Consideriamo, come riferimento, due galassie. La prima creata nel vortice incontrollato di materia all’origine dell’universo, in un turbinìo plasmatico d’idrogeno ed elio, raffreddatosi gradualmente fino al formarsi di molti milioni di stelle, ciascuna delle quali dotata della sua collana di pianeti. A causa dell’intenso calore primordiale dovuto alla relativa densità di materia, tuttavia, nessuno di questi ultimi assume un aspetto del tutto solido e adatto alla vita superiore, disegnando un panorama cosmico di sfere celesti splendide, quanto largamente incontaminate. Nel nostro secondo termine di paragone, invece, l’universo ha già una lunga storia alle spalle. Una stella particolarmente grande attraverso un ciclo durato svariati eoni, raggiunge lo stadio di supernova, ingrossandosi fino all’esplosione, dalla quale scaturisce una quantità inusitata di materiale, che dovrà dare forma ai corpi celesti a noi più familiari. Mentre il nucleo centrale si trasforma in un buco nero, quindi, il gelo siderale si propaga improvvisamente per pervadere ogni cosa. A partire da quel momento, alcuni dei pianeti diventano roccia fusa, poi iniziano a ricoprirsi d’acqua. La prima cellula, intesa come struttura pulsante di esseri che nuotano, respirano e mangiano i loro simili, non può che essere il passaggio successivo. Quale di queste due evenienze relative alle origini del Tutto, dal punto di vista umano, dovremmo considerare maggiormente unica e preziosa? Nel primo caso il “sapore” dell’esistenza può dirsi più coerente, ovvero utile ad osservare l’espressione della natura pura e incontaminata, intesa come massima espressione della catena di causa ed effetto. Nel secondo, invece, albergano aromi prodotti da circostanze imprevedibili, ciascuno dei quali destinato, un giorno, a trasformarsi in un profondo mistero.
Siamo talmente abituati a consumare il caffè caldo, preparato possibilmente attraverso il pratico sistema della caffettiera italiana, che non abbiamo più concezione del modo in cui, negli antichi paesi di provenienza di questo letterale nettare degli Dei, esso è stato apprezzato a temperatura ambiente, attraverso approcci tanto diretti, quanto inerentemente funzionali allo scopo di trasformare i semi di una simile appartenente tropicale alla divisione delle angiosperme, in un infuso prontamente assimilabile dall’organismo umano. Le ragioni sono molteplici, a partire dalla fatica che comportava, prima dell’invenzione dell’elettricità, mantenere accesa e scoppiettante una fiamma viva, senza considerare la letterale impossibilità di raggiungere le pressioni necessarie a dare origine alla nostra beneamata versione espressa della bevanda. E se non puoi avere le cose subito, tanto vale farle per bene. Giusto? Così abbiamo cognizione del modo in cui le popolazioni d’Etiopia e delle regioni confinanti d’Africa e Arabia, erano solite sminuzzare i chicchi e lasciarli a bagno anche per molte ore, ottenendo una sostanza densa che, successivamente, veniva allungata con l’acqua prima di berla, possibilmente tutta d’un fiato. Ma forse l’espressione destinata a lasciare un segno maggiormente indelebile di questo approccio possiamo trovarla nell’assai più recenti 1600 d.C, quando sulle navi degli esploratori olandesi, la ciurma era solita assumere caffeina attraverso metodi largamente simili, evitando così di mettere a rischio zone incendiabili delle loro navi, con il valore aggiunto che il caffè preparato a temperatura ambiente, in genere, riesce a conservarsi bevibile per oltre una settimana. Quando costoro giunsero, tra i molti luoghi, nell’arcipelago d’isole situato all’estremità orientale del mondo, i nativi che non avevano mai assaggiato niente di simile rimasero immediatamente colpiti. E come loro massima prerogativa attraverso la corrente di pensiero e i molti esperimenti del cosiddetto rangaku (studi della gente d’Olanda) iniziarono subito a pensare come potesse essere migliorata.
C’era stata la grande battaglia di Sekigahara, a quei tempi, e i molti signori della guerra perennemente intenti a combattersi si erano riuniti sotto un solo stendardo, dando origine al grande governo pacificatore dei Tokugawa. Mentre il paese rifiutava quindi in maniera formale ogni contatto con l’esterno, diversamente dalla politica dei commerci praticata da molti dei daimyo (signori feudali) dell’epoca precedente, nelle grandi città costiere, all’interno di quartieri speciali adibiti allo scopo, l’interscambio coi visitatori europei continuava indisturbato. E fu per la prima volta a Kyoto, per quanto ci è dato di sapere, che a qualcuno venne in mente di costruire una di queste torri. Forse la maniera più lenta, eppure a suo modo apprezzabile, di assaggiare questo sapore che toglie il sonno, acuendo al contempo la sensibilità delle percezioni, sebbene in maniera leggera. Andando a costituire un’ulteriore espressione della forma di doping maggiormente diffusa e accettata al mondo. Detto questo, è indubbio che occorra una certa dose di pazienza…
gastronomia
L’antico Sputnik di terracotta del vino georgiano
“L’origine di tutto” è un concetto per lo più soggettivo, che può configurarsi sulla base di quali siano, in effetti, i requisiti necessari per prendere in considerazione un concetto o un’idea. Per quanto concerne l’esplorazione spaziale, generalmente, si sceglie generalmente il lancio in orbita dello Sputnik 1 dal cosmodromo di Baikonur, satellite sferoidale il cui nome significa in russo “Compagno di viaggio” rimasto nei nostri cieli per 92 giorni a partire dal 4 ottobre del 1957. Nel settore vinicolo invece, altro fondamentale recesso approfondito dall’esplorazione umana, la questione è decisamente più complessa, con diverse nazioni che vorrebbero, ciascuna a suo modo, reclamarne il primato storico. Alcune decadi fa presso l’insediamento di Dangreuli Gora nella valle di Marneuli, tuttavia, una scoperta archeologica sembrerebbe aver fatto molto per schiarirci le idee: attraverso gli strati di terra smossa, riemerse un recipiente del VI secolo a. C. dalle dimensioni simili a una damigiana, al cui interno erano presenti alcuni vinaccioli, ovvero i semi dell’acino d’uva. E per quanto diverse spiegazioni alternative fossero state prese in considerazione, tutti dovettero concordare, dinnanzi all’evidenza, che qualcuno doveva pur averceli messi. Qualcuno che, decine di secoli prima di quanto fosse stato ritenuto possibile in precedenza, stava mettendo in pratica la fermentazione del vitis vinifera, subs. sativa: ovvero in altri termini, si stava apprestando a bere una delle più influenti, importanti e pervasive bevande dell’intera vicenda umana. Ora in epoca più recente, a partire dall’anno 2000, ulteriori scoperte hanno rafforzato il concetto, ciascuna associata a un contenitore di terracotta progressivamente più grande. Il che, del resto, aveva certamente un senso: siamo, dopo tutto, in Georgia, dove il tannino sprigionato dalle doghe delle botti viene considerato deleterio per il gusto di ogni bevanda alcolica, così come l’alternativa moderna del metallo, troppo impersonale e priva di un carattere duraturo. Ragione per cui, attraverso il percorso della civiltà, un’alternativa è stata trovata nella creazione del Qvevri (ქვევრი) un possente vaso dalla capienza media di 800-1.000 litri, con una forma ovoidale e una dimensione vagamente reminiscenti dell’argentea freccetta orbitale russa. Il che significa che volendo, una persona potrebbe facilmente entrarci dentro. Ma anche nel qui presente caso, non è affatto consigliabile, né salutare.
Il Qvevri o Kvevri (c’è una storia divertente in merito alla traslitterazione, secondo cui sarebbe stata preferita la Q soltanto perché “tondeggiante” come l’oggetto associato alla parola) è uno di quei metodi alla base stessa di una particolare cultura, tuttavia rimasto letteralmente ignoti al di fuori del loro territorio di appartenenza. Almeno fino al 2013, quando venne iscritto dall’UNESCO alla lista dei patrimoni intangibili dell’Umanità. Privilegio apparentemente superfluo, per un popolo che li venera come letterale Uovo della Creazione alla base stessa della propria visione gastronomica del mondo, eppure funzionale a un Rinascimento tutt’ora in corso, per una prassi artigianale ormai portata avanti soltanto da poche aziende rimaste operative, con passaggi tramandati attraverso una lunga ed articolata storia familiare. Poiché di certo, produrre una risorsa simile non è semplice, particolarmente quando si sceglie di farlo senza ricorrere a macchine automatiche, sfruttando l’alternativa delle proprie stesse mani, l’unica, per inciso, che possa garantire un’alta considerazione da parte di alcuni dei più rigidi guardiani delle usanze pregresse, i vinai. Con la premessa che ci sono diversi approcci alla costruzione, molti dei quali gelosamente custoditi come fossero dei veri e propri segreti, esiste un consenso sui passi principali necessari per poter accedere alla versione Georgiana del vino: si inizia plasmando l’argilla in una serie di stretti cilindri, fatti asciugare al sole e poi disposti in circolo su strati successivi. Un rispetto preciso delle proporzioni da parte dell’artigiano, a quel punto, dovrebbe donare al costrutto una solidità paragonabile a quella del sistema dell’arco, in cui ciascuna molecola sostiene tutte le altre, nell’agglomerato proficuo di un fluido che era stato, soltanto pochi giorni prima, del tutto Newtoniano. Una volta ottenuta la forma desiderata, grosso modo corrispondente a quella di un limone, i nuovi vasi vengono inseriti all’interno di un forno di cottura grande approssimativamente come un garage, dove verranno mantenuti ad alte temperature per un periodo di almeno tre giorni. Una volta che essi avranno assunto una colorazione tendente all’arancione, indicativa dello stato solido raggiunto, verranno tirati fuori uno alla volta, per passare alla fase successiva della loro preparazione…
In India tutti pazzi per il cocomero bitorzoluto
Nella più profonda giungla dell’alto Kerala, un dramma si consuma in prossimità della cima di un grande albero. Ma tra le due creature coinvolte, almeno in apparenza, una sembra del tutto inconsapevole della situazione. E ti credo. Avete mai sentito parlare di uno roditore, per così dire, perspicace? Persino se si tratta di un Ratufa indica, comunemente detto scoiattolo viola gigante, della lunghezza di 36 cm più mezzo metro circa di coda, intento a consumare il pasto capace di dare un senso ulteriore alla sua giornata. Ma se tale essere, mentre mastica la buccia coriacea coi denti aguzzi sembra assumere in se il significato prototipico del termine “voracità” è nel frattempo il macaco, che appare intento a spintonarlo e schiaffeggiarlo con enfasi, a personificare il concetto tipicamente umano dell’incontenibile cupidigia. “Lascialo. Lascialo. Vattene via.” Sembra esprimere a gesti, mentre dimentica ogni norma del quieto vivere come sa fare soltanto chi subisce il fascino di un potentissimo desiderio. Ma alla sua controparte, di un simile prepotenza ben poco importa, mentre continua a mordere e perforare, suggere e sgranocchiare. Nulla viene sprecato, tranne forse il nocciolo dei singoli semi, troppo coriaceo persino per lui. La morale di questa storia è che nulla può scoraggiare dal pasto ciò che costituisce la versione fondamentalmente sovradimensionata del topo. Oppure, soggettivamente, potrebbe essere interpretata così: “Qualunque cosa stiate facendo, se avete l’opportunità di assaggiare la giaca, fatelo subito. Qualcun altro potrebbe decidersi prima di voi.”
La giaca è quel frutto del peso di fino a 55 Kg, e il diametro di 50 cm massimi, che lascia basito chi visita per la prima volta l’India, oppure il Sud-Est asiatico, o ancora determinate regioni della costa brasiliana. Dove qualcuno, in un momento trascorso ed imprecisato, decise di trapiantare l’albero, facendo affidamento sul clima caldo ed umido della propria regione d’appartenenza. E cresce anche in Africa, questa pianta, ma di sicuro giammai in Europa (o Nord America) i continenti appartenenti, per così dire, alle regioni del Nord del mondo. Peccato. Perché chi finalmente ne assaggia il frutto, il più delle volte, finisce per descriverla come un’esperienza trasformativa, capace di connotare una visione ottimistica della natura e del mondo. A tal punto, è considerato delizioso a patto di aver raggiunto il giusto stato di maturazione, dolce come una caramella gommosa, eppure ricco di retrogusti armonici come quello dell’ananas, del mango e della papaya. E questo nonostante un aspetto che sarebbe un eufemismo definire “non particolarmente invitante” vista la buccia bitorzoluta, il colore giallo pallido della polpa e la consistenza vagamente simile a quella di una zucca. Più di un utente impreparato del web, in effetti, ha finito per confonderlo con una variante sovradimensionata del leggendario durian (gen. Durio) famoso per l’aroma maleodorante, il contenuto appiccicaticcio e il sapore descritto a seconda dei casi come “uova e formaggio” oppure “calzini bagnati”. E in effetti, alcuni punti di contatto esteriori sussistano, benché il contenuto dei due frutti non possa effettivamente essere più diverso di così. La giaca, anche detta in inglese jackfruit dal nome, secondo la leggenda, del botanico inglese William Jack (ma assai più probabilmente una mera traslitterazione ed adattamento del termine malese chakka) non viene per questo fatta oggetto di riti di passaggio o prove di forza d’animo, benché consumarla, contrariamente a quanto possa farci sembrare il succitato scoiattolo, sia un’esperienza tutt’altro che rilassante. A partire dall’apertura mediante coltello in corrispondenza del picciolo, da far seguire ad un rapido giro dell’equatore del tozzo globo, fino al cuore coriaceo della sua massa misteriosa. Un compito da portare a termine con un buon coltello, ma non il migliore coltello, questo perché secondo il racconto di tutti coloro che ne hanno sperimentato le conseguenze, nel frutto c’è una sorta di resina appiccicosa, che una volta entrata in contatto con il metallo non se ne stacca nemmeno impiegando solventi di chiara efficacia. Trasformando il suddetto attrezzo culinario, nel giro di pochi secondi appena, nel “coltello ufficiale da giaca” della vostra affilata collezione. Mentre ciò che viene dopo, il prelievo e la consumazione della polpa carnosa che incapsula i singoli semi, può essere soltanto descritto come paradisiaca… A patto, ovviamente, di aver impiegato i guanti. O di non essere, per propria imprevedibile sfortuna, allergici ai principi attivi dell’etil-isovalerato, del 3-metilbutil-acetato o del 2-metilbuitan-1-ol…
Alle ultime sorgenti del vero seltzer newyorchese
Se c’è un centro dell’alta pressione nel mondo, un luogo in cui la danza continua dei fluidi raggiunge il suo punto d’arresto, giacendo in attesa del selvaggio attimo della trasformazione, questo è certamente New York, nello stato federato di New York, contea municipale di New York. La città di gran lunga più popolosa del paese più influente, del continente più longilineo dell’interno Mondo Occidentale, per un margine di ben 5 milioni di persone, sotto cui scorrono i tubi dell’antico impianto di riscaldamento centralizzato dei grattacieli, colmi di un vapore talmente intenso che quando le usurate strutture subiscono un cedimento, pennacchi eruttano in maniera vulcanica fin sopra al tetto degli edifici, causando ingenti danni a cose, o persone che stavano momentaneamente passando di lì. Un luogo in cui i vagoni della metropolitana, anche in assenza degli addetti al compattamento umano del paese più estremo d’Asia, talvolta sono così pieni che non è nemmeno possibile chiedervi l’elemosina, suonarci la fisarmonica o pretendere di continuare la propria conversazione telefonica a tutto volume senza disturbare e irritare il prossimo, ancor più del nostra innata propensione a farlo. Dove il traffico del ponte di Brooklyn, secondo il teorema termodinamico di Bernoulli, nelle ore di punta diventa inviscido e perennemente giace, come un carico di pietre insensibili presso un affollato molo portuale. Cosa pensate che possa bere, dunque, un popolo soggetto a tali difficili prove, giorno dopo giorno della propria sovrappopolata esistenza? C’è una ragione se proprio l’America, intesa come federazione per antonomasia di un sistema di stati distinti, fu il principale paese ad implementare il teorema del proibizionismo, tentando di limitare gli scatti d’ira improvvisi e conseguentemente, ridurre gli episodi di violenza pubblici e privati. Fu certamente un bel giorno quando, stanche di veder prosperare la mala più di quanto fosse riuscita a fare fin dall’epoca delle tredici colonie, le autorità scelsero di passare a metodi più endemici ed un minor grado d’imposizioni da parte di chi dovrebbe tutelare le pubbliche “libertà”. Ma fu soltanto attorno agli anni ’50 dello scorso secolo, più o meno, che la gente imparò fortunatamente a bere l’alcol diluito con l’acqua, autoregolando l’assunzione di una simile sostanza inebriante, attraverso un particolare quanto funzionale espediente: l’apprezzamento innato verso le bollicine, un prodotto naturale della fermentazione di alcuni tipi di vino o birra, ma in quantità assai minore di quanto potesse venire indotto tramite l’applicazione di tecniche o metodologie particolari. Come quella praticata tutt’ora dall’ultima fabbrica di un fluido che avrebbe cambiato i gusti di un’intera generazione: il cosiddetto seltzer, ovvero nient’altro che l’acqua frizzante in bottiglia.
Ma non immaginatevi qualcosa di simile alla cosiddetta acqua minerale che possiamo acquistare oggi in qualsiasi supermercato. Chiamato in quei luoghi “lo champagne degli ebrei” per il rinomato apprezzamento dagli appartenenti a quel popolo venuti a vivere all’ombra dei grattacieli nei confronti di una simile bevanda, diventata negli anni un simbolo di Manhattan e Long Island esattamente come la pizza italiana, il cibo cinese o il curry delle culture d’India, un bicchiere ricolmo di vera frizzantezza newyorchese va bevuto a piccoli sorsi, pena l’arrivo una serie di singulti possenti, capaci di mandare in visibilio ogni papilla nascosta nella profondità della proprio vulnerabile gola. Per citare i ragazzi della fabbrica Gomber, l’ultima presente nel territorio della megalopoli, “Il buon seltzer dovrebbe far male” (Strano slogan, nevvero?) Ed è proprio questa famiglia yiddish immigrata da quattro generazioni a questa parte, attraverso una passione pluri-generazionale unita a un comodo sistema di approvvigionamento sul territorio della prototipica ed ormai quasi dimenticata porta accanto, che sta diventando negli ultimi anni il simbolo di un modo artigianale di fare le cose, più che mai desiderabile in questo mondo che sembra aver perso anche l’ultimo scampolo di autenticità. Sia chiaro, comunque: non è soltanto una questione di nostalgia. Perché come ama vantare nelle interviste il portavoce e membro più giovane dell’organizzazione, il vice-presidente poco più che trentenne con laurea in gestione aziendale Alex Gomberg, c’è frizzantezza, e poi c’è la vera frizzantezza. Quella che miracolosamente permane, anche dopo aver versato una parte dei contenuti, grazie a una particolare valvola a vite inventata nell’800. Componente fondamentale di molte delle bottiglie impiegate dalla sua compagnia, alcune delle quali hanno oltre un secolo d’età. Fatta eccezione per quelle moderne che un poco alla volta, in funzione dell’utilizzo assiduo, vanno a sostituire le vittime di cadute o rotture varie. “Ogni volta che se ne rompe una, piangiamo” afferma il giovane manager-cum-addetto alle consegne a domicilio. Ma loro resistono, imperterriti, convinti di fare ciò che da sempre amano più di ogni altra cosa…