inghilterra (a parimerito con quello di Eddystone) nonché della più piccola isola al mondo ospitante una struttura costruita dall’uomo, raggiunge il suo primo culmine con un ultimo, irrimediabile disastro. Pare infatti che l’ingegnere James Walker avesse delle idee molto personali su quale fosse il modo di costruire una torre in un tratto particolarmente agitato dell’Oceano Atlantico, situato a 45 Km dal punto più estremo della penisola di Cornovaglia. Consistente, essenzialmente, in un lungo palo metallico centrale, avvitato sulla viva roccia e coadiuvato da una serie di puntelli, che a suo avviso avrebbero “permesso alle onde di passare oltre indisturbate” risultando quindi maggiormente solidi rispetto ad un tipico massiccio muro di cemento. Teoria apparentemente valida, se non che al completamento dei lavori nel 1850, poco prima che si riuscisse ad installare la luce per avvisare i naviganti, una tempesta particolarmente intensa avrebbe spazzato via il frutto di tanta fatica, lasciando nuovamente la roccia spoglia che c’era sempre stata. Lungi dal costituire un epilogo, tuttavia, l’incidente fece da sprone per l’orgoglio professionale della Trinity House, che avendo messo da parte la somma di 34,559 sterline (circa un milione e mezzo di euro al calcolo attuale) chiese ed ottenne che Walker ritornasse al tavolo da disegno, sfornando questa volta un tipico e massiccio faro in pietra di granito, dell’altezza già notevole di 35 metri. Tipico in tutto, tranne il luogo in cui doveva essere costruito, questa minuscola, e per di più obliqua roccia nel mezzo dell’assoluto nulla oceanico, dove il trasporto stesso dei materiali avrebbe richiesto una porzione significativa dei sette anni di lavoro successivi. Venne costruita quindi un’alta coffer dam (diga temporanea) per allontanare l’acqua dai dintorni dello scoglio, affinché il basamento della torre potesse trovare posto al di sotto della superficie marina, con dei sistemi sofisticati a incastro ed enormi bulloni avvitati nella pietra. Quindi, usando come base operativa una vicina isoletta disabitata, le 2.500 tonnellate di blocchi trovarono un poco alla volta posizione uno sull’altro, fino all’accensione della luce  tanto sospirata, in uno storico primo settembre del 1858.
Col trascorrere degli anni tuttavia, ed a seguito di un’ispezione da parte dello stesso direttore dei lavori in loco Sir James Douglass nel 1881, apparve chiaro che già a soli 23 anni di distanza la struttura fosse stata seriamente indebolita dalla furia degli elementi, e stesse attualmente correndo il pericolo di fare la stessa fine del suo predecessore interamente di metallo. E poiché degli inglesi non può dirsi nulla tranne che siano estremamente orgogliosi e perseveranti, di nuovo l’autorità dei fari investì una somma doppia di quella precedente, ossia nel caso specifico altre 66.000 sterline, affinché ulteriori 5.700 tonnellate di granito fossero usate per costruire letteralmente un secondo faro tutto attorno al primo, sotto la supervisione dello stesso Douglas e i suoi due figli, per l’ottenimento di una torre maggiorata in altezza di 15 metri e tutt’ora solida, tante generazioni dopo, alla svolta del millennio corrente.

Fino all’aggiunta dell’eliporto sulla cima nel 1976, il cambio della guardia del faro di Bishop Rock costituiva un’impresa particolarmente complessa, richiedente l’impiego di corde sospese e un argano azionato a mano. Capace di costare quasi la vita, soltanto l’anno prima, alla presentatrice per bambini Lesley Judd durante un documentario per la Tv nazionale.

Un importante punto di riferimento culturale per l’intero arcipelago di Scilly, oltre a vanto dell’ingegneria marittima britannica, questo faro tra i più remoti ed imponenti in proporzione all’epoca del suo completamento sarebbe stato gestito direttamente da mani umane fino al 1992, anno in cui l’affidabilità dei moderni mezzi tecnologici avrebbe permesso di automatizzarne completamente il funzionamento. E chissà quanti altri potenziali, tragici naufragi riuscirà ancora a scongiurare, per il tramite della sua stessa impavida e luminosa presenza.
In una delle più strane leggende collegate al disastro della flotta di Shovell, il fantasma del vecchio ammiraglio si aggirerebbe ancora sull’isola di Scilly, essendo in effetti giunto sulle coste ancora in vita, nonostante la lunghissima nuotata tra le gelide onde dell’oceano settentrionale. Soltanto per essere ucciso da una donna del luogo, che sembrava essere accorsa per soccorrerlo, nascondendo invece l’intenzione di sottrargli a seguito del turpe delitto il prezioso anello con smeraldo, ricevuto in dono qualche anno prima dall’amata moglie. Una storia corroborata dall’apparente confessione, effettuata trent’anni dopo sul letto di morte al parroco dell’isola da parte dell’assassina stessa. Non è perciò del tutto impossibile immaginare costui su questa Terra ancora semi-trasparente in mezzo all’aria del mattino, mentre osserva l’orizzonte con l’ampia parrucca bianca ed il tricorno, ricordando l’ora dell’infamia ed il più grande (nonché l’ultimo) errore della sua carriera. Sospirando all’indirizzo di quel dito verticale che si erge dalle onde, con un suono che par quasi esprimere: “Se soltanto qualcuno… Ci avesse pensato prima!”

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