Le intatte mura medievali d’Avila, città di pietre, santi e cavalieri

A un solo centinaio di chilometri da Madrid, sorge la cittadina celebre sulla scena internazionale per due importanti meriti, sopra gli altri: aver dato i natali a Santa Teresa, Dottore della Chiesa e riformatrice dell’Ordine Carmelitano. E l’aspetto particolarmente intonso dei suoi quartieri antichi, costruiti all’apice del periodo medievale e cinti da una muraglia lunga 2 chilometri e mezzo ed alta in media 12 metri. Con 88 torri semicircolari, capaci di proteggerla dall’avanzata di qualsiasi nemico. Tranne quello che proveniva, per lo meno idealmente, dalla stessa linea di appartenenza familiare…
Le strade del conflitto sono lastricate di diplomatici propositi o nel caso della risoluzione di questioni ereditarie, fallaci tentativi d’equanimità. Così quando il Re Ferdinando I di Castiglia e León comprese che la fine era vicina nell’anno del Signore 1065, egli fece probabilmente il più grande errore che potesse capitare a un uomo nella sua posizione: spezzare il regno in cinque parti, da distribuire ai suoi tre figli e due figlie in attesa di un matrimonio. Il risultato, nella penisola Iberica ove il sincretismo con le genti dell’Emirato di Cordoba stava per sfociare nel periodo più sofferto della guerra di Reconquista, fu ulteriormente destabilizzante per i regni cristiani e le loro popolazioni, destinate ad essere coinvolte entro due soli anni nel conflitto che sarebbe passato alla storia con il nome di “guerra dei tre Sanchi”: Castiglia Vs Pamplona Vs Aragona. Le conseguenze sarebbero state problematiche, Finendo per cancellare gli anni di pacifica convivenza ed integrazione tra i popoli, benché una “terra di nessuno” esistesse ormai da generazioni tra le roccaforti cristiane ed i loro oppositori nella parte meridionale della penisola. Ovvero lo spazio, attorno alle città di Ávila, Segovia e Salamanca, che l’insigne predecessore dinastico Alfonso VI di Castiglia aveva fatto fortificare verso la fine dell’XI secolo a Ramon di Borgonya, marito di sua figlia, l’infanta Urraca. Una di queste città inviolabili, in modo particolare, sarebbe entrata nelle questioni di tale famiglia all’inizio del XII, quando nel 1109 il nuovo re d’Aragona, Alfonso I detto il Battagliero, colse l’occasione di accrescere i propri domìni sposando la stessa Urraca, diventata nel frattempo vedova nonché regina di Castiglia. La quale aveva tuttavia un figlio, che avrebbe dovuto idealmente ereditare il potere, questione ragionevolmente problematica per il nuovo consorte. Ne scaturì un ulteriore conflitto destinato a estendersi per l’intera regione, al culmine del quale la regina si ritirò, assieme a suo figlio, presso i suoi alleati nella possente città di Ávila, priva di un grosso esercito semplicemente perché nessuno, a quell’epoca, avrebbe potuto espugnare le sue mura. Ne conseguì la celebre circostanza in cui l’ambizioso Alfonso I, giungendo innanzi a quei bastioni, chiamò ed ottenne che gli fosse mostrato dall’alto il problematico figliastro che aveva il suo stesso nome. Ma poiché non poteva vederlo abbastanza bene, chiese che venissero mandati degli ostaggi ed egli potesse attraversare sano e salvo la porta principale. Il che avvenne sulla base di una fiducia e complicità tra i regni cristiani, destinata a rivelarsi tragicamente malriposta. Poiché quando il sovrano di Aragona scoprì che la moglie ed il suo giovane omonimo si trovavano davvero lì dentro, da cui non avrebbe potuto riportarli sotto la propria autorità, fatto ritorno al suo campo fece letteralmente bollire vivi i 70 cavalieri che avevano lasciato, sulla fiducia, la protezione della muraglia. E di ritorno presso la sua capitale, ordinò anche che venisse trafitto dai lanceri l’onorevole Blasco Jimeno di Ávila, cavaliere giunto per sfidarlo a causa della sua arroganza. Eppure la città che aveva scansato l’assedio, nonostante questo oscuro capitolo della sua storia pregressa, continuò indefessa a prosperare…

Leggi tutto

Loarre, il castello di montagna che costituiva l’ultima linea difensiva dei regni d’Europa

Certe cose erano più dirette all’epoca, meno stratificate. Ma la politica, una fitta rete di alleanze tra le opposte dinastie, regni e culture distanti, non rientrava di sicuro in tale visione semplicistica del Medioevo. Così quando Carlo Magno, il re più potente del suo mondo riuscì a portare a termine la riconquista della città di Saragozza alla fine dell’VIII secolo, sconfiggendo il sovrano islamico dell’Emirato di Còrdoba e installando il nuovo territorio della Marca Ispanica, la situazione era ben lontana dall’essere risolta. Mentre gli eserciti cristiani dilagavano e conquistavano la regione a meridione dei Pirenei, i loro nemici infatti si riorganizzavano ed infine riuscirono a sconfiggere le forze di spedizione, nella difficile battaglia di Roncisvalle (la cui vicenda è narrata nella Chanson de Roland). Ma l’asse del potere era ormai cambiato, ed una costellazione di piccoli domìni formati dalla popolazione locale, alcuni dei quali più forti di altri, erano riusciti a imporsi sui propri rispettivi dominatori di el-Andalus. Il più grande dei loro rappresentanti, nel tempo, sarebbe diventato Sancho Garcés II della fiorente città stato di Pamplona, dopo il suo fortunato matrimonio nel 925 con l’unica erede e figlia di Galindo II Aznárez, conte di Aragòn. Ed è al passaggio di una manciata di generazioni, nel periodo immediatamente successivo all’anno Mille, che troviamo il discendente di questa unione Sancho Garcés III all’apice della propria posizione di preminenza, tanto da meritarsi l’agognata qualifica di el Mayor. Governante forte, capo militare di successo, egli era anche e soprattutto incline a mantenere aperti i rapporti diplomatici con gli antichi alleati al di là dei Pirenei, ivi inclusi Roberto II di Francia. Guglielmo V d’Acquitania ed Odo II, conte di Blois e Champagne. Ragion per cui non poté in alcun modo esimersi dal dare lustro alla propria specifica collocazione geografica, accettando di buon grado il ruolo di porta invalicabile, ovvero barriera stolida contro la possibile venuta degli Infedeli. Così egli decise di far costruire in un punto strategico il castello che avrebbe cementato il proprio ruolo in tal senso; una fortezza capace di dominare l’intera valle verdeggiante della Huesca, ospitando forze militari pronte a ricacciare chiunque avesse l’intenzione di usurpare le competenze amministrative ed ereditarie dei suoi ancestrali possidenti. Un alta rocca costruita in stile Romanico, possibilmente presso il sito di un’antico castrum dell’Imperium Romano, strutturato attorno alla torre di cinque piani che oggi porta il nome di el Homenaje. Struttura a pianta rettangolare da cui venne posto ad estendersi un muro di cinta con seconda torre di guardia chiamata “della Regina” abbastanza alta da permettere l’appostamento di arcieri, mentre gli occupanti avrebbero potuto beneficiare di un capiente magazzino al livello del terreno ed alloggi presso quelli superiori. Ben poco potevano immaginare all’epoca i suoi costruttori, di come il fronte di battaglia delle guerre di religione fosse stato spostato ormai in maniera permanente verso la parte sud dell’odierno territorio spagnolo, relegando questa poderosa struttura al ruolo di un possente, quanto inutile monumento. Almeno finché non giunse a costituire, col trascorrere dei secoli, una notevole quanto insostituibile capsula del suo tempo…

Leggi tutto

L’arcaico suono del cornu e gli altri utili strumenti delle battaglie romane

E fu allora che nel fragore e l’impeto delle uccisioni, nel caotico incidente prolungato all’infinito, mentre uomini uccidevano uomini ed il vento soffiava della melodia dell’odio contrapposto tra gli schieramenti, alcuni cominciarono e cercare l’ordine, riuscendo a trarne imperitura soddisfazione. Poiché tutti possono combattere, nell’ipotetica ricerca di una condizione migliore per se stessi o le proprie famiglie, sotto la suddivisione di una classe dirigente disinteressata nei confronti del bene assoluto; ma è una vera scienza, intesa come la tangibile derivazione della matematica, quella necessaria a trasformare il membro di una milizia cittadina in soldato di professione. Ed il più antico ritmo artificiale, che abbia mai trovato un senso pratico attraverso i gesti delle moltitudini, è la musica. Tra tutte le espressioni di un qualsiasi tipo di creatività, quella maggiormente utile ad accompagnare i gesti, certe volte assolutamente distanti dal suo contenuto. In altri casi, cadenzati e addirittura migliorati dal susseguirsi delle note calibrate ad uno scopo evidente. Chi può davvero garantire d’altra parte, nel fragore coincidente a un luogo simile, che la voce e direttive dell’ufficiale supremo, possano effettivamente essere udite dai suoi sottoposti? Chi se non l’aeneator, soldato veterano esperto suonatore di strumenti a fiato, esonerato dalle mansioni o i compiti eccessivamente rischiosi. Proprio perché sua, era la responsabilità di prolungare e ottimizzare l’opportuna ricezione della mente al comando. Figura nella fattispecie non dissimile, all’interno delle presenti circostanze, da quella del suonatore sperimentale Abraham Cupeiro, famoso in Spagna soprattutto per aver ricreato e portato in tour il corna o “corno di mucca”, desueto attrezzo sonoro utilizzato dai pastori della Galizia medievale. Ed ancor più di ciò, anche nel resto del mondo, grazie alla sua lunga passione nel dimostrare l’utilizzo specifico di taluni storici strumenti musicali tipici dell’Antica Roma, utilizzati in maniera continuativa almeno dall’introduzione della legione mariana (fine II sec. a.C.) fino alla caduta dell’Impero d’Occidente (476 d.C.). Come questo eccezionale cornu o grande tuba a forma di lettera G con asta di sostegno lignea centrale, qui utilizzato nel museo archeologico della provincia di Hispaniola per creare un’atmosfera unica capace di portare la mente ad antichi conflitti e le specifiche metodologie impiegate per risolverli a vantaggio della maggior gloria dell’Eterna capitale del mondo. Una prospettiva che val bene ricordare, in qualsivoglia tentativo di comprendere le circostanze in cui simili suoni rimbombavano sulla testa delle persone…

Leggi tutto

Batte forte a Barcellona: lo spettacolo anatomico dell’ultra cuore

Sede dell’anima, nucleo dell’appartenenza, simbolo profondo dell’identità pensante. Ma non è il cervello; piuttosto il singolo motore, mera pompa idraulica di quel sistema funzionale che siamo soliti chiamare “umano”. Le valenze filosofica e allegorica del muscolo cardiaco rappresenta molto probabilmente un’eredità acquisita, risalente a quando gli antichi filosofi ne intuivano l’importanza, ma non necessariamente la sua funzione. Eppure tanto interessanti come associazioni, così congrue, da essersi dimostrate durature al di là di molte altre notazioni simili, rimanendo parte dell’immaginario collettivo nell’epoca post-moderna. Tra le cui ragioni, e ce ne sono molte, riesce facile individuarne una principale: il “cuore” è Bello. Affascinante nelle sue figurative allegorie, come quando viene disegnato nelle tavole anatomiche, con pratiche didascalie per i suoi atri, valvole e grandi vene di rifornimento. Magnifico durante la catarsi del trapianto, quando la prosecuzione del suo battito, assieme alla preziosa vita che tutela, può essere tenuto in mano e sollevato dal chirurgo che si appresta a compiere l’impresa cruciale. Un dottore come quelli che hanno elaborato la trafila, ed acquisito la preziosa laurea, tra le mura prestigiose della Facultat de Medicina, nella grande capitale della Catalogna. Graziata in occasione dello scorso 29 settembre, giornata mondiale dedicata alle malattie cardiache, da un’incombente, variopinta opera monumentale dell’artista internazionale Jaume Plensa i Suñé; il celebre creatore d’inusitate sagome e altrettante impressionanti suggestioni, con le sue numerose statue in luoghi pubblici e teste di donna dalle proporzioni distintamente allungate. Che nel caso di questa sua notevole creazione, realizzata nel 2015 per un contesto totalmente differente in Germania, ha deciso piuttosto di attenersi alla realtà esteriore del soggetto rappresentato, niente meno che il cuore stesso. Di un’altezza pari a circa 10 metri, perfettamente adatti ad incastrarsi tra le costole temporanee di un colonnato di ordine corinzio che potrà anche non essere il più famoso della città, ma rappresenta senz’altro uno dei più scenografici. Nonché l’ingresso maggiormente fotografato dell’Hospital Clínic de Barcelona, pregevole struttura neoclassica dei primi del Novecento dell’architetto Ignasi Conrad Bartrolí i Puigventós, modellata sui nosocomi francesi del XIX secolo. Già graziato all’epoca da un frontone scultoreo sull’evoluzione della medicina di Rafael Atché Farré, ma destinato in questo caso a diventare, almeno per qualche giorno, una cornice caratterizzante dell’arte ben più Moderna…

Leggi tutto